La sociologia del gusto di Jean Baudrillard

GERARDO RAGONE
1. Premessa
Nell’opera di Baudrillard possono individuarsi tre aspetti principali. Anzitutto la critica che l’autore muove alle teorie economiche e sociologiche del consumo in quanto teorie parziali e di superficie, ben lontane dal cogliere le reali funzioni del processo di consumo nelle società a capitalismo maturo.

Il secondo aspetto riguarda invece l’elaborazione di una teoria sociologica del gusto ed in particolar modo dei meccanismi di differenziazione sociale operanti nella selezione degli oggetti e dei beni di consumo e nell’organizzazione dell’ambiente domestico, ossia una teoria delle «… strutture inconsce che regolano la produzione sociale di differenze…».
Il terzo aspetto riguarda infine i processi culturali ed artistici ed il significato che essi assumono nei contesti sociali caratterizzati da un’alta intensità delle comunicazioni di massa. È chiaro che questa tripartizione si giustifica solo per comodità di esposizione, ma, come si vedrà più avanti, i tre aspetti sono organicamente fusi in un solo discorso, in un unico quadro teorico, che è quello della critica della cultura borghese in quanto produttrice di differenze segniche, di valori-segno differenziali e gerarchici.
Prima di analizzare questi tre aspetti dell’opera di Baudrillard converrà allora soffermarsi brevemente sul concetto di valore-segno e sul suo rapporto con il modo capitalistico di produzione. È su questi due problemi che poggia infatti l’intera costruzione teorica del sociologo francese.
La tesi che Baudrillard sviluppa nei suoi tre principali saggi è che il modo di produzione borghese non sarebbe soltanto relativo al sistema economico del capitale, ossia alla «struttura» in senso marxiano, ma anche all’ambito dei segni propri della «sovrastruttura». Questo modo di produzione avrebbe trasformato i segni da «valori culturali» in valori di scambio generalizzati nel consumo, nella dépense, nella ricchezza come lusso e come spreco.
La «logica delle merci» avrebbe così raggiunto un
tale grado di generalizzazione da coinvolgere, oltre i processi di lavoro ed i prodotti materiali, la cultura, le arti, la sessualità, il sapere e l’intero quadro delle relazioni sociali. Secondo Baudrillard questo aspetto latente del modo di produzione borghese può essere colto soltanto elaborando una nuova teoria del consumo, una teoria cioè che consideri il consumo non soltanto come mero atto di acquisto e di soddisfazione di bisogni, ma anche e soprattutto come dépense, ossia come «…ricchezza manifestata e come distruzione manifesta di ricchezza…», quindi come competizione, scommessa, sacrificio.
Occorre, in altri termini, partire dall’ipotesi che non è il processo economico-razionale di soddisfazione di bisogni a muovere il consumismo contemporaneo, quanto piuttosto un processo sociale di «distruzione del valore economico in vista di un altro tipo di valore».
Una nuova teoria del consumo deve quindi superare il problema economico della conversione del valore di scambio in valore d’uso e porsi invece il problema della conversione del valore di scambio in valore di scambio-segno; deve cioè spostare l’attenzione dal problema economico dell’accumulazione al problema culturale della dépense e quindi considerare accanto alla logica di classe che si definisce in base alla proprietà dei mezzi di produzione, la logica sociale del controllo dei processi di significazione.
Scrive Baudrillard ne II sistema degli oggetti: Si può concepire il consumo come una modalità caratteristica della società industriale a condizione che si tolga di mezzo una volta per tutte ogni accezione corrente: processo di soddisfazione dei bisogni.
Il consumo non è una modalità passiva di assorbimento e di appropriazione da opporre al processo produttivo per equilibrare schemi ingenui di comportamento e di alienazione.
Bisogna affermare a chiare lettere fin dall’inizio che il consumo è una modalità attiva di rapporto non soltanto con gli oggetti ma con la collettività e con il mondo, una modalità di attività sistematica e di risposta globale su cui l’intero sistema culturale si fonda.
Bisogna affermare a chiare lettere che non sono gli oggetti ed i prodotti materiali che sono oggetto di consumo: sono soltanto oggetto del bisogno e della soddisfazione […]. Né il volume dei beni, né la soddisfazione dei bisogni bastano a definire il concetto di consumo: ne sono una condizione preliminare.
Il consumo non è un’attività materiale e neanche una fenomenologia dell’abbondanza. Non è definito dal cibo che si digerisce o dal vestito che si indossa […]; è la potenziale totalità di ogni oggetto e messaggio costituito in linguaggio più o meno coerente. Il consumo, se mai ha un senso, è un’attività di manipolazione sistematica dei segni.
Per diventare oggetto di consumo [il bene] deve diventare segno, cioè in qualche modo esterno ad un rapporto che significa soltanto, cioè «arbitrario» e privo di coerenza con il rapporto concreto, coerente invece e carico di senso in un rapporto astratto e sistematico con tutti gli altri oggetti-segno. A questo livello si ‘personalizza’, entra nella serie ecc.: è consumato non nella sua materialità ma nella sua differenziazione.
È facile intuire come dietro questa concezione del consumo come linguaggio vi sia essenzialmente la teoria vebleniana della classe agiata. Il loisir inteso non come passività ma come momento centrale della produzione di segni differenziali ed il paradosso dello sciupio vistoso costituiscono infatti i cardini di quella Teoria della classe agiata in cui Veblen dimostra come la produzione di una gerarchia sociale costituisca «la legge fondamentale che regola ed a cui si subordinano tutte le altre logiche coscienti, razionali, ideologiche e morali».
Secondo Baudrillard, Veblen sarebbe stato appunto il primo ad accorgersi della necessità di passare, nella teoria del consumo, dalla logica dei bisogni e della soddisfazione a quella della prestazione sociale e della produzione di segni.
I teorici critici dell’economia politica del segno sono rari e sono stati relegati, sepolti, dal terrorismo dell’analisi marxista. Veblen e Goblot sono i grandi precursori di un’analisi culturale di classe che, al di là del «materialismo dialettico» delle forze produttive, tiene conto della «logica dei valori di lusso», mediante la quale la classe dominante assicura il proprio dominio e lo perpetua con il codice, mettendola in un certo senso al sicuro, con questa «trasustanziazione» dei valori, dalle rivoluzioni nel campo economico e dalle loro ripercussioni nei rapporti sociali.
Queste dunque le premesse di una semiologia del consumo, tendente a mostrare come la logica del consumo non sia quella dell’appropriazione individuale, del valore d’uso dei beni e dei servizi, ma piuttosto quella della produzione e della manipolazione dei significati sociali. Come si è detto precedentemente, i punti centrali di questa analisi sono tre, e cioè la critica della teoria dei bisogni, l’elaborazione di una sociologia del gusto ed infine l’analisi critica dei processi artistici e comunicativi. Esaminiamoli separatamente.
2. Il problema dei bisogni
La critica che Baudrillard muove all’analisi tradizionale del consumo è di aver sempre considerato il consumatore come essere individuale dotato di bisogni e portato per natura a soddisfarli. Questa separazione dell’individuo dal bisogno sarebbe presente in tutta la teoria dei consumi: in quella economica con il concetto di «utilità», in quella psicologica attraverso la nozione di «motivazione» ed in quella sociologica con il concetto di pressione «socio-culturale».
È senz’altro vero, rileva Baudrillard, che il passaggio dal «calcolo razionale» dell’economia alla «scelta di conformità» della sociologia segni un passo in avanti nell’analisi, poiché in questo secondo caso il bisogno viene separato dall’oggetto e collocato all’interno di un’entità più astratta, quale è appunto il valore.
Ma ciò nonostante resta ancora presente nell’analisi sociologica il principio di razionalità formale dell’economia; ciò che infatti per l’economia era l’adeguamento dell’individuo all’oggetto, diventa in sociologia l’adeguamento dell’individuo al gruppo. Il «bisogno» in un caso e la «norma» nell’altro costituiscono lo strumento di questo miracoloso adeguamento.
È su questo primo, fondamentale errore che si costruirebbe poi la falsa tematica del condizionamento dei bisogni. Una volta infatti definito il bisogno come entità autonoma, individualizzabile, esterna al sociale, diventa poi facile pensare che esso venga manipolato, distorto, condizionato da qualcuno o da qualcosa, dal «sistema» o dall’imprenditore malvagio.
E di qui, osserva Baudrillard, la formazione di una pseudo-filosofia dell’alienazione di stampo idealistico: se infatti i bisogni sono determinati, se cioè esiste in natura un qualche principio di razionalità economica, diventa facile sostenere che in mancanza di manipolazione (per esempio di pubblicità) potrebbe aversi un’armoniosa organizzazione economica composta di bisogni giusti e di individui soddisfatti.
Vi sono perlomeno tre motivi per i quali, rileva Baudrillard, questa impostazione del problema deve essere rigidamente respinta. Anzitutto perché non è assolutamente possibile tracciare alcun limite tra ciò che è «naturale» e ciò che è «artificiale».
In secondo luogo perché questa impostazione porterebbe poi a definire lo sviluppo economico come una sorta di apprendimento forzato di modelli culturali avanzati, una specie di addestramento economico al consumo da parte di soggetti orientati invece per natura «… alla felicità ed all’indolenza…», il che è assurdo perché o si esclude comunque il ricorso al «naturale» oppure bisogna ammettere che esso esiste tanto nell’indolenza primitiva quanto nel forcing opulentistico.
In terzo luogo, perché dire che i bisogni sono determinati dalla produzione significa ancora una volta considerarli definiti anticipatamente in relazione ad oggetti specifici; dire cioè che il sistema produce gli oggetti di cui s’accorge che c’è bisogno (bisogno per l’utilità del consumatore, per il profitto dell’imprenditore o per la rendita dello speculatore) significa ritenere che questi oggetti preesistano tanto al bisogno quanto al progetto di fabbricarli.
Il che ovviamente è assurdo, a parte poi il fatto che al livello bisogno specifico-oggetto specifico la tesi del condizionamento e della manipolazione non regge poiché i consumatori sono sufficientemente immunizzati dalle pressioni totalitarie della pubblicità.
La verità, rileva Baudrillard, è un’altra e cioè che non sono i bisogni ad essere generati dalla produzione ma che è piuttosto «il sistema dei bisogni ad essere il prodotto del sistema di produzione. Il che è profondamente diverso: l’espressione ‘sistema dei bisogni’ serve infatti ad indicare che i bisogni non vengono prodotti uno ad uno in relazione ad oggetti specifici, ma che essi sono invece prodotti come forze consumative, come disponibilità globale nel quadro delle forze produttive».
Cioè, in quanto «sistema», i bisogni non si legano più al godimento ed alla soddisfazione; esistono come «elementi del sistema» e non come rapporto di un individuo ad un oggetto. Di qui dunque l’esigenza di superare l’ormai vecchia impostazione psico-economica del rapporto bisogno-oggetto-soddisfazione e porre invece attenzione al ruolo degli oggetti in quanto segni.
Fuori del campo della sua funzione oggettiva, dove esso è insostituibile, fuori cioè del campo della sua denotazione, l’oggetto diventa sostituibile in modo illimitato, nel campo cioè della sua connotazione, dove acquista valore di segno […]. Nella logica dei segni come in quella dei simboli, gli oggetti non sono più legati ad una funzione o ad un bisogno definito, poiché essi riflettono altre cose, cioè sia la logica sociale che quella del desiderio, a cui essi servono da campo mobile ed inconscio di significazione.
Ma se allora si ammette, conclude Baudrillard, che il bisogno non è mai bisogno di un oggetto ma bisogno di una differenza, si comprende anche perché esso, nella società dei consumi, possa restare eternamente insoddisfatto.
L’ipotesi della «negazione del godimento» è quindi il secondo punto della critica che Baudrillard muove alla teoria tradizionale dei bisogni. Occorre superare, egli osserva, la nozione ideologica di consumo come processo di godimento, per considerarlo non solo strutturalmente come sistema di scambio e di segni ma anche strategicamente come sistema di potere. Bisogna cioè convincersi che il processo moderno di consumo avviene paradossalmente «senza oggetti».
L’orientamento verso l’oggetto, verso il prodotto non sarebbe altro che l’aspetto esteriore di un processo le cui finalità sono altre, quelle cioè di produzione, attraverso segni differenziali, di un codice di valori. Come fenomeno soggettivo, individuale, privato, il godimento è insomma estraneo al consumo, che è invece un’attività sostanzialmente collettiva. «Si gode da soli — scrive Baudrillard — ma quando si consuma non lo si fa mai da soli; si entra in un sistema generalizzato di scambio e di produzione di valori codificati, dove tutti i consumatori, a dispetto di se stessi, vi sono reciprocamente implicati».
Il costituirsi del consumo moderno, sembra quindi dire Baudrillard, esprime il passaggio di un’attività sociale dal regno della natura a quello della cultura. Come semplice procacciamento di beni per il soddisfacimento di bisogni, il consumo appartiene ancora ad un livello primitivo del processo di sviluppo economico.
Ciò che infatti lo definisce oggi come fenomeno sociale è proprio il suo costituirsi come attività «morale» e come «sistema di scambio e di comunicazione». Di qui la sua analogia col sistema di parentela delle società primitive: Così come questo non è fondato sulla consanguineità e sulla filiazione ma su un ordinamento arbitrario di classificazione, anche il processo neocapitalistico di consumo non poggia sul bisogno e sul godimento ma su un codice di segni e di differenze.
Che il consumismo contemporaneo rappresenti un fenomeno sostanzialmente culturale sarebbe inoltre provato dal fatto che esso tende sempre più a porsi come dovere piuttosto che come diritto. Cioè è proprio il fatto che il godimento si sia oggi istituzionalizzato come dovere a provare che esso non costituisce più la finalità principale del consumo. La vecchia etica del lavoro e del risparmio ha infatti ceduto il posto ad una nuova etica del piacere e della felicità.
Il fun-system poggia appunto — scrive Baudrillard — su un principio di massimizzazione dell’esistenza, sorretto dalla moltiplicazione dei contatti, delle relazioni, dell’uso intensivo dei segni e degli oggetti. Ecco perché sarebbe un grave errore considerare il consumo un settore anomico; esso è invece una condotta collettiva, una morale ed un’istituzione, ed è anche un sistema di valori in quanto implica una funzione di integrazione e di controllo sociale.
È insomma «…un nuovo modo di socializzazione in rapporto all’emergenza di nuove forze produttive ed alla ristrutturazione monopolistica di un sistema economico ad alta produttività».
Se oggetto di consumo non sono quindi i prodotti in quanto «beni economici» ma i prodotti in quanto segni, in quanto simboli di comunicazione e differenziazione sociale, occorre anche rivedere certi giudizi sulla sua democratizzazione, avanzati spesso troppo disinvoltamente negli ultimi anni.
Scambiare ad esempio il superamento dei fenomeni di «consumo vistoso» per un sintomo di democratizzazione economica significa in pratica non accorgersi che in situazioni di alto sviluppo economico la disuguaglianza sociale passa anche per strade diverse dalla pura materialità delle condizioni di vita. I criteri di disuguaglianza e di differenziazione, avverte Baudrillard, si spostano sempre di più verso il campo sociale.
Sviluppo urbano ed industrializzazione creano nuove rarità: lo «spazio», il «tempo», l’«aria pura», il «silenzio», sono questi ormai i nuovi beni di lusso, i nuovi segni di prestigio esibiti dalle classi privilegiate, assieme ad altri status-symbol forse ancora più sottili, come il tipo di lavoro e di responsabilità, il livello di cultura, la partecipazione alle decisioni.
Ciò che invece occorre leggere, che occorre saper leggere, nella superiorità della «upper class» nel possesso di elettrodomestici o nel cibo di lusso, non è affatto la sua posizione di superiorità nella scala dei benefici materiali, ma il suo «privilegio assoluto», che va ricercato nel fatto che la sua preminenza non si fonda affatto sui segni del prestigio e dell’abbondanza ma su qualcosa d’altro: nella sfera reale delle decisioni, della gestione del potere politico ed economico, nella manipolazione dei segni e degli uomini, mentre rinvia gli «Altri», le classi inferiori e medie, ai fantasmi del Paese di Cuccagna.
Una nuova teoria del consumo deve quindi partire dalla premessa che non si consuma più oggi l’oggetto in sé, per il suo valore d’uso, ma che esso viene piuttosto usato come segno di distinzione che affilia al gruppo di appartenenza o ad altri gruppi. E poiché questa manipolazione sistematica di segni esprime un ampio processo istituzionalizzato di differenziazione sociale, essa risulterà evidentemente anche illimitata.
Osserva ancora Baudrillard che il consumatore vive oggi come libertà la sua condotta distintiva, senza mai percepirla come obbligo di differenziazione e di obbedienza ad un codice. Così non s’accorge che mentre le posizioni sociali mutano, l’ordine delle differenze resta invece intatto. Che, anzi, è proprio l’insieme degli sforzi che egli compie per differenziarsi che, rafforzando l’ordine delle differenze, lo condanna ad essere iscritto nel codice in termini sempre relativi. Ecco perché il consumo opulento ha un carattere illimitato ed ecco anche perché nessuna teoria psicologica o sociologica dei bisogni può metterne in luce questa peculiare caratteristica.
Tutto ciò chiarisce anche un altro aspetto rilevante di questo processo, cioè che: il consumo non è un campo omogeneo che si ripartisce statisticamente intorno ad un consumatore medio […] ma un campo sociale strutturato dove non solo i beni ma gli stessi bisogni, come i diversi tratti della cultura, transitano da un gruppo modello, da un’élite direttiva verso altre categorie sociali, secondo la loro relativa promozione sociale […]. I bisogni e le soddisfazioni filtrano in basso («trickling down») in virtù di un principio assoluto, di un imperativo categorico, il mantenimento cioè della differenziazione sociale e della stratificazione attraverso dei segni.
Alla base del consumismo c’è dunque una logica della differenziazione, una differenziazione che però supera i bisogni coscienti di prestigio e che tende a produrre individui «personalizzati» (tipico richiamo della pubblicità), diversi gli uni dagli altri secondo un codice al quale però essi stessi, nel tentativo di personalizzarsi, finiscono per conformarsi.
Un sistema di differenze che quindi non poggia più su differenze «reali» (di sesso, di religione, di razza ecc.) ma su differenze personalizzate che non oppongono più gli individui, ormai gerarchizzati su una scala sociale pressoché infinita. Né pratica funzionale di oggetti, conclude Baudrillard, né funzione di prestigio individuale o di gruppo: il consumo è solo un sistema di comunicazione e di scambio, un codice di segni continuamente emessi e ricevuti, in una parola un linguaggio.
3. La sociologia degli oggetti
Il consumo dunque come scambio socializzato di segni. Ma di quali segni si tratta e quale logica ne governa il gioco? Per capirlo, osserva Baudrillard, occorre ancora una volta partire dalla distinzione tra valore d’uso e valore di scambio. Questa distinzione, rigidamente operante nelle società primitive (il kula come «scambio simbolico» ed il gimwali come «scambio di beni primari»), è andata via via attenuandosi fino a rendersi impercepibile nelle società moderne.
Fu soprattutto Veblen a rilevarne la persistenza nelle società moderne, sia attraverso la nozione di consumo vicario quale riproposizione del «consumo simbolico» delle società primitive, sia attraverso l’analisi dell’ozio e dei meccanismi di lusso e di spreco operanti nelle «civiltà finanziarie». Ora, rileva Baudrillard, se la logica dell’ozio e dello spreco non risulta chiaramente percepibile nelle nostre società consumistiche, ciò è dovuto al fatto che essa si scontra, in questi contesti sociali, con un’altra logica, antagonista, quella dell’imperativo puritano della funzionalità. È proprio cioè il fatto che lo statuto di un oggetto derivi oggi dal compromesso tra due diverse morali, è proprio questa ambiguità culturale a renderne impercepibile l’aspetto simbolico.
Scrive Baudrillard: Ciò che importa è saper leggere ovunque, al di là dell’evidenza pratica degli oggetti e attraverso l’apparente spontaneità dei comportamenti, l’obbligazione sociale, l’etica del «consumo dimostrativo» (direttamente o per procura), e di saper cogliere pertanto nel consumo una dimensione permanente della gerarchia sociale e, oggi, nella propria gerarchia sociale, un imperativo morale sempre estremamente rigido.
Nel quadro di questa determinazione paradossale gli oggetti costituiscono perciò non il luogo della soddisfazione del bisogno, ma quello di un lavoro simbolico, di una «produzione» nel duplice senso del termine «pro-ducere»: li si fabbrica ma li si produce anche come «prova». Costituiscono dunque il luogo della consacrazione di uno sforzo, di un risultato ininterrotto, di uno «stress for achievement», che si propone di fornire la prova, permanente e tangibile del valore sociale.
È su questo terreno però che le scienze sociali registrano un grosso fallimento. A parte infatti l’analisi vebleniana, l’unico tentativo in questa direzione, ricorda Baudrillard, è stato quello di Chapin e della sua «scala del soggiorno». In uno studio su una comunità americana, condotto diversi anni fa, nel misurare lo status delle famiglie in funzione del reddito percepito, dei beni materiali, dei beni culturali e del grado di partecipazione alle attività di gruppo della collettività, Chapin si accorse che queste quattro variabili erano strettamente correlate col tipo di arredamento del soggiorno e costruì così la sua scala di status sulla base di quest’unico indicatore culturale.
Questo di Chapin, rileva Baudrillard, costituisce forse il solo tentativo di analisi degli oggetti come elementi della logica sociale della differenziazione, anche se si tratta di un tentativo ancora rozzo, estremamente semplificativo, adatto tutt’al più in situazioni di «scarsità», dove cioè è solo il potere d’acquisto a distinguere tra loro i diversi strati sociali. In situazioni di alto consumismo un’analisi come quella di Chapin si rivelerebbe invece poco utile per evidenziare la miriade di sfumature di gusto e di stile esistenti nel patrimonio di oggetti dei vari strati sociali.
Associare infatti certe configurazioni di oggetti a certi livelli di status, osserva Baudrillard, è in tali contesti inutile in due sensi: anzitutto perché la vera discriminante tra i vari strati sociali che compongono il ceto medio non passa più ormai per la quantità o per il tipo di oggetti posseduti, quanto piuttosto per le modalità di organizzazione e di utilizzazione di questo patrimonio culturale; in secondo luogo perché così facendo si finirebbe probabilmente per ritrovare negli oggetti le stesse categorie di status che erano state definite in precedenza dal ricercatore.
In quale direzione dovrebbe allora muoversi l’analisi? In direzione, precisa Baudrillard, di una vera e propria semiologia dell’ambiente e degli atteggiamenti: Un certo numero di analisi di interni e di spazi casalinghi, non fondate su un censimento, ma sulla distribuzione degli oggetti (centralità/eccentricità, simmetria/dissimmetria, gerarchia/devianza, promiscuità/distanza); sui sintagmi formali o funzionali — in breve un’analisi della sintassi degli oggetti che si sforzasse di cogliere alcune costanti di organizzazione secondo il tipo di «habitat» e la categoria sociale, come pure la coerenza o le contraddizioni del discorso — potrebbe rappresentare un livello preliminare di un’interpretazione in termini di logica sociale, a condizione che questa topoanalisi «orizzontale» si sviluppi in una semiologia «verticale» in grado di esplorare, dalla serie al modello, attraverso tutte le differenze significative, la scala gerarchica di ogni categoria di oggetti.
Chapin aveva dunque ragione nel considerare gli oggetti portatori di significati sociali, di una gerarchia sociale e culturale, di considerarli cioè un codice. Ciò che non riuscì a capire è che, proprio perché si tratta di un codice, è assai probabile che gli individui, più che seguirne le ingiunzioni, lo adottino come ogni altro codice morale, ossia a loro modo: «ci giocano, barano, lo parlano nel proprio dialetto di classe».
Una corretta analisi sociologica, rileva Baudrillard, deve quindi esercitarsi sulla base della sintassi concreta degli insiemi di oggetti, sulla base dei lapsus, delle incoerenze, delle contraddizioni di questo discorso, che non è mai in pace con se stesso (nel qual caso esprimerebbe uno «status» sociale idealmente stabile, cosa inverosimile nelle nostre società), ma, al contrario, esprime sempre, nella sua sintassi, una nevrosi di mobilità, di inerzia, o di regressione sociale; al limite, sulla base del rapporto, eventualmente disparato e contraddittorio, di questo discorso oggettuale con gli altri comportamenti sociali (professionale, economico, culturale).
Occorre, cioè, evitare contemporaneamente sia una lettura «fenomenologica», sia la mera ricostruzione formale del codice degli oggetti, il quale, in ogni caso, sebbene includa una logica sociale rigorosa, non è mai parlato come tale, ma sempre restituito e manipolato secondo la logica propria di ogni situazione.
In termini sociologici resta ora da capire quali classi sociali sono protagoniste di queste vicende socio-culturali, di queste competizioni estetiche. Se il sistema degli oggetti esprime una gerarchia di valori, quindi di attese, di preferenze e di illusioni, da questi processi sono evidentemente escluse le classi sociali «immobili», quelle cioè privilegiate e quelle subordinate, quelle esterne, anche se per motivi opposti, ad ogni competizione sociale.
Per tutte queste ragioni, per il fatto che stratificazione sociale, mobilità e aspirazioni costituiscono le chiavi di una ricerca sociologica del «mondo» degli oggetti, ciò che ci interessa particolarmente è la pratica degli oggetti (e gli aspetti psicologici che la ratificano) nelle classi in ascesa, mobili, in via di «promozione» sociale, dallo status incerto e critico, nelle classi definite medie.
Esse sono infatti la mobile cerniera di una società stratificata e si trovano in corso di integrazione o di acculturazione, in quanto tendono a sfuggire al destino di esclusione sociale del proletariato industriale o a quello dell’isolamento rurale, senza tuttavia fruire di una situazione acquisita.
Queste classi sono tuttavia consapevoli delle loro limitate possibilità di mobilità sociale, del fatto cioè che il sistema industriale avanzato non concede in fondo mai troppo in termini di carriera e di promozione sociale. Sanno insomma che gran parte delle loro aspirazioni resteranno insoddisfatte. Da questa circostanza, osserva Baudrillard, scaturiscono due conseguenze importanti.
La prima è che l’attenzione verso l’oggetto e la ricerca del prestigio finiscono per coinvolgere, oltre il comportamento pubblico, anche quello privato, cioè l’ordine domestico; siamo quindi di fronte ad un tipo di costrizione che supera l’imperativo consumistico del keeping up with the Jone’s, per toccare anche il rapporto tra l’individuo ed i suoi oggetti (ciascuno sa di essere giudicato dai propri oggetti).
La seconda conseguenza è che è proprio perché queste classi sono consapevoli del loro destino sociale che esse tendono ad accanirsi ossessivamente sull’universo privato. Non solo quindi vi sarebbe un’attenzione verso l’oggetto nel proprio universo privato, ma questa attenzione si presenterebbe anche con particolari modalità ossessive.
Il trionfalismo dei segni tipico degli ambienti medio-borghesi rappresenterebbe appunto la testimonianza segreta della sconfitta sociale di queste classi. Ecco perché Bourdieu parla in proposito di una «retorica della disperazione».
Ma con quali modalità stilistiche si esprime esattamente questa logica della disperazione? Essenzialmente due, rileva Baudrillard, e cioè la saturazione e la ridondanza. La prima è costituita dall’accumulo ossessivo di oggetti, dal sovrappiù di simboli sistemati nei vari spazi dell’ambiente domestico. La ridondanza rappresenta invece la modalità con cui queste classi cercano di sottolineare, di marcare più volte l’entità del proprio patrimonio di oggetti: centrini, coperture, sovraccoperture, doppie tende ecc., un insieme di accorgimenti con i quali si tenta persecutivamente di «segnare» i propri possessi, «l’involucro teatrale e barocco della proprietà domestica».
Emerge subito la contraddizione tra il carattere trionfalistico di questi atteggiamenti e la consapevolezza di una limitata carriera sociale. Ancora una volta, osserva Baudrillard, la risposta va cercata nella percezione che queste classi hanno del proprio status, la percezione cioè di un successo nei confronti del proletariato e di una irrimediabile impotenza a conquistare invece traguardi sociali più elevati.
Di qui appunto il doppio atteggiamento di trionfalismo e di rassegnazione, di gratificazione e di sconfitta, cioè una sorta di «compromesso sociale» che si riflette poi «nel rituale ad un tempo vittorioso e rassegnato con cui questa classe si circonda dei propri oggetti». Compromesso sociale che si riflette anche in un altro rituale, non meno tenace ed ossessivo del primo, quello cioè delle pratiche domestiche.
L’ossessione igienistica sembrerebbe infatti essere propria di questi ceti: verniciare, laccare, lucidare, super-pulire, plastificare ecc., tutte pratiche queste che rivelano l’aspirazione a costruire un mondo domestico dove le cose, le piccole proprietà, rispecchiandosi, appaiano raddoppiate o triplicate. Un’altra via, insomma, per accentuare lo schema della ridondanza.
Ed è in quest’ossessione per l’igiene rituale che vanno anche spiegate le funzioni sociali delle faccende domestiche. La mania di lucidare, spolverare, lustrare ecc. tipica della donna medio-borghese, non muove infatti da nessun modello culturale di «bellezza» ma solo da un modello morale di «pulizia».
E in tal senso che troviamo ancora un compromesso di classe: L’ossessione dell’impeccabilità, il fanatismo delle faccende domestiche corrisponde perfettamente all’esigenza di superare la stretta necessità dell’uso attraverso l’apparenza, imperativo della promozione culturale; ma, data la forza dell’etica del lavoro e del merito, quest’apparenza non può presentarsi come gratuita o prodigalità pura; sarà dunque l’oggetto di un’attività continua, di un elaborato rituale domestico, di un «sacrificio» domestico quotidiano.
Il lavoro domestico avrebbe dunque solo in via secondaria un obiettivo pratico, mentre costituirebbe essenzialmente un’attività di manipolazione simbolica. L’aspetto più patetico di questa sollecitudine, rileva ancora Baudrillard, è che essa è illimitata: Nel suo formalismo perfezionista mima l’arte per l’arte, proprio perché non è né un vero lavoro, né una vera cultura.
È una sovrabbondanza di segni di civilizzazione tagliati fuori dalla loro finalità culturale; è una retorica; è la retorica della salvezza domestica e non un’economia domestica razionale. Piena di trionfi e di sofferenze, inalterabile nel suo dogma e nel suo rituale, allineata nel suo senso: è la vera cultura della quotidianità.
Se ridondanza e saturazione costituiscono le due maggiori modalità stilistiche dei ceti piccolo e medio-borghese, ad un livello sociale superiore si afferma esattamente la negazione di queste regole e si fa strada il gusto del «naturale», del «semplice», del «rozzo», cioè uno schema culturale di povertà relativa degli oggetti.
Ma questa «franchezza dell’oggetto», osserva Baudrillard, non ha niente di naturale ma viene soltanto dedotta per opposizione dall’affettazione barocca della piccola e media borghesia: La funzione essenziale dei valori di «sincerità», di «autenticità», di «nudità», ecc. (le pareti di cemento, i legni opachi, le pelli «appena scuoiate», ecc.), costituisce pertanto una funzione di distinzione, e la definizione di questi valori è innanzitutto sociale.
Lo stesso design sarebbe quindi intrinseco alla logica della differenziazione. L’estetica funzionale da esso propagandata non farebbe cioè riferimento ad alcun valore universale, ad alcun ideale astratto di bellezza e di progresso. La funzione cui assolve è essenzialmente una funzione di discriminazione sociale: l’innovazione formale nel campo degli oggetti non ha come scopo un mondo di oggetti ideali, ma un ideale sociale proprio delle classi privilegiate: quello di rendere sempre di nuovo attuale la loro situazione di privilegio culturale.
Ai livelli sociali superiori, infine, il privilegio estetico supera anche la «franchezza dell’oggetto» per esprimersi strategicamente nella regola della «non-regola», nella pratica del disordine. Cade qui infatti ogni modalità stilistica definita e si afferma il principio della libera combinazione di tutti gli elementi. Ma siamo ancora di fronte, avverte Baudrillard, ad una regola sociale e non ad un fatto «universale», «giacché solo alcuni sono in grado di accedere a questo stadio del metodo combinatorio estetico, mentre la gran parte rimane relegata nella manipolazione morale degli oggetti domestici».
Questo gioco senza fine di differenze costituisce appunto il regno della moda. L’alternarsi delle forme, l’estenuante rinnovarsi degli stili e delle voghe, la riproduzione continua del materiale distintivo, tutti questi processi sono alla base di una strategia della moda tendente al mantenimento delle distanze sociali.
È per questo che alla goffa affettazione piccolo-borghese si sostituisce l’austerità formale medio-borghese, il lusso dell’effimero ed a questo, infine, la sofisticazione del modello combinatorio, della meditata confusione dei segni. Ed a questo gioco spietato, rileva Baudrillard, non sfugge neppure l’architettura. Per l’avanguardia infatti l’habitat futuro sta nella costruzione effimera e nel rifiuto della casa «borghese», laddove per le classi inferiori il modello «borghese» è ancora tenacemente al centro delle aspirazioni e dei sogni abitativi.
Secondo la logica della distinzione culturale, una frazione privilegiata assapora l’istantaneità e la mobilità delle strutture architettoniche nel momento in cui gli altri accedono appena alla quadratura dei loro muri. Solo le classi privilegiate hanno diritto all’attualità dei modelli; gli altri vi hanno diritto quando questi modelli sono già cambiati.
Ma dietro questo gioco ossessivo di negazione ed affermazione non vi è solo, rileva Baudrillard, una dinamica sociologica di «strato», un meccanismo superficiale di differenziazione e di prestigio, ma qualcosa di più profondo ed inquietante, qualcosa che affonda le sue radici nella divisione in classi della società; vi è, in altri termini, una strategia di discriminazione sociale e di segregazione che condanna inesorabilmente alcune classi ad un’esistenza di totale subalternità culturale.
Se cioè l’antagonismo tra classi medie e classi privilegiate si esprime solo attraverso il gioco sottile della distinzione, quello tra classi inferiori ed altre classi passa assai più drammaticamente per la discriminazione sociale. Non si dimentichi — sembra cioè avvertire Baudrillard — che dietro gli «strati» sociali esistono comunque le «classi» sociali.
Il caso dell’oggetto-televisore esprime egregiamente questo doppio processo. Il televisore, scrive l’autore, è ad un tempo due cose distinte: è un oggetto ed è un emittente. La domanda di televisione è dunque sia domanda di informazione che domanda di oggetto. Queste due cose sono però incompatibili, nel senso che a seconda che il televisore sia posseduto come oggetto o come medium, lo stesso discorso televisivo verrà percepito come oggetto o come senso. Esiste quindi una precisa contrapposizione tra la condizione di oggetto (segno, valore di scambio) e la funzione oggettiva (razionale e pratica, valore d’uso).
Ora ci accorgiamo, precisa Baudrillard, che quanto più si scende nella gerarchia sociale tanto più il televisore è acquistato come «segno», appunto perché attraverso il suo possesso si fornisce una prova sociale di integrazione e di legittimità. Ed è appunto nella misura in cui questo oggetto costituisce una prova che esso deve essere necessariamente valorizzato, quindi ostentato, esibito nel modo più completo.
Senonché in queste classi l’appropriazione degli oggetti non avviene soltanto in quanto questi rappresentano dei segni, ma anche perché essi rappresentano un capitale, che come tale deve produrre un reddito, deve in qualche modo «rendere». Di qui la visione sistematica, non selettiva di tutti i programmi televisivi.
In altri termini, secondo Baudrillard nelle società industriali gli oggetti non sono mai solo meri feticci, dato che in queste società s’impone sempre l’imperativo tecnico del funzionamento: l’oggetto non è quindi mai solo un segno, una testimonianza, ma anche un capitale che deve produrre i suoi frutti, e quindi «l’apparente passività delle lunghe ore di visione» non deve ingannare dato che essa nasconde anche una laboriosa pazienza.
Riassumendo: la quantificazione della «vision», legata alla sua «passività», rimanda ad un imperativo sociologico di rendimento, ad un «oggetto-capitale», ma, a sua volta, questa «capitalizzazione» è un elemento sovradeterminante rispetto a una costrizione sociale più profonda di prestazione simbolica, di legittimazione, di credenziali sociali, di «mana», che si ricollega all’«oggetto-feticcio».
Mentre dunque pratiche razionali fondate sulla funzione e sul senso caratterizzano il comportamento delle classi privilegiate, pratiche rituali centrate sull’oggetto segregano invece inesorabilmente le classi subordinate in un universo magico e privo di senso. Ora, conclude Baudrillard, solo una teoria della cultura può rilevare questo tipo di contraddizioni, questa strategia sociale antagonista.
Quale è stato invece il contributo delle scienze sociali fino ad oggi? Pressoché nullo, se si considera che sociologia, psicologia ed economia o hanno costruito delle tautologie fondate sulla separazione dell’oggetto dal soggetto, oppure hanno elaborato teorie sulla base dei concetti anacronistici di «bisogno» e di «soddisfazione».
Così da Lazarsfeld a Katona, da Merton a Chombart de Lauwe tutta la teoria sociale del consumo ha sempre finito coll’arrestarsi di fronte al problema centrale della differenziazione sociale. Nella migliore delle ipotesi si è detto che i bisogni sono funzione della storia e della cultura, riproponendo così per altra via il postulato dell’uomo dotato di bisogni e di una naturale inclinazione a soddisfarli.
Senonché il vero guaio, precisa Baudrillard, è che tutti i risultati ottenuti a questo livello di indagine non sono falsi quanto piuttosto parziali, e ciò solleva il sospetto che essi non servano in fondo che ad una sola cosa, cioè a scongiurare il vero pericolo di un analisi radicale, quella della logica della differenziazione sociale: Non si tratta delle motivazioni di prestigio, di «status», di distinzione, un livello ampiamente tematizzato dalla sociologia contemporanea, ma che tuttavia rappresenta soltanto l’estensione parasociologica dei dati psicologici tradizionali.
Che gli «individui» (o gruppi individualizzati) siano, «coscientemente» o al «livello subconscio», in cerca di un rango sociale e di prestigio, è vero; e questo aspetto deve venir preso in considerazione in ogni analisi. Ma il livello fondamentale è quello delle «strutture inconsce» che danno un ordine alla produzione sociale delle differenze.
4. Il mercato dell’opera d’arte
Ma quale differenza esiste tra la dinamica dei consumi e della quotidianità e quella riguardante invece i prodotti culturali in senso stretto, ad esempio le opere d’arte? Secondo Baudrillard nessuna, dato che entrambi i fenomeni poggiano sulla stessa logica della differenziazione sociale e della trasformazione dei valori di scambio in valori di scambio-segno. Cioè anche qui siamo di fronte non alla logica di classe che si definisce mediante la proprietà dei mezzi di produzione, ma alla logica di classe che si definisce mediante il controllo del processo di significazione. Ora questa logica, afferma Baudrillard, la troviamo per intero nel fenomeno dell’aumento di prezzo dell’opera d’arte.
Ciò che infatti caratterizza l’incontro tra venditore ed acquirente di un’opera d’arte, non è la formazione di un mercato economico in senso stretto, ossia di un luogo dove si equilibrano valore di scambio offerto e valore d’uso previsto, ma piuttosto la costituzione di un particolare rapporto sociale, di tipo simbolico, rituale, che, attraverso la negazione del valore di scambio e la sua trasformazione in valore di lusso, ossia attraverso la negazione del rapporto di scambio vero e proprio, tende all’istituzione di una comunità di privilegiati che si riconosce appunto nella «competizione agonistica organizzata intorno ad un corpus limitato di segni».
Nel fenomeno dell’aumento di prezzo dell’opera d’arte si realizzerebbero così simultaneamente due distinti processi: uno riguardante la trasmutazione del valore e delle coordinate economiche; l’altro tendente invece all’istituzione di un nuovo tipo di rapporto sociale.
Quanto al primo, Baudrillard osserva che: il denaro, nel momento cruciale dell’aumento, viene negato come valore di scambio e trasformato, dalla «dépense», in un valore di lusso indivisibile. In tal modo questo diviene omologo all’oggetto unico ed indivisibile che è il quadro come segno. Tra il denaro, divenuto materia di lusso per la perdita del suo valore di scambio economico ed il quadro divenuto segno di prestigio (elemento di quel «corpus» limitato costituito dalla pittura) per la perdita del suo valore simbolico, si stabilisce non più un’equivalenza, ma una «parità» aristocratica.
Questo processo è dunque esterno allo scambio economico in senso stretto. Come nella festa o nel gioco, anche qui il vero senso dello scambio sta nell’istituzione di una comunità di pari, di un gruppo privilegiato, di una casta, che si produce in una competizione agonistica (quindi non un mercato) attorno ad un corpus limitato di segni (quindi non intorno ad un valore d’uso). Diversamente quindi dallo scambio economico, non è qui in gioco la riproduzione allargata del capitale e della classe capitalistica, ma la produzione «di una casta per grazia collettiva di un gioco di segni e della produzione di questi segni mediante la distruzione del valore economico».
Ora, secondo Baudrillard, il processo di consumo, sebbene in maniera limitata ed indebolita, riflette appunto questo singolare scambio di lusso, questo modello aristocratico di competizione. Riflette cioè ancora lo schema tradizionale del potlacht, anche se ora le differenze sono prodotte industrialmente sotto forma di modelli collettivi ed anche se, in seguito ai mezzi di comunicazione di massa, «ad operare nella concorrenza di status è solo ormai il simulacro della competizione».
La «dépense» ha perciò cambiato radicalmente di senso. Rimane tuttavia il fatto che, in quanto nel consumo massificato si riattiva il fantasma collettivo dei valori perduti (di lusso), questa pratica può essere vissuta individualmente come gratificazione, come libertà, come realizzazione e pertanto funzionare come ideologia.
Persino questo simulacro di un codice differenziale aristocratico agisce ancora possentemente come fattore di integrazione, di controllo, come partecipazione alla stessa «regola del gioco». Il prestigio ossessiona ovunque le nostre società industriali, la cui cultura (borghese) non è che il fantasma dei valori aristocratici. Ovunque si riproduce collettivamente, al di là del valore economico e a «partire da questo», la magia del codice, la magia di una comunità elettiva e selettiva, legata dalla stessa regola del gioco e dallo stesso sistema di segni.
5. Da Veblen a Baudrillard: per una Teoria della classe «disagiata»
Non è agevole trarre conclusioni puntuali dall’analisi di Baudrillard, o perlomeno non è agevole farlo sotto il profilo sociologico. Mentre infatti da un lato la teoria di Baudrillard offre un’ampia gamma di stimolazioni teoriche, di «provocazioni» scientifiche che valgono a scuotere l’intero edificio dottrinario del consumo e dei bisogni, dall’altro lato essa solleva anche alcune perplessità di cui occorre tener conto in sociologia e di cui lo stesso Baudrillard sembra talvolta essere pienamente consapevole.
Una prima perplessità sociologica riguarda il rapporto tra vecchi e nuovi ceti medi. Sembra cioè che nella sua analisi il sociologo francese abbia prevalentemente sotto gli occhi l’opulentismo europeo degli anni sessanta. In tutti e tre i saggi spira in altri termini un’aria pre-sessantottesca che rende discutibili alcune generalizzazioni. Quali sono infatti i principali connotati di questo opulentismo pre-sessantottesco?
Essenzialmente due, e cioè l’alto grado di mobilità sociale degli strati inferiori ed intermedi di popolazione (da cui la forte aspirazione al consumo dimostrativo) ed in secondo luogo l’incremento continuo di potere d’acquisto individuale per tutto il decennio 1958-1968. In altri termini, la società cui Baudrillard fa riferimento è quella società consumistica «spumeggiante» del decennio scorso inserita nel circuito neo-capitalistico consumo-aspirazioni-consumo e fortemente dominata dal mito dello sviluppo economico e del progresso illimitato.
Ora, questa società non esiste più, nel senso che non solo sembra essersi arrestato il suo tasso di crescita, quanto anche i valori, i miti e le illusioni che a quella crescita erano legati, sono venuti via via mutando. Il mondo consumistico attuale è insomma un mondo assai più disincantato di quello che Baudrillard acutamente esplora nei suoi saggi, soprattutto per il fatto che esso è indubbiamente più povero — o meno ricco — del primo.
Per esempio, la Società dei consumi si apre con una sottile descrizione dei santuari del benessere neocapitalistico, gli shopping centers di Parly 2, i luoghi incantati ed onirizzanti dove si condensano tutti i sogni individuali e le aspirazioni collettive dei nuovi ceti emergenti.
Ma questi santuari sono appunto oggi in crisi; vendono meno e vendono anche cose diverse, perché il consumatore dispone ormai di meno reddito, soprattutto di meno reddito «discrezionale». Insomma se è incontestabile che il consumismo pre-sessantottesco sia stato un grande fenomeno di collective behavior, una grande festa collettiva, è anche vero però che oggi questa festa è finita, anche se non è cessato il consumismo.
La domanda che allora nasce è se i fenomeni di differenziazione, di comunicazione e di promozione sociale descritti da Baudrillard si presentino ancora oggi in una situazione di riflusso collettivo, di insicurezza e, per molti aspetti, anche di nuova maturità politica e civile.
Analizzando, ad esempio, le modalità stilistiche della piccola e media borghesia, Baudrillard scrive che: questi modelli di riferimento non sono quelli delle classi superiori contemporanee, nella misura in cui queste ultime sono caratterizzate da un’inventiva molto più ampia. Il riferimento cui si affidano le classi «in via di promozione sociale», è l’ordine borghese tradizionale, quale si è imposto a partire dall’Impero e dalla Restaurazione e che era a sua volta un adattamento dei modelli aristocratici precedenti.
Ma quali sono oggi le classi in via di promozione sociale? Ed è proprio certo poi che l’ordine borghese tradizionale costituisca ancora il loro unico quadro di riferimento? Probabilmente no, se si considera che crisi dell’occupazione ed austerità hanno da un lato proletarizzato vasti strati di ceto medio e, dall’altro, vanno via via sollecitando in altri strati sociali o in altri gruppi — per esempio quelli giovanili — l’affermazione di un’etica somigliante assai più a quella puritana del lavoro e del risparmio che non a quella neocapitalistica del consumo e del loisir.
Non a caso una rivista di arredamento come Abitare lancia da alcuni anni un messaggio abitativo povero e casual che ha indubbiamente poco a che vedere con le piccole ossessioni barocche della borghesia degli anni sessanta.
Tutto ciò non vuol dire che il neo-capitalismo degli anni ottanta abbia interamente rovesciato i codici del consumismo opulento e che, pertanto, l’analisi di Baudrillard poggi oggi sul vuoto. Vuol dire soltanto che l’integrazione sociale presupposta nella sua analisi non è oggi più così compatta come lo era nel decennio scorso e che, quindi, alcuni aspetti della Società dei consumi e della Critica dell’economia politica del segno andrebbero rimeditati alla luce dei recenti avvenimenti politici e sociali.
Come fecero i Lynd per Middletown, probabilmente anche Baudrillard dovrebbe oggi scrivere una Società dei consumi rivisitata. A questa prima critica «esterna» all’analisi di Baudrillard se ne può subito aggiungere una «interna», ossia direttamente legata alla logica del suo discorso. È il problema del rapporto tra pratiche razionali e rituali e classi sociali. Si ricorderà come Baudrillard consideri rituali certe pratiche di consumo delle classi subalterne o in via di promozione sociale, e razionali o oggettive quelle della élite privilegiata dominante.
Questa differenza si riscontrerebbe, ad esempio, in alcuni processi di fruizione culturale, come la televisione, che nella classe inferiore produce essenzialmente una «economia magica», mentre in quella superiore dà luogo ad una pratica culturale oggettiva e razionale.
Oppure nell’organizzazione dell’ambiente domestico dove, ancora, l’élite dominante organizza autonomamente e creativamente il proprio ambiente (metodo combinatorio estetico), mentre gli humiliores inaridiscono nella manipolazione morale degli oggetti domestici.
In altri termini, secondo Baudrillard, ai livelli inferiori della stratificazione sociale, l’esigenza di prestigio e di promozione sociale, di legittimazione, finirebbe per distruggere ogni funzione oggettiva, ogni pratica razionale, trasformandola in funzione simbolica e rituale, laddove ai livelli superiori e di dominio la realtà verrebbe invece aggredita con i soli strumenti dell’oggettività e della razionalità.
Tutto ciò è verissimo, ma è vero proprio in tutti i casi e per tutte le pratiche culturali? Possibile che non esista «ritualità» nei paradisi sofisticati dell’élite dominante? È senz’altro vero che in questi strati sociali la televisione è usata «razionalmente», ossia soltanto come medium, ma come sono usate molte altre cose? Pensiamo alla «prima» di un film di successo, ai cerimoniali delle Accademie o dei clubs riservati; quale razionalità nei premi scientifici e letterari o nelle mostre d’arte?
D’altronde lo stesso Baudrillard rileva acutamente nella Critica che «i congressi servono al progresso del sapere proprio quanto le corse dei cavalli ed il totalizzatore al progresso della razza equina».
Non sarebbe allora il caso di dire che se esiste una logica contraddittoria della razionalità e della ritualità, questa esiste per ogni classe sociale, quindi anche per quella che organizza combinatoriamente il proprio habitat; che, cioè ogni classe fa in qualche modo uso di miti, riti e simboli, anche se l’oggetto di queste simulazioni culturali è diverso? (Si veda ad esempio A. Ross, «U» e «non-U», in Noblesse Oblige, a cura di N. Mitford, Hamish Hamilton, Londra, 1973; oppure II salotto cattivo, Almanacco Bompiani, 1976).
È insomma certamente vero che, ad esempio, dietro le faccende domestiche si nasconde una «retorica della salvezza», una disperazione spesso ossessiva per il proprio destino sociale, così come accade anche per la visione indiscriminata di tutti i programmi televisivi; ma non è lo stesso per i tornei di bridge o per gli appuntamenti nei teatrini underground, per le vacanze a Porto Cervo o per il safari sudafricano?
Baudrillard ha certamente ragione quando afferma che l’ostentazione è in fondo il linguaggio della disperazione, del fallimento sociale, ma non è lo stesso per la negazione dell’ostentazione, per la pratica culturale del sobrio e del discreto, per il lusso dell’effimero, per quella «strategia del sotto-consumo ostentativo», di cui già molti anni fa Riesman aveva intuito l’importanza?
D’altronde egli stesso osserva che: è sulla base del lusso che si consuma la semplicità perduta — e questo effetto lo si ritrova a tutti i livelli: è sulla base della condizione borghese che si consumano il «miserabilismo» ed il «proletarismo» intellettuali, come, su un altro piano, è sulla base di un passato eroico e perduto che gli americani dei nostri giorni partono in viaggio di piacere collettivo per cercare l’oro nei fiumi del West.
Ovunque questo «esorcismo» degli effetti inversi, della realtà perduta, dei termini contraddittori segnala un effetto di consumo e di superconsumo che ovunque si integra con una logica della distinzione.
E più avanti, discutendo del Kitsch: non si tratta qui di bellezza, si tratta di distintività, e questa è una funzione sociologica. In questo senso tutti gli oggetti si classificano secondo la loro disponibilità statistica, la loro quantità più o meno limitata, gerarchicamente come valore.

Questa funzione definisce ad ogni istante, per un certo strato della struttura sociale la possibilità di distinguersi, di indicare il proprio status attraverso queste categorie di oggetti e di segni.

Se allora ogni strato sociale, ogni classe sociale ha il suo Kitsch, se è sempre in gioco una simulazione, se insomma ad ogni livello sociale bisogna comunque fare i conti con le proprie possibilità di status, ciò significa probabilmente che la pratica rituale del consumo tocca l’intera gerarchia sociale e che, forse, la stessa pratica razionale degli oggetti debba essere più propriamente intesa come una pratica rituale di segno inverso.
Un’ultima perplessità riguarda infine la ricerca empirica. Come trasferire sul piano della ricerca la logica dei processi di differenziazione teorizzata da Baudrillard? Nei suoi testi non c’è traccia di indicazioni in questo senso, né possono essere d’aiuto i riferimenti, pur illustri, a Goblot, Veblen o alla scala del soggiorno di Chapin. Scrive Baudrillard che oggi la discriminazione sociale è passata, con l’elevarsi del tenore di vita, dal possesso puro e semplice all’organizzazione ed alla pratica degli oggetti, e che, quindi, una classificazione sociale dovrebbe fondarsi su una semiologia più sottile dell’ambiente e degli atteggiamenti quotidiani.
La struttura globale dell’ambiente non deve essere cioè direttamente collegata ad uno status più o meno assegnato e classificato in anticipo, ma deve essere analizzata come «… un elemento della tattica sociale degli individui e dei gruppi, come un elemento vivente delle loro aspirazioni…». Benissimo: ma come operare concretamente in tal senso? Con quali strumenti avviare una ricerca del genere? Purtroppo su questi problemi Baudrillard non dà alcuna indicazione, il che comporta il rischio che una «sociologia degli oggetti» finisca per restare confinata nel limbo, pur suggestivo e stimolante, della sola riflessione teorica.
tratto dal numero 39