Assenza – presenza: due modelli per l’architettura

FULVIO IRACE
Scopo di questo articolo intende essere la formulazione di una proposta di lettura delle vicissitudini attuali della disciplina, delle varie poetiche, delle susseguentisi dichiarazioni di principio, dei contrapposti schieramenti, di tutto ciò, insomma, che costituisce l’intricato paesaggio dell’architettura negli ultimi anni: l’avanzamento, cioè, per l’architettura di due modelli culturali in conflitto, quello della presenza e quello dell’assenza.

Inizialmente elaborati da R. Barilli per essere applicati alla narrativa, essi sono stati poi estesi a tutto l’ambito della ricerca artistica, con particolare attenzione a quanto è avvenuto nelle arti visive o plastiche; e finalmente a una sede generale di «pensiero», ovvero di proposte metodologiche, epistemologiche, psicologiche, …relative almeno alle cosiddette scienze umane.
I due modelli, ottenuti mediante la voluta accentuazione di alcuni aspetti dell’esperienza storica contemporanea, assumono così un valore semplificatorio nei riguardi della realtà: si tratta di una operazione di semplificazione e quindi di alterazione e parzializzazione, completamente giustificata però dai fini conoscitivi che si propone.
Giacché, se è vero che una contrapposizione dei due modelli può apparire, in taluni casi, eccessivamente schematica, dato l’intersecarsi di talune esperienze che sembrano oscillare tra l’uno e l’altro polo, va però considerato che essa rende, nel complesso, evidente il senso delle opposizioni e meno frammentario il campo delle conoscenze, permettendone la classificazione all’interno di due grossi schieramenti concettuali.
D’altra parte non si può dire che manchino nel campo della storia e della progettazione esempi recenti di riduzione, mediante l’inserimento di elementi di catalizzazione delle varie esperienze.
La proposta zeviana delle sette invarianti del codice anticlassico mirante alla riduzione dei testi alla lingua, nella convinzione che il passaggio storia-progettazione deve essere mediato dalla lingua, pena la non comunicazione; la fondazione da parte di A. Rossi di una architettura di tendenza,
che sottolinea la propria componibilità e l’esistenza di un ristretto numero di elementi, un mondo rigido e di pochi oggetti, in cui come osserva E. Bonfanti, la riduzione degli elementi… vada a vantaggio della loro intensità, sono testimonianze di un unico stato di disagio di fronte alla confusione e alla miseria della disciplina: tentativi — sia pure di opposto segno — di ritrovare il filo rosso di una razionalità perduta nei meandri della storia recente dell’architettura.
Questa, infatti, dopo lo sgretolarsi dell’apparente fronte unito del M.M. — di fronte ai primi scacchi della storia — sembra destinata a consumarsi in un ritmo continuo di giochi oppositivi, tra chi mantiene intatta la fede nella funzione di propulsività sociale dell’opera architettonica, e chi, invece, di tale ruolo intende condurre una verifica interna, secondo i modi e le tecniche del proprio specifico sapere.
In realtà questa dicotomia — resa esasperata in architettura dal suo doversi confrontare con il più o meno dichiarato funzionalismo che percorre, a partire da Vitruvio, tutto l’iter del suo pensiero — sembra caratterizzare tutto il campo dell’esperienza estetica in generale: da un lato l’artista si concentra in se stesso, riflettendo sui propri procedimenti e sulle funzioni mentali che stanno a monte di essi; dall’altro, si sporge sul mondo, penetra nello spazio e in qualche modo lo modifica.
È una bipolarità, infatti, che nasce all’ombra di una frattura e interessa l’intero campo del linguaggio nelle sue svariate manifestazioni: è la separazione — indicata da M. Foucault — della primitiva coesistenza delle parole e delle cose nella unità dell’atto linguistico, la rottura dell’antica solidarietà del segno e del significato nel legame del principio di Somiglianza.
La lingua rompe la sua vecchia parentela con le cose. Anzi, cose e parole si separeranno. L’occhio sarà destinato solamente a vedere; l’orecchio solamente ad udire. Il discorso… non sarà più nulla di ciò che dice.
La registrazione di questa frattura nel campo del linguaggio architettonico risulta contenuta nella disputa settecentesca sulle origini della architettura: nei due termini, cioè, — per natura e per convenzione — in cui si consumava la querelle tra i sostenitori dell’assunto che l’architettura sia un’arte fantastica e di pura invenzione e i sostenitori dell’architettura come imitazione della natura.
È appunto in tale dibattito che si cela il tentativo di esorcizzare il pericolo imminente della perdita definitiva della organicità della forma: è l’ideale della totalità e dell’universalità che è ormai entrato in crisi.
Il passaggio dall’unità rinascimentale dell’atto architettonico, alla coscienza di una frantumazione della solidarietà delle sue componenti, è così sinteticamente descritto da M. Tafuri: da uno stato di fusione fra codice architettonico e funzioni collettive (simboliche e pratiche nello stesso tempo) si passa ad una «grammatica generale» fra la fine del ‘500 e la fine del secolo successivo… per approdare, fra gli inizi e la fine del ‘700, ad una indagine su ciò che rende possibile l’architettura: sul suo sistema di significati, vale a dire, in relazione a coloro che li fondano.
All’insegna di tale frattura, l’architettura è apparsa dominata dal desiderio di liberarsi dalla sua coscienza infelice, dalla aspirazione a ritrovare il suo io originario, inseguendolo nello spazio del mito o nella proiezione dilatata dei suoi compiti. L’aspirazione alla totalità appare quindi come conseguenza diretta della caduta dei suoi significati, della perdita dell’aura.
La nozione di totalità — già di per sé intimamente connessa alla nozione stessa di arte — è stata infatti generalmente enfatizzata e posta in posizione di centralità da tutte le poetiche contemporanee, finendo con l’alimentarne spesso pratiche di rievocazione ed illusioni di sconfinamento.
Tuttavia, nell’ambito di tale nozione, mi pare giusto distinguere una fondamentale divaricazione tra due diversi atteggiamenti nell’accogliere questo concetto di totalità.
Il primo, quello che R. Barilli chiama l’atteggiamento romantico-idealistico, compendiato nella nozione dell’universale concreto, impone uno scaglionamento diacronico della vita dello spirito, per cui il tutto conseguito per via di sentimento è necessariamente anteriore a quello conseguito per fasi logiche.
Esso porta alla morte dell’arte e al suo dissolversi nella realtà mondana, senza che al suo interno sussista alcun gioco di alternanze ed opposizioni: totalità, insomma, come fusione e sintesi.
Di contro, si profila una attitudine diversa che, riallacciandosi al plurisecolare quadro precedente delle istituzioni del gruppo didattico-retorico, abolisce la diacronia tra le facoltà umane e teorizza forme di coesistenza tra la conoscenza sensibile e persuasiva della retorica e quella razionale della logica, scongiurando per tale via la morte dell’arte.
A tal punto, la nostra proposta dei due modelli culturali, inquadrabili nelle posizioni sopra descritte, acquista, se non una piena legittimità, per lo meno un titolo di qualche pertinenza, considerando che la convinzione della odierna sovra-strutturalità dell’architettura tende sempre di più a svincolarla dai legami della sua necessarietà e a legarla, in qualche modo, al generale campo della esperienza estetica contemporanea.
Conviene infatti ricordare che entrambe le ipotesi qui esaminate danno per scontato a questo livello materiale-culturale, il raggiungimento di una tecnologia, di un tipo di rapporti e scambi con l’ambiente tali da consentire un largo afflusso di beni, uno sganciamento quasi totale dal lavoro faticoso e vessatorio, l’acquisizione di un vasto margine per attività immaginative ed estetiche.
Presenza e assenza non sono, quindi, tanto commensurabili alla loro presa effettiva sulla realtà — che entrambe si pongono nei suoi riguardi solo come modelli di pensiero — quanto piuttosto riferibili ad una volontà diversa di rapportarsi ad essa: la linea della presenza mira ad una conquista della realtà mondana mediante il suo progressivo sconfinamento in essa; quella dell’assenza, invece, giudicando inattuale la credenza in una realtà presente ed accogliente, sposta l’accento sui problemi del linguaggio e della specificità disciplinare dei campi operativi, accettando di operare in un ambito strettamente disciplinare.
La presenza al mondo viene recuperata dal primo atteggiamento attraverso una posizione di sostanziale positività di fronte alle cose, che tende ad istituire con essa un rapporto volto a privilegiare il momento dialettico con la realtà esterna, rispetto a quello analitico con la realtà disciplinare.
Lungi dall’essere un atteggiamento omogeneo, esso piuttosto costituisce il fondo comune a differenti pratiche, tutte fondate, però, sul presupposto che un cambiamento dei rapporti rovesciati architettura-pratica del reale sia possibile, attraverso uno sconfinamento dell’architettura stessa dai vecchi parapetti dei suoi già discussi confini disciplinari.
L’architettura eventuale, quella tecnologica e l’architettura come pratica politica sono i tre filoni principali attraverso cui si mira al recupero del reale come raggiungimento di una totalità non distorta.
L’architettura eventuale come tecnica della imprevedibilità tende alla riutilizzazione della pratica del quotidiano nell’attestarsi dell’evento, dell’imprevisto, in un gioco in cui, nella dialettica variabili-costanti, l’accento è tutto spostato sulle prime. I suoi riferimenti sono sempre diretti ad una produzione senza architetti, alla non-città, alle pieghe nascoste della realtà ufficiale delle discipline. Il suo fondamento sembra essere etico prima che estetico, teso anzi al recupero della esteticità nella categoria della eticità.
La ricerca di una nuova fonte della creatività coincide, quindi, con la ricerca della fonte del rapporto umano, con un modo più originario di essere, di lavorare, di utilizzare le teorie e i metodi già conosciuti. Da questo deriva l’esistenza e il senso di incontro col mondo. L’ipotesi-fine è quella di una architettura fatta da tutti, in cui, però, entri tutta l’esperienza di tipo scientifico, tecnologico e linguistico del mondo moderno.
L’architettura cessa, cioè, di essere un campo specifico per esistere solo come intersezione di elementi ed aree eterogenee, fatti incontrare e reagire all’insegna dello spreco di sé, secondo una serie di reazioni imprevedibili, verificate in situazioni limite.
Così i fitti patterns geometrici nelle architetture disegnate di Dalisi, pur recando in sé le tracce di una memoria antica dell’architettura per i tracciati regolatori, i giochi intersecati delle linee direttrici sono ben lontani dal valere come schemi regolatori di prodotti finiti, come momenti di verifica dell’oggetto architettonico, ma diventano essi stessi elementi del gioco, mossi da impossibili accelerazioni e segmentazioni, in cui il segno, non fermandosi mai, produce solo e sempre altro segno.
Coerentemente, infatti, ad una impostazione mirante alla dissoluzione dell’oggetto, viene rifiutato l’uso di forme desunte dalla geometria euclidea (cubo, cilindro, sfera), cercando un superamento della figura attraverso un suo sconfinamento in processo geometrico.
La stessa compresenza di elementi di razionalità costruttiva (seppur rivisitata al di fuori degli schemi convenzionali del funzionalismo) e di elementi apparentemente eterogenei appartenenti più alla sfera del vissuto che non a quella del costruito) rievoca per taluni aspetti l’architettura dell’effimero, che pure aspira a disfarsi nella festa, attraverso le libere maglie della sua ambiguità.
L’architettura tecnologica, invece, richiamandosi ad una presunta oggettività del reale nei confronti di una pratica ideologica dell’architettura, presume di trovare la sua fondazione nel proporsi appunto come pratica a-dialettica dell’oggettività dei rapporti di produzione. Essa, ponendosi come neutrale, alienandosi dal piano delle scelte formali, compie, in effetti, una radicale scelta, quella della alienazione totale dal suo corpus storico.
Il mito, infatti, è quello della architettura ex-machina, di una tecnica dell’architettura, cioè, che si ponga al di là del campo dell’arbitrio e della possibilità, rifugiandosi nell’immagine rassicurante della tecnologia come pratica astorica capace di far discendere la sua necessità d’essere, la sua fondazione dalla oggettività dei bisogni, in relazione alla quale essa neutralmente svolge i suoi servigi.
Il limite di tali ricerche è, forse, da individuare nell’insufficiente grado di criticismo che le caratterizza, nell’indiscriminato ed acritico recupero di una utopia di salvezza, nella mancata articolazione dei gradi processuali che legano la realtà presente ai futuri assetti possibili.
Atteggiamento più coerente, allora, sembra essere quello di chi, sospendendo realisticamente il giudizio sull’architettura come momento conoscitivo, ne riduce di fatto la specificità a semplice sussidio della pratica politica.
L’architettura diventa strumentazione tecnica per poter agire sui rapporti produttivi, sui meccanismi di consumo e di controllo, sulla città, insomma, come corpo sociale, all’interno di una visione che la trascende come problema specifico, spregiudicatamente utilizzandola e finalizzandola ad una pratica politica più generale. In tal modo essa segna il definitivo trapasso dalla sfera della sua specificità per alienarsi nella totalità dei suoi modi d’uso.
Si perde, infine, come discorso su se stessa, compie un ultimo, perentorio passo verso la sua totale scomparsa come oggetto, per disfarsi nel divenire continuo del reale, dipendendo la sua stessa possibilità d’essere dalla aderenza alle pieghe delle cose.
Mentre, quindi, quello che abbiamo definito modello della «presenza» punta complessivamente ad una diffusione nelle strutture del reale, ad un immergersi nel fluire degli avvenimenti, a collocarsi come parte di una totalità già in essere, il secondo modello, quello dell’assenza, mira piuttosto alla creazione di una totalità in vitro, alla messa a punto di un universo artificiale attraverso la composizione di frammenti di universi passati e possibili, allo spazio raggelato del mito, alla ripetizione consapevole di antichi gesti, nella speranza di riprodurre il meccanismo dimenticato del piacere.
Sulla scorta di tale modello di pensiero, rifuggendo la credenza di una volontà redentrice che si è voluto conferire all’architettura o all’arte, l’architettura tende a riguardare la storia come evento, come distesa di simulacri, con l’atteggiamento laconico di chi si rifiuta di distinguere tra architettura moderna o no, nella consapevolezza che solo si tratta di operare una scelta tra certi tipi di modelli.
Significativamente, quindi, R. De Fusco, introducendo la nozione di codice virtuale per caratterizzare la produzione architettonica più recente, ne indica le componenti fondamentali negli elementi della storia e dell’utopia, avvertendo che come per l’utopia conta l’intenzionalità, per la storia conta la dimensione della memoria. Una memoria collettiva ed universale senza la specificità di un tempo e di un luogo…
I tentativi di ricucire la forma con la ripresa di antiche geometrie settecentesche dei fratelli Krier, negli interventi per Leinfeld ed Echternach; il complesso della Siemens A.G. a Monaco di J. Stirling (con l’introduzione della forte dimensione semantica delle torri circolari e la riproposizione — attraverso la figura della valle sociale — di alcuni temi ricorrenti dell’architettura neoclassica; il centro civico di Derby, dello stesso Stirling, con la sua esplicita volontà di ricreare la tipologia della piazza italiana come fulcro ambientale; gli aaltiani alloggi per la Olivetti di Meier con la ripresa della gradonata dell’architettura rinascimentale, costituiscono, pur nella diversa declinazione del rapporto storia-progetto, fasi differenziate di una analoga volontà di ricreare la distrutta dimensione amorosa dell’architettura, come spazio del superfluo e dell’artistico.
L’architettura, costretta all’autoridimensionamento dalla storia, consuma così il suo dramma di essere pura evocazione, memoria di se stessa.
Significativamente A. Rossi, parlando dei monumenti come di frammenti di una realtà sicura scrive: I monumenti, i palazzi del Rinascimento, i castelli, le cattedrali gotiche, costituiscono l’architettura, sono parti della sua costruzione. Come tali ritorneranno sempre non solo e non tanto come storia e memoria, ma come elementi della progettazione.
Lo spazio operativo dell’architettura diventa, così, come nella borgesiana Biblioteca di Babele, il luogo di coesistenza di tutti i linguaggi concepiti o immaginati, il riprendere i materiali culturali del passato e riproporli in costellazioni diverse, attraverso abili giochi combinatori.
È un gioco di ripetizione che assume in blocco tutta la storia attraverso cui l’architettura è andata parlando: infatti il procedimento tautologico, riflettendo l’assunto che il segno non sta più dalla parte del mondo, ma solo e interamente dalla parte del linguaggio, tende a ribadire il carattere di piena artificialità del costrutto architettonico, il suo dover essere puro linguaggio.
Ma l’architettura, per poter essere puro linguaggio, totale analiticità, deve porsi come pratica dell’impossibilità, costringersi nei limiti del disegno, diventare una cardboard architecture, come appunto i modellini di Eisenman, che per primo ha avanzato la sigla di architettura concettuale.
In effetti, la sospensione del momento semantico e il privilegiamento di quello sintattico come il solo che permette l’accesso all’analisi — operazioni che sono alla base della House I, II, II, IV di Eisenman — alludono alla possibilità di una sorta di azzeramento linguistico, di ritorno allo stadio zero della scrittura, mirante a depurare il meccanismo retorico dell’architettura da tutte le sue incrostazioni stilistiche, per dispiegarlo nella sua nuda modalità di funzionamento, basato sulle figure degli spostamenti, delle rotazioni, delle interpenetrazioni.
La forma archetipica del cubo — nei vari diagrammi del processo compositivo — assunta, all’inizio, nella sua fenomenologica essenza di struttura primaria, viene, in una sequenza di fasi successive, suddivisa, scomposta, ruotata, sovrapposta, contrapponendo ad una griglia strutturale, vuoto reticolo geometrico di fondo, l’affiorare di bianchi volumi al suo interno sospesi.
Giustamente Tafuri parla di spazio virtuale, che rifiuta ogni percezione realistica, ogni connotazione semantica, per sondare puramente il meccanismo compositivo nelle sue qualità di relazione, nel rapporto che si instaura tra segni e strutture profonde: rapporti che — avverte Eisenman — esistono indipendentemente dalla concretizzazione stilistica attribuita a qualsiasi specifica struttura formale.
Il processo muove, quindi, dalla formulazione geometrica del dato e si articola per geometrizzazioni successive, mantenendosi sulla scia di una tradizione culturale ed architettonica tipicamente europea. Ancora una volta la storia diventa una specie di filtro attraverso cui setacciare le relazioni tra forme ed idee, da cui estrarre il senso di quelle che egli stesso definisce relazioni invarianti.
Sotto tale luce appare congruente l’attenzione rivolta essenzialmente ai lavori rinascimentali di Palladio e di Vignola e a quelli moderni di Le Corbusier e Terragni.
Per i primi conviene ricordare il carattere di sistematica analiticità della loro opera, fondata sulla serialità, ripetuta e variata, di un unico corpo tipologico, sull’uso sistematico di una geometria regolatrice come strumento di controllo delle relazioni tra le parti.
È giusto parlare, nel caso di Terragni, di tonalità sospesa, ricca di evocazioni magiche e novecentiste, quella dimensione del magico che reintroduce di soppiatto, nella lucida destrutturazione del segno ridotto a puro significante, la significazione soppressa.
Viene allora il dubbio che una dimensione puramente analitica per l’architettura non sia possibile, giacché essa non può rinunciare totalmente alla sua funzione ermeneutica, come vorrebbe il progetto più rigorosamente analitico.
Più esatto, allora, parlare con K. Frampton di edificio come rudere, di passeggiata architettonica in mezzo alle rovine, di una dichiarata convinzione, insomma, che la sola possibile condizione dell’architettura sia quella di una sorta di archeologia della architettura stessa, dissimulata in Eisenman dal suo essere concentrata non sulla rivisitazione stilistica, ma sulla sfera dei procedimenti mentali che preesistono e presiedono agli aggiustamenti progressivi dell’idea di forma.
Tale carattere di archeologica rivisitazione dei segni architettonici è ancora più evidente nella One-Half House 10 di Hejduk e nella Casa e Studio R. Gwathmey di C. Gwathmey (e R. Siegel), componenti con Eisenman, Graves e Meier del gruppo dei «five».
È una strategia comune di composizione per frammenti, deformate citazioni dal purismo lecorbusierano, raggelate derivazioni dal neoplasticismo di De Stijl.
Ma ciò che in Hejduk appare come raggrumato contrapporsi dell’arbitrarietà dei segni intorno alla nuda piattezza di un evento centrale (sia esso il tema del muro come nella Wall-House; o del percorso come nella Bye-House), diviene nella Casa-studio Gwathmey esplosione del segno nella sospesa indifferenza del vuoto circostante, metafisico trascorrere dello sguardo sulla inutile purezza dei frammenti.
Testimonianze tutte di una tendenza a trascendere l’ordinario, di una volontà di creare lo straordinario, senza la quale non c’è arte, ma solo esperienza rigidamente limitata, giacché l’arte è una risposta a tutti i dati, la definizione di priorità pratiche ed estetiche.
Sorta di historical graffiti dell’architettura moderna, le opere dei «five» rappresentano, complessivamente, il tentativo di costruzione di una linea critica e poetica attraverso cui recuperare la concretezza del lavoro intellettuale, arrestarlo sull’orlo della voragine che ne stritola lo scheletro stesso, impietrirne, su quell’orlo l’immagine.
Ma sono essi davvero — i «five» come A. Rossi, Stirling, Krier,… — solo gli ultimi portatori di spazi indicibili, o non piuttosto i realistici edificatori di una pratica diversa della architettura; coloro che, nella accettata sovrastrutturalità del proprio ruolo, cercano di indicarne i limiti e allo stesso tempo le possibilità, trascurate da una critica spesso, a tal proposito, reticente?
Le alternative, allora, tra un codice da reperire per l’architettura moderna e quelli dell’architettura classica, tra la necessità di dover sempre creare forme nuove e la ripetizione «differente» di tutte le forme, tra la volontà comunque di essere dell’architettura e l’anatema ideologico da parte della critica appaiono in tal luce come astuzia di una ragione nascosta, opposizione figurata di una retorica del reale che mima i procedimenti del fare e della critica al fare, attraverso la messa in forma di figure che riempiono lo spazio vuoto tra la totalità confusa del senso comune e quella frantumata della disciplina.
Non si dà, infatti, reale opposizione tra i due termini dell’antinomia, se non nei limiti di una comune retoricità discorsiva, giacché, come avverte R. Barthes, tutto ciò che è toccato dal linguaggio è… in un certo modo, rimesso in causa: la filosofia, le scienze umane, la letteratura.
La critica stessa, legata a filo doppio all’oggetto del suo contendere, ne segue, comunque, le medesime oscillazioni: se si ammette, infatti, una dialettica della prassi progettuale tra un modello della presenza e un modello dell’assenza, è facile comprendere le analoghe oscillazioni della critica, a sua volta costretta a giocare il suo ruolo tra uno sconfinamento nell’aperta compromissione con l’oggetto del suo giudicare e un complementare ritagliarsi una sua sfera di autonomia valutativa.
La crisi dell’oggetto si accompagna, insomma, alla crisi del commento.
La critica, da un lato, si oggettivizza, diviene operativa, si pone come pratica che sostituisce al rigore analitico giudizi di valore già costituiti, validi per l’azione immediata.
D’altra parte, però, tende a radicarsi nel mondo della storia, a divenire pratica di analisi che, nel respingere la tentazione di lasciarsi coinvolgere a prospettare indirizzi, ritrova, in una rinnovata efficacia valutativa, il suo statuto fondante, un suo autonomo esistere.
All’architettura che assorbe in sé già gli strumenti della critica, questa risponde con un suo rilanciarsi come progetto o ritagliandosi un ruolo su posizioni di autonomo distacco dall’oggetto della sua analisi.
In realtà, testo e critica come elementi di un discorso separato sorgono a partire da una premessa comune che entrambi li coinvolge.
L’ordine classico del linguaggio, identificato da M. Foucault come la matrice epistemologica del XVII e XVIII sec., si è ora chiuso su se stesso, perdendo la sua trasparenza e la sua funzione primaria, che consisteva nel dato per cui le cose del mondo potevano essere conosciute solo attraverso la sua mediazione, in esso ricevevano i loro primi segni, ritagliavano e raggruppavano i loro tratti comuni, instauravano rapporti di identità o d’attribuzione.
A partire dal XIX secolo, col ripiegarsi del linguaggio su se stesso, si registra l’affermarsi della consapevolezza di una sua trasformazione da entità strumentale ad entità autonoma, di un suo distacco dall’oggetto della rappresentazione, per divenire da strumento noetico oggetto di conoscenza tra tanti altri. Sulla base di questa caduta, si innestano i sottili meccanismi di reazione, le compensazioni al livellamento del linguaggio, le tecniche correlative della interpretazione e della formalizzazione, le due grandi forme di analisi del nostro tempo.
Le due tecniche, in realtà, si fronteggiano: la prima con la pretesa di far parlare il linguaggio al di sotto di se stesso e il più vicino possibile a ciò che in esso, senza di esso, viene detto; le seconde, con la pretesa di controllare ogni eventuale linguaggio, e di dominarlo mediante la legge di ciò che è possibile dire.
Un eguale destino li accomuna, entrambi parte di un medesimo testo, figure di una comune retorica che li consuma nella finzione di tale opposizione.
La scelta non è fra il passato che credeva al senso e il presente (l’avvenire) che ha scoperto il significante, fra chi crede di farsi protagonista ad occhi aperti della tragedia e chi l’avverte invece già consumata, già tutta recitata.
In realtà il silenzio dell’architettura è il silenzio della critica: come per l’architetto, anche al critico non resterà, allora, che scrivere, tacere.
Bisognerà invece evitare di esorcizzare il pericolo della morte, impegnandosi, tra critica e testo, ad esplorare fino in fondo il senso della propria crisi: non viverlo nello spazio disincantato del proprio distacco, né in quello ipnotico di uno sterile lasciarsi andare.
Ancora una volta non si tratterà di ricercare la parola originaria perduta nei meandri della storia, nell’al di fuori del mito, ma di turbare le parole che diciamo, di denunciare la piega grammaticale delle nostre idee, di dissipare i miti che animano le nostre parole, di rendere di nuovo fragorosa ed udibile la parte di silenzio che ogni discorso porta con sé nell’enunciarsi.
tratto dal numero 37