La fine del disegno?

LIVIO SACCHI

In questi ultimi anni si è molto parlato di fine del disegno.
A Yale, per esempio, fra il 9 e l’11 febbraio 2012, si tenne un convegno intitolato Is drawing dead? All’evento, organizzato in coincidenza con l’apertura della mostra The Representation of Architecture, 1967-2012 dedicata al lavoro di Massimo Scolari, presero parte fra gli altri e oltre allo stesso Scolari: Mario Carpo, Peter Cook, Michael Graves, Greg Lynn, Juhani Pallasmaa, Patrick Schumacher, Preston Scott Cohen, Stanislaus von Moos, Marion Weiss.

Al simposio fecero seguito un gran numero di successivi interventi, pro e contro la tesi, fra i quali quello di Peter Cook pubblicato su “Architectural Review” nello stesso anno. Nel 2014 è stato infine pubblicato il libro di David Ross Sheer The Death of Drawing, che fa il punto sull’argomento con una lunga e articolata dissertazione1. A chi attribuire la responsabilità di tale fine? Naturalmente alla nuova, o seconda rivoluzione digitale in generale, e alla diffusione del BIM, Building Information Modelling, in particolare.

Non sappiamo in che misura l’ipotesi della scomparsa (o almeno del tramonto) del disegno come consolidato strumento di elaborazione progettuale dell’architettura sia realistica. Molti concordano tuttavia almeno sull’inizio di una nuova stagione, diversa da tutto ciò che ha segnato il nostro passato di architetti, anche quello più recente, e sulla necessità di rispondere a tali cambiamenti rifondando la nostra pratica professionale.

Già nel 2005, nel corso del congresso annuale dell’AIA, American Institute of Architects, il Pritzker Prize Thom Mayne, titolare dello studio Morphosis, rivolgendosi agli architetti statunitensi, aveva parlato della necessità di un radicale cambiamento nell’organizzazione degli studi di architettura e, soprattutto, della metodologia progettuale: il titolo del suo intervento – non equivocabile quanto esplicitamente riferito all’avvento del BIM – era Change or Perish, che suona, più o meno, cambia se non vuoi chiudere. Sappiamo tutti, in realtà, che la sfera digitale, da almeno tre decenni, ha significativamente modificato la progettualità e la prassi costruttiva da diversi punti di vista, con mutamenti che appaiono effettivamente sostanziali.

Se n’è parlato e scritto moltissimo, anche su questa rivista. Mayne, probabilmente esagerando un po’, aveva avvertito i progettisti americani che, senza convertirsi al BIM, molti qualificati studi sarebbero andati fuori mercato nel giro di cinque anni. Anche se ciò non è avvenuto, siamo tuttavia convinti che l’aut aut sia ancora valido e che ci troviamo dinanzi a una vera e propria rivoluzione, alla fine di un paradigma progettuale che ha storicamente funzionato molto bene per almeno cinque secoli e sulla soglia di una nuova era o, almeno, di una nuova stagione: una seconda rivoluzione digitale, la cui principale sfida è la riduzione del gap creato dalla prima tra il progetto, sempre più virtuale, e la costruzione, ancora inequivocabilmente reale, per citare la fortunata dicotomia utilizzata da Tomás Maldonado nel 19922.

Anticipando che ciò che fa andare sostanzialmente in crisi la progettualità consolidata, anche quella più recente che dà comunque per scontato l’utilizzo del computer, è evidentemente l’esponziale crescita della complessità che contraddistingue la contemporanea industria delle costruzioni, proviamo dunque a esemplificare, ricordando dapprima, sinteticamente, due ambiti diversi – quello formale, legato cioè alla nuova estetica derivante dalla progettazione parametrica, e quello che definiremmo smart, che non è che l’evoluzione della domotica – per poi analizzarne più diffusamente un terzo, quello più propriamente progettuale e che pertanto maggiormente ci interessa, legato infine al BIM.

Il primo esempio – la progettazione parametrica, ampiamente utilizzata da molti degli architetti più noti e celebrati dalla critica internazionale – si segnala, se non altro, per la forte componente innovativa dal punto di vista formale. Si tratta del cosiddetto Computational Design, che si riferisce alle smart geometries, utili a rappresentare le forme complesse proprie di alcune ambiziose opere: più in generale, del ricorso a superfici geometriche non elementari rese possibili progettualmente dal ricorso ad algoritmi facilmente gestibili attraverso alcuni software grafici (per esempio Grasshopper) ed esecutivamente dal ricorso a macchine a controllo numerico.
A tale famiglia è riconducibile gran parte della produzione più spettacolare e recente, in particolare quella afferente alle superfici rigate (usate peraltro con successo, e molto prima dell’avvento dei computer, già da alcuni maestri della modernità a cominciare da Pierluigi Nervi) e alle forme ameboidi, spesso arditamente quanto impropriamente aerodinamiche, tese a suggerire fluidità, dinamismo, sinuosità ecc., spesso prese a prestito da alcuni prodotti di design.

I risultati formali raggiunti, spesso interessanti, sono anche indubitabilmente esposti a un alto grado di arbitrarietà morfologica. Ricordiamo per concludere che, collegato a tale ambito parametrico, è il ricorso alle stampanti tridimensionali applicate all’edilizia (3D printing to build), che, sia pur limitatamente a volumetrie semplici, si sta diffondendo soprattutto nei casi in cui è prioritario ridurre i costi di realizzazione.

Il secondo esempio è costituito dagli edifici smart o intelligenti.
In questo caso l’apporto del digitale non incide sulle forme architettoniche, quanto piuttosto sul funzionamento della fabbrica. Una casa smart, com’è noto, è in grado di dare il benvenuto a chi vi abita aprendo le tapparelle o accendendo le luci, gli impianti di riscaldamento, condizionamentoo ventilazione; tenendo sotto controllo il livello di umidità dell’aria oppure attivando una serie di elettrodomestici; ma anche di sostituirsi al buonsenso dei suoi abitanti aprendo o chiudendone le finestre a seconda delle temperature esterne e interne o della presenza di vento o pioggia; di allertare il proprietario nel caso di visite sgradite; di adattarsi ai diversi membri della famiglia e alle loro personali abitudini, di innaffiare le piante o dare da mangiare agli animali domestici; di rispondere a esigenze specifiche, anche emergenziali: per esempio a situazioni di carenza idrica, a condizioni meteorologiche avverse o a calamità naturali; di
consentire livelli di comfort dignitosi all’interno di spazi minimi; di permettere mobilità e autonomia a disabili anche molto gravi; di proteggere gli anziani soli controllandone i comportamenti e chiedendo aiuto in caso di necessità ecc.

Collegata a tale ambito è la sperimentazione di nuovi materiali intelligenti: si pensi ai cementi trasparenti o autopulenti che sono entrati a far parte con successo della migliore progettualità contemporanea. È interessante peraltro osservare come tutto ciò possa abbastanza facilmente venire applicato alle città e all’edilizia storica: inadeguate alle esigenze della modernità (si pensi all’inefficienza dei nostri centri per il traffico automobilistico), si rivelano invece altamente flessibili ai fini della loro progressiva digitalizzazione.

Non va tuttavia sottovalutato che la trasformazione dell’architettura e della città tout court in architettura e città smart prevede anche la trasformazione di abitanti e cittadini in smart citizens: una maturazione del senso civico e, soprattutto,
dello spirito comunitario e di appartenenza non meno facile da raggiungere del retrofitting tecnico di edifici e quartieri3.

Il terzo e ultimo esempio legato alla sfera della progettazione digitale è infine costituito dal BIM, com’è noto Building Information Modelling, ma anche Building Information Management ovvero Behavioural Information Modelling: un acronimo coniato nel 1992 e ulteriormente declinabile come Land o Geospatial Information Modelling, Infrastructure Information Modelling, Landscape Information Modelling, Urban o District Information Modelling se riferito al territorio, alle infrastrutture, al paesaggio, alla città o al quartiere piuttosto che agli edifici, in francese Bâtiments et Informations Modélisés (le accezioni più aggiornate sono spesso riferite all’Information Management & Modelling oppure al Digital Engineering): un insieme di tecnologie digitali basate, anche in questo caso, su logiche parametriche che, coniugando dati geometrici e alfanumerici, sovrapponendo cioè immagini e informazioni, e assicurando coerenza alla progettazione grazie alla congiunzione con le logiche finanziarie e i quadri contrattuali del ciclo di vita del manufatto, sta assumendo importanza crescente all’interno dei processi di ideazione, rilevamento dell’esistente, progettazione, realizzazione, gestione e manutenzione dell’edificio per il ciclo completo della sua esistenza.

Le origini del BIM risalgono agli anni Sessanta nel Regno Unito. In questi primi anni del 21° secolo, molti Paesi (dallo stesso Regno Unito a quelli nordici – in particolare Norvegia e Finlandia –, dalla Francia alla Germania, dall’Australia a Singapore, da Dubai a Hong Kong alla Corea del Sud) ne hanno fatto l’oggetto di politiche strategiche innovative nel settore delle costruzioni.
L’anticipazione o il differimento delle scelte progettuali e l’integrazione fra saperi e discipline diverse, comporta la messa in discussione del primato autoriale dell’architetto da parte dei vari stakeholders, cioè, semplificando un po’, di tutti quelli che hanno in qualche modo voce in capitolo.

Detto diversamente, l’architetto non è più al centro del processo progettuale e costruttivo, non ne è più l’unico regista: il suo primato è condiviso con altri, spesso più potenti comprimari: oltre agli ingegneri strutturisti e impiantisti, ci sono i costruttori, i fornitori di materiali e componenti, i committenti, i fruitori e gli utenti, gli sviluppatori (developers), gli investitori, i venditori, gli esperti di marketing e gli operatori immobiliari, i gestori, i manutentori ecc. L’architettura si avvicina così al design e al suo classico quadrifoglio, a suo tempo delineato da De Fusco, composto da progettazione, produzione, vendita e consumo4.

Un’architettura di successo, al pari di un prodotto di industrial design di successo, è tale nella misura in cui risponde almeno a tali quattro punti. È lo stesso ruolo dell’architetto, delineato da Leon Battista Alberti come creatore di forme più che come costruttore, un ruolo che per circa sei secoli ha retto la progettualità occidentale prima e globale poi, con l’affermazione più o meno esplicita della superiorità della conoscenza teoretica su quella pratica, a essere radicalmente messo in discussione rischiando di avvicinarsi piuttosto a qualcosa di simile a quanto collegialmente esperito dai maestri costruttori medievali (fatto salvo un livello infinitamente maggiore di complessità) con conseguenze diverse: la prima delle quali è la progressiva perdita dell’autorialità e il graduale avvicinamento a forme di creatività open source.

La progettazione non si basa più sullo sviluppo di un’unica ipotesi, frutto dell’intuito creativo dell’architetto: si cerca invece di tenere in vita, il più a lungo possibile, ipotesi diverse, valutandone la qualità prevalentemente in base alle prestazioni dell’edificio e al possibile comportamento dei suoi occupanti. Si determina, nei fatti, un intreccio fra modellistica e monitoraggio di prestazioni e comportamenti: ciò modifica, epistemologicamente, la natura del prodotto immobiliare e infrastrutturale, mescolando inevitabilmente e in maniera inedita, ruoli, responsabilità e identità dei diversi attori sullascena dell’industria delle costruzioni.

L’intera commessa dipende insomma dalla qualità dei cosiddetti EIR, Employer’s Information Requirement, della formulazione dei fabbisogni informativi della committenza, e dei BEP, BIM Execution Plan, da parte di progettisti, costruttori e gestori.
Un processo progettuale che, seguendo procedure codificate quali la Work Breakdown Structure e la Organization Breakdown Structure, realizzi virtualmente, ovvero simuli la costruzione dell’opera. Inutile sottolineare che, in assenza di un committente in grado di configurare i fabbisogni di ciò che viene richiesto e acquistato, l’intero processo digitalizzato ne risulta, in larga misura, compromesso: ciò implica, per esempio, che le simulazioni didattiche, solitamente prive di richieste circostanziate, siano destinate a restare in un ambito ancor più dichiaratamente privo di relazioni con la realtà.

Di converso, il principale obiettivo del BIM è, come abbiamo detto, la riduzione del gap fra progettazione e costruzione: possiamo immaginare che ciò contribuisca ad avvicinare l’architettura al suo essere, prima di
tutto, arte del fare?5.

Le strategie BIM hanno portato alla definizione di road maps che vertono sulla Smart City e sulla Smart Land (ciò che ci riporta al secondo esempio): nel Regno Unito lo UK BIM Task Group parla di Digital Built Britain, in Germania di Bauen Digital, in Francia di Comité de pilotage; in Norvegia è stata delineata una vera e propria strategia industriale di lungo periodo denominata Construction 2025 e corredata dal lavoro di educazione culturale e strumentale dell’intero sistema dell’industria delle costruzioni da parte di una task force, attivata già a cominciare dal 2011.

Un simile sforzo di coinvolgimento di tutti gli operatori economici risulta molto più decisivo di quanto lo possano essere generiche imposizioni legislative. La Commissione Europea ha comunque recentemente istituzionalizzato e istituito una rete comunitaria di rappresentanzegovernative per i processi di committenza digitalizzati (si parla dei temi più eterogenei: dall’obbligo di considerare l’ambiente costruito come primo fattore di una strategia che include anche i trattamenti farmacologici e clinici, un problema conseguente al progressivo invecchiamento della popolazione, alla centralità delle istituzioni finanziarie chiamate a dare supporto agli investimenti immobiliari e infrastrutturali).

Un cambiamentodi paradigma che si ripercuote dunque anche sugli aspetti assicurativi e giuridici concernenti la proprietà intellettuale e la responsabilità civile e amministrativa, inclusa la cosiddetta Cyber Security. Una rivoluzione dunque, che, una volta raggiunta la sua piena esplicitazione, rischia seriamentedi escludere gran parte delle mentalità e delle professionalità attualmente prevalenti, esigendo invece competenze, culture e saperi molto distanti da quelli oggi disponibili. In un quadro sempre più futuribile, è ipotizzabile che i cosiddetti Intelligent Clients competano sui mercati finanziari globali per attirare risorse verso gli investimenti in grado di mitigare i rischi attraverso una maggiore efficienza del processo progettuale?

Che la competizione tra Paesi e soprattutto fra diverse aree metropolitane modifichi sostanzialmente l’ambiente antropizzato? Viene così data vita a una nuova progettazione integrata che non è che una vera e propria simulazione dell’attività costruttiva in tutte le sue fasi: un metodo di lavoro che consente ad architetti, strutturisti, impiantisti, paesaggisti, interior designer, costruttori, produttori, committenti, investitori, gestori, manutentori ecc. di condividere l’intero processo in maniera informatizzata e dialogare facilmente, evitando – o almeno minimizzando – errori e interferenze. In molti Paesi il BIM è visto come l’indispensabile premessa a ogni seria politica industriale nel settore edile e infrastrutturale, ha già raggiunto grande diffusione e viene – il processo è in atto da alcuni anni – reso gradualmente obbligatorio a seconda del tipo di committenza e dell’impegno economico richiesto.

Si tratta di una rivoluzione per il mondo delle costruzioni: i software BIM (quali, per esempio, Revit) sono infatti in grado di gestire, simultaneamente e in maniera coerente, diversi livelli di iconicità con una perfetta integrazione fra i primi concept ideativi, i rilievi elaborati mediante laser scanner, le rappresentazioni progettuali bi e tridimensionali, la relativa quantificazione di superfici e volumi, le specifiche tecniche esecutive, i cronoprogrammi nonché i cosiddetti as built, i grafici che registrano l’effettiva configurazione finale dell’edificio e le sue eventuali, successive modificazioni, integrando dunque le tre dimensioni dello spazio architettonico tradizionale con le variabili legate ai tempi e ai costi di realizzazione e gestione del manufatto (per cui si parla di 4D, 5D e anche 6D BIM).

Il costante rilevamento dei lavori in corso di esecuzione, una volta trasformato in grafici 2D o 3D, è utilissimo sia per certificare ciò che è stato fatto, sia per ottimizzare ciò che resta da fare. In questo senso, il rilievo entra attivamente a far parte del processo di costruzione del nuovo in maniera storicamente inedita, all’interno di una più generale trasformazione dei modelli rappresentativi dell’architettura e della città in modelli che ne consentono la simulazione. Si parla spesso, in proposito, di leverage, cioè di “far leva” o di “effetto leva”, indicando con ciò tutto quanto consente di ottimizzare previsioni e stime relative a tempi, quantità e costi.

Un’attendibile rappresentazione 3D, consente infatti di passare al 4D e al 5D: si parla di 4D Scheduling per programmare e tenere sotto controllo i tempi di costruzione e di 5D Quantity and Cost per prevedere e controllare le quantità da produrree i costi di tale produzione. Si parla infine di 6D Facility Model per tutto ciò che riguarda la gestione e manutenzione dell’edificio: il fatto che tali operazioni possano essere pianificate sul modello digitale prima di intervenire fisicamente sul campo significa lavorare di più sul software e meno sull’hardware, determinando evidenti quanto consistenti risparmi di tempo e di denaro e riducendo sostanzialmente i rischi.

Ma ciò che è più interessante è che da una parte tali tecnologie contribuiscono in maniera decisiva a impedire gli sprechi purtroppo così frequenti nelle grandi opere pubbliche italiane (dallo stadio del nuoto di Santiago Calatrava al Centro Congressi Italia all’EUR di Massimiliano Fuksas, per limitarci a citare due noti casi romani), tenendo costantemente sotto controllo i costi di realizzazione, gestione e manutenzione, coordinando ogni fase della vita di un edificio dalla sua prima ideazione fino, teoricamente, alla sua demolizione; dall’altra esse stanno sostanzialmente alterando i tradizionali rapporti fra i diversi attori sulla scena edilizia (inclusi quelli con stakeholders e stockholders, cioè con committenti, proprietari, finanziatori e tutti coloro che, a titolo diverso, esercitano poteri decisionali sull’opera da realizzare).

La posta in gioco è alta: come s’è detto, è la stessa autorialità come proprietà intellettuale dell’opera ad andare palesemente in crisi, approssimandosi alle nuove, diverse forme di condivisione proprie della contemporaneità più recente (non a caso, in contrapposizione al concetto di copyright, è stato coniato il neologismo copyleft). Parlando in generale di progettazione, Ratti ha inoltre osservato che ripartire da zero ogni volta che si vuole progettare qualcosa è semplicemente poco pratico, ed effettuare individualmente tutte le verifiche, la ricerca e lo sviluppo che la ‘massa’ è in grado di offrire, costa molto di più6.

L’architettura del nostro futuro sarà frutto di uno sforzo intellettuale e creativo collettivo aperto, come lo è già un’opera enciclopedica quale Wikipedia? I concorsi di progettazione, cui pure si continua a guardare come al modo migliore per assegnare incarichi di rilievo, non stanno forse diventando un enorme spreco di risorse intellettuali e creative? Il ruolo ricoperto dagli investimenti pubblici e privati non può, almeno in alcuni casi, cedere il passo a nuove strategie di crowd-funding sociale? E la didattica dell’architettura – ricordiamolo: arte del fare – non va radicalmente rimessa in discussione alla luce del concetto di costruzione come educazione, dell’insegnare costruendo, dell’imparare facendo, superando cioè il divario tra la sfera digitale e quella fisica, come pure già avviene nei Fab Lab di MIT e di altre sperimentali scuole del mondo?

Siamo forse agli esordi di un nuovo paradigma progettuale in cui l’architettura, come si è anticipato, diventa open source (secondo una logica ampiamente sperimentata e condivisa fra i creatori di software), frutto composito di innesti, ibridazioni e feedback diversi, aperta a una estetica hack, che significa “violazione” ma anche “improvvisazione”? In cui la professione, oggi duramente colpita dalla crisi, riuscirà i ridefinire i propri obiettivi, rendendosi più matura e consapevole del proprio ruolo sociale, dei propri limiti e dei limiti delle risorse? Di una rinnovata stagione dell’architettura della partecipazione in cui sia consentito a tutti di interagire creativamente, come già in diversi casi avviene nel campo dell’industrial design?

Per concludere, tornando al punto da cui siamo partiti: cosa ne sarà del disegno? Siamo destinati a perderlo e a perdere, fra l’altro, il rapporto tra la sua stessa manualità e quella propria dei processi costruttivi? La rappresentazione sarà sostituita dalla simulazione? Ci auguriamo, naturalmente, di no, consapevoli del fatto che le novità si aggiungono
a ciò che le ha precedute senza mai totalmente esautorarle. Ma altri interrogativi si affacciano: il tramonto della stagione, recente, in cui il disegno è stato prima di tutto strumento di comunicazione dell’architettura lo riporterà, auspicabilmente, a un ruolo di strumento privilegiato della riflessione progettuale?7.

Ancora: il nostro lungo ragionamento va riferito esclusivamente all’edilizia o va invece a investire anche l’Architettura? E infine: se siamo convinti di trovarci agli albori di una nuova era (o meglio, meno enfaticamente, di una nuova stagione) per l’industria dell’edilizia, quest’ultima sarà davvero in grado di produrre più velocemente, a costi inferiori e con minori emissioni, un ambiente costruito e infrastrutturato digitalizzato, condiviso, sostenibile, efficiente e intelligente in vista della gigantesca crescita (+ 70%) del mercato globale delle costruzioni prevista per il 2025?8. In molte parti del mondo sembra che sia già così.

Se ciò è vero, forse non ha senso piangere su ciò che è accaduto. Singoli architetti potranno restare fedeli ai propri valori, se lo vorranno, ma la disciplina nel suo insieme è già impegnata in una sfida radicalmente diversa.
In architettura, le condizioni determinate dalla simulazione, che appaiono sterili alla luce della tradizione, possono offrire nuove possibilità se viste con occhi diversi.Per continuare a fare gli architetti, dobbiamo cambiare le nostre idee9.


1.D. Ross Sheer, The Death of Drawing, Architecture in the Age of Simulation, Routledge, London and New York 2014.
2.T. Maldonado, Reale e virtuale, Feltrinelli, Milano 1992.
3. C. Ratti, Smart City Smart Citizen, a cura di M.G. Mattei, Egea, Milano 2014.
4. Cfr. R. De Fusco, Filosofia del design, Einaudi, Torino 2012.
5. Cfr. V. Gregotti, Contro la fine dell’architettura, Einaudi, Torino 2008.
6. C. Ratti, Architettura open source. Verso una progettazione aperta, Einaudi, Torino 2014, p. 71.
7. Cfr. V. Gregotti, Il Disegno come strumento di progetto, Marinotti, Milano 2014.
8. Il mercato delle costruzioni 2015, XXII Rapporto congiunturale e previsionale CRESME, CRESME, Roma 2014.
9. D. Ross Sheer, op. cit., p. 192.