Chi ha paura del cannocchiale?

UMBERTO ECO
Una immagine può rappresentare relazioni
che non vi sono!!! Com’è possibile?
(Wittgenstein, Quaderni, 30-9-74).
La semiotica contemporanea si è riposata per lunghi anni su una tripartizione che sembrava soddisfare le esigenze del buon senso, quella tra simbolo, indice e icona. La triade appariva così comoda che si tendeva a dimenticare l’origine peirciana, la si mutuava piuttosto dalla trattazione morrissiana, e in ogni caso non la si problematizzava troppo.

Era chiaro, il rapporto tra la parola / sedia / e una sedia è convenzionale e arbitrario; quello tra una immagine di una sedia e una sedia è iconico, perché la sedia raffigurata ha qualche proprietà delle sedie reali; e il rapporto tra il mio dito puntato sulla sedia e la sedia è indicale, perché implica la compresenza.
Naturalmente permanevano perplessità circa la nozione di indice (quale è la differenza tra il dito che punto su una bandiera, per mia iniziativa, e la direzione del vento che la bandiera, garrendo, suggerisce per forza di inferita causalità?) e rimanevano oscuri i rapporti tra indice e icona (una foto sembra una icona, ma è il risultato di impronte lasciate da un oggetto reale, dunque è l’indice di una causalità inferibile), ma tutti erano piuttosto tranquilli circa i rapporti tra arbitrario (convenzionale e magari persino «digitale») e motivato (o analogico, o iconico).
La foto di Brigitte Bardot è diversa del nome / Brigitte Bardot /. Nessun dubbio. Infatti sui passaporti delle brigate rosse si può lasciare un nome falso ma occorre mettere una foto vera. Il linguaggio verbale è arbitrario e le immagini disegnate sono iconiche. Non si rifletteva molto sul fatto che la differenza tra / Tamburino arresta Miceli / e / Miceli arresta Tamburino / non è soltanto politica, è anche iconica, perché lo spostamento di posto, da destra a sinistra, implicherebbe un deprecabile spostamento di significato: dunque l’iconico si nasconde anche in seno ai sistemi detti arbitrari.
Ma non si rifletteva neppure sul fatto che posso interpretare una foto
di Giannettini come il volto di un pacioccone innocente o come quello di un astuto intrigante, e che quindi la convenzionalità culturale (i prima e i dopo non iconici) mi orientano nell’interpretazione delle immagini: la convenzione si annida all’interno di quel trionfo dell’iconismo presunto che sono le immagini visive.
Credo di essere stato il primo, almeno in questo paese, con Appunti per una semiologia delle comunicazioni visive (Milano, Bompiani, 1967) e poi con La Struttura assente (Milano, Bompiani, 1968), sezione B, a porre in dubbio la nozione di iconicità e ad avanzare il sospetto che essa coprisse una rosa di fenomeni ben più complessi. Una serie di discussioni su varie riviste, da Op. Cit. a Versus, ha portato avanti il discorso.
Ora debbo ammettere che questo discorso aveva dei punti di forza che costituivano altrettanti pericoli
. Per mettere in dubbio l’iconicità occorreva elaborare una semiotica antireferenziale, che facesse cioè dipendere la verifica del significato da sistemi di organizzazione della cultura (e cioè da sistemi di pertinentizzazione del campo semantico) e non dal ricorso al presunto oggetto a cui un segno si riferiva. E porre in contatto un’espressione (o un significante) con una porzione di campo semantico implicava vedere le icone come risultato di processi in gran parte convenzionali.
Di qui due rischi: l’uno, affermare che una indagine semiotica non ha nulla a che vedere coi referenti e quindi con gli atti di riferimento (mediante i quali applichiamo i segni all’indicazione di oggetti e di stati del mondo; l’altro, affermare che i segni iconici sono del tutto convenzionali. Due rischi che nei miei scritti, dalla Struttura assente alle Forme del contenuto, ho corso e di cui farò pubblica ammenda nel mio imminente Trattato di semiotica generale (Milano, Bompiani, 1975).
Perché si può asserire che vi è molta convenzione culturale nel disegno di un cane che morde un uomo, ma nulla potrà definitivamente farci abbandonare l’idea che tra quella immagine e il fatto designato vi è molta più parentela che non tra il fatto e la frase / un cane morde un uomo /. E quindi si tratterà di stabilire come vi siano dei segni in qualche qual modo motivati da stati di cose e tuttavia capaci di mediare quegli stati di cose attraverso processi di trascrizione governata da regole convenzionali. Ciò che spero di aver fatto in modo soddisfacente nel mio nuovo lavoro.
E tuttavia nulla ormai può convincermi che il disegno di un cane che morde un uomo è tranquillamente «simile» al fatto raffigurato. Una volta messa in dubbio, la nozione ingenua di similarità deve essere criticata a fondo. È un dovere scientifico.
A questo dovere scientifico avrebbe potuto portare un grande contributo Tomas Maldonado col saggio «Appunti sull’iconicità» che appare in conclusione della sua raccolta di scritti Avanguardia e razionalità (Torino, Einaudi, 1974).
E in effetti questo scritto arreca vari contributi alla questione, non ultimi quegli spunti critici che io stesso avevo fatto miei nella stesura del Trattato di cui parlo (terminato sfortunatamente nel luglio 1974, prima che potessi prendere visione del saggio di Maldonado e ormai già in bozze sia in italiano che in inglese). Ma Maldonado, mentre richiama — e giustamente — alla considerazione di alcuni fatti che si tende a trascurare, conduce la sua argomentazione in modo criticabile, rischiando di far tornare indietro un lavoro di revisione a cui egli stesso, invece, è chiamato per dovere scientifico, per esperienza e capacità tecniche e analitiche.
La critica che pertanto ora condurrò della critica di Maldonado mira, al di là di qualche inevitabile perorazione pro domo mea, a richiamare l’autore a un compito di comune ricerca al quale lo so interessato e al quale tra l’altro (a disdoro dei cronisti culturali che leggono le dispute scientifiche come dichiarazioni di incompatibilità di carattere) stiamo in questi tempi collaborando, guidati dagli stessi interessi di chiarificazione.
1. Il fantasma di Cremonini
Afferma Maldonado (contro coloro che criticano il rapporto di similarità tra una forma significante e l’oggetto a cui rinvia) che l’iconismo è una costante ineliminabile degli stessi processi conoscitivi e che persino le descrizioni verbali delle icone diventano a loro volta delle icone. Afferma che noi costruiamo modelli della realtà che funzionano operativamente in virtù dei loro rapporti iconici e che chi lo pose in dubbio è un idealista che nega un rapporto stabile, oggettivo e verificabile tra conoscenza e realtà.
Anzi, chi, attraverso fumose argomentazioni dette «semio-linguistiche», tende a porre in dubbio l’oggettività di tale rapporto è come coloro (penso che Maldonado alluda al povero Cremonini) che si rifiutarono di guardare nel cannocchiale di Galileo per timore che la nuova esperienza confondesse loro le idee. Pesante accusa, perché non c’è nulla che irriti di più uno studioso moderno che l’essere paragonato a Cremonini, e non c’è nulla che addolori di più uno studioso delle ultime generazioni, almeno in Italia, che essere tacciato di idealismo.
Se Maldonado voleva operare come quei campioni di catch che terrorizzano l’avversario roteando gli occhi, digrignando i denti e lanciando urla terribili per fiaccarne la combattività, in principio ci è riuscito. È duro risalire questa china di disperazione quando si ha di fronte un avversario che ti dice: «tu, sporco idealista, non guardi nel cannocchiale di Galileo e io invece sì, ora vedrai cosa ti mostro!». L’unica cosa confortante, che mi sprona alla discussione, è che Maldonado, dopo aver minacciosamente agitato il cannocchiale di Galileo come arma contundente, lo posa sul tavolo, si avvia agli scaffali della sua biblioteca e si mette a citare Wittgenstein, con gran copia di parafernalia critici, di studi su Wittgenstein e di studi sugli studi degli studiosi di Wittgenstein.
La mia coda di paglia, dovuta al fatto che avevo condotto la discussione critica sull’iconismo appoggiandomi a dati di esperienza empirica e quasi familiare (osservazioni del comportamento di mio figlio quattrenne, esame di immagini già commentate da Gombrich, descrizioni del modo in cui si disegna una casa o un cavallo, discussioni sulla natura iconica del manico di scopa e della mano del bambino che si atteggia a pistolero e puntando il dito fa «pum!») si è fatta meno sentire quando mi sono reso conto che Maldonado, dopo un appassionato richiamo all’esame tecnico della strumentazione scientifica produttrice di iconismo, conduce tutta la sua dimostrazione appoggiandosi a citazioni dal Tractatus e dai Collected Papers di Peirce.
Curiosa esigenza di «ipse dixit» da parte di uno studioso che ha avuto una così lunga carriera di operatore e programmatore di oggetti (si pensi alla scuola di Ulm) e dal quale ci saremmo aspettati dialoghi con Sagredo sulle osservazioni da lui compiute scrutando il cielo dell’iconismo, non citazioni da pensatori che (in termini di proporzione storica, e absit iniuria verbis) stanno alla pratica della produzione iconica come il Cremonini (non ignobile filosofo aristotelico) stava alla pratica dell’esplorazione celeste.
Ma è Maldonado che ha scelto, contro la via galileiana, quella aristotelica: e occorrerà, almeno per un tratto, seguirlo su questa strada, almeno per sapere cosa egli apprende dai filosofi circa il valore conoscitivo dell’iconismo. Quando ci parrà opportuno, gli faremo il torto di tornare a Galileo.
2. Mostrare o mostrarsi?
Non vorrei tradire, mentre discuto su di un testo, la correttezza del metodo avvalendomi di affermazioni personali dell’autore (questa mia risposta è stata preceduta da un amichevole dibattito a Bologna), in base alle quali si deduce che tutta la sua argomentazione è gravata dall’esigenza di reagire alle tentazioni idealistiche contenute nella stessa tradizione neo-positivistica a cui si rifà, così da eccedere talora in affermazioni di materialismo meccanicistico.
Ma anche chi legga le pagine di Maldonado non può non vedere come egli accanitamente reagisce contro ogni sospetto che ponga, tra la realtà oggettiva e le immagini che noi ne formuliamo, lo scherno di qualche mediazione vuoi «a priori» vuoi dovuta all’influenza degli schemi storico-tradizionali. Per cui di Wittgenstein lo affascina, prova ne siano le sue pagine, la teoria della modellazione (così Maldonado decide di tradurre «Abbildungstheorie» e conseguentemente «Bild» come «modello»): ogni proposizione si mostra in una immagine modello, «la proposizione è una immagine della realtà» (Tractatus, 4.01), una natura iconica è insita nelle stesse formule matematiche e vi è (secondo Lichtenberg) qualcosa nella forma «2×2= 4» di analogo al fatto che la terra sia simile a una arancia.
In altri termini, è proprio della mente umana saper costruire modelli che adeguano per similarità, in qualche misura, la realtà oggettiva, e in tal senso le icone sono proposizioni di immagini, né queste immagini sono di tipo mentale, bensì concreto, come accade per i diagrammi in elettronica, per la cartografia, la fotografia.
Tutti sappiamo che Wittgenstein stesso ebbe fieri dubbi a proposito della teoria della modellazione, con conseguente crisi di una teoria lineare del significato: ma Maldonado decide di considerare come attendibile legato wittgensteiniano solo gli aspetti della teoria che gli paiono rimaner immutati nel passaggio tra il Tractatus e le Philosophische Untersuchungen (il che ci pare più tipico del Cremonini che di Galileo), e tra gli aspetti che «resistono» annovera la fiducia nelle capacità conoscitive del modello.
A questo punto osserveremo che, asserire che la conoscenza costruisce modelli operativi della realtà, non ci dice in che modo il modello funzioni, né ci pare lo dica il Wittgenstein del Tractatus, dal momento che «il carattere raffigurativo della proposizione consiste nella circostanza che la proposizione stessa è un fatto il quale possiede certi caratteri in comune con l’altro fatto che essa raffigura».
Wittgenstein sa che nel rapporto tra proposizione e fatto si stabilisce qualcosa di simile alla proiezione geometrica, la quale tuttavia stabilisce quali proprietà rimangano inalterate e costanti e quali invece non siano essenziali per la riconoscibilità del proiettante nel proiettato. Ma la geometria stabilisce appunto regole di proiezione, e permette di stabilire la similitudine esistente tra il modello geometrico di una piramide e la piramide di Cheope, astrazion fatta, per esempio, della grandezza, della materia in cui entrambe sono costruite, dello stato di conservazione del materiale (così che il solido scolastico è simile al monumento egizio per il professore di geometria, ma non, poniamo, per l’archeologo, il quale cerca altre relazioni di modellizzazione).
Il problema consiste pertanto nel sapere quali sono le regole, convenzionate, di similitudine (e la similitudine è regolata da principi geometrici, mentre la «similarità» è concetto assai più vago) in base alle quali si vuole stabilire che un qualcosa sia modello di qualcosa d’altro.
Per esempio, se Lichtenberg afferma che c’è un rapporto tra l’espressione «2×2= 4» e il suo contenuto matematico, da un lato, e la somiglianza tra la terra e un’arancia, non ci spiega invece perché lo stesso contenuto matematico possa essere espresso da 22, né perché 8 possa essere espresso da 23, attraverso variazioni operative che sarebbe assai difficile ricondurre alla similarità tra un’arancia, un mandarino e la terra; la terra sembra più a un’arancia che non a un mandarino, senza che 2×2 sembri più a 4 di quanto non lo sembri 22.
È chiaro che sono in gioco rapporti di modellizzazione che riposano su diversi meccanismi mentali, oltre che percettivi, e che parlare di modellizzazione o di rapporto iconico in entrambi i casi è pura licenza metaforica. Tuttavia ci debbono essere radici comuni di queste possibilità metaforiche, ed esse richiedono di problematizzare la nozione di iconismo, o di similarità tra modelli e oggetti di conoscenza. Altrimenti si cade nel limite già riconosciuto alla posizione wittgensteiniana, che cioè la connessione tra proposizione e fatto non può essere oggetto di una nuova proposizione ma si mostra semplicemente nel confronto.
Non è chi non veda il pericolo (almeno per chi voglia far una scienza esplicativa dei segni) di questa posizione: è iconico ciò che raffigura iconicamente qualcos’altro. Può darsi che asserire questo non sia idealismo: ma non dovrebbe neppure esserlo il tentare di mettere in crisi questa assunzione.
Perché si tratta di domandarsi cosa esista nell’universo materiale tale che certe immagini possano significarlo permettendo quindi di modificarlo. Problematizzare al tempo stesso la struttura della realtà conoscibile e le nostre modalità di conoscenza.
Ora Maldonado ammette che la logica non riesce a dirci se e come una icona abbia valore proposizionale. Ma attribuisce questa carenza all’eccesso di sviluppo positivo del pensiero logico. Quindi afferma che neppure la linguistica o la cosiddetta semio-linguistica sono riuscite a risolvere questo problema; e attribuisce la carenza al difetto di sviluppo della disciplina.
Ora, a parte la gratuità della contrapposizione (di due scienze che non sanno risolvere un problema, una non ci riesce perché è troppo brava e l’altra perché è troppo rozza), Maldonado ha ragione ad accusar la linguistica di non aver dato risposte sufficienti sul problema dell’iconismo: perché o non lo ha considerato, assumendolo come dato estraneo al meccanismo della lingua, oppure ha cercato di definirlo sovrapponendogli il modello della lingua (coi suoi principi di arbitrarietà, articolazione e così via; e io stesso, almeno sino a La struttura assente, non sono stato immune da questa tentazione).
Ma non si può dimenticare che proprio la semiotica di origine linguistica, sia pure a causa del fascino che esercitava su di essa il modello delle strutture verbali, ha preso la decisione di mettere in questione i fenomeni di iconismo, mentre il pensiero logico-filosofico li ha continuati a prendere per scontati.
3. Wittgenstein contro Wittgenstein
Ma è poi vero che il «buon» pensiero filosofico (compreso quello di origine wittgensteiniana) ha preso questi problemi come scontati?
Anzitutto non è chiaro che se Wittgenstein nel Tractatus, quando parla di «modello», pensi a qualche cosa di simile a una immagine iconica, nel senso in cui lo è una fotografia.
E questo Maldonado lo sa benissimo, tanto è vero che ricorda che, anche se l’icona va vista come proposizione («un termine capace di significare uno stato di cose», pag. 256, da I.C. Lewis) e anzi come forma proposizionale dichiarativa (pag. 267), risultato di un processo di categorizzazione percettuale che si pone in uno spazio affine a quello logico (pag. 274), tuttavia icone e proposizioni organizzano in modo diverso il loro tessuto dichiarativo (pag. 274): l’icona non dispone di connettivi, di equivalenti dei termini sincategorematici o, come ha suggerito recentemente Sol Worth, le immagini non possono dire «io non sono».
Ma è proprio qui che comincia la questione. In un suo libro sul Tractatus, Erik Stenius cerca di interpretare la teoria del modello in termini di isomorfismo. Anche in topologia, si ha isomorfismo quando, data una chiave di lettura, si trasportano a livello di connessioni spaziali delle connessioni logiche: una serie di ramificazioni può esprimere rapporti di parentela, rapporti di comando-obbedienza, rapporti di amicizia o conoscenza; si tratta di conoscere quella che Stenius chiama la «chiave» (ma si tratta di «codice») per cui una certa relazione logica andrà riempita in un dato modo.
Come si vede la parte della realtà raffigurata dal modello è proprio la meno percepibile sul piano sensibile-materiale, riguarda delle relazioni poste, ed è solo in virtù della chiave che a una data successione o gerarchia spaziale corrisponde una data gerarchia logica. Tutto questo non ha nulla a che vedere coi rapporti percettivi. Cosa sarà allora questo «spazio logico»?
Perché è chiaro che se esiste uno «spazio iconico» delle immagini (come le fotografie o i quadri) esso avrà anche qualcosa dello spazio logico, ma lo spazio logico non ha nulla dello spazio iconico, e dunque avvertire la possibilità di modellizzazione sul piano logico non risolve affatto la questione delle possibilità di riproduzione iconica. Stenius infatti si chiede cosa accadrebbe applicando gli stessi principi a una foto o a un quadro di paesaggio, e ammette che qui dovrebbero entrare in gioco altre «regole» percettive e culturali; e conclude che sfortunatamente nel Tractatus questi problemi non sono sufficientemente considerati (e che forse molte debolezze della posizione wittengensteiniana sono dovute a questa omissione, pag. 112).
È che tutta la teoria del modello riguarda solo rapporti categoriali: ora, non vorremmo dire che abbia ragione Stenius rispetto agli altri commentatori wittgensteiniani che Maldonado cita — ma lo si è detto, è Maldonado che ci invita al gioco aristotelico-scolastico delle auctoritates — ma è singolare che Stenius riconduca tutta la teoria wittgensteiniana dello spazio logico e dei modelli categoriali a un kantismo rinnovato. Il solipsismo del Tractatus altro non sarebbe che un trasferimento della questione dei limiti e delle possibilità a priori della ragione ai limiti e alle possibilità dello a priori linguistico.
La «forma logica» è la forma che il linguaggio conferisce al mondo: la forma a priori dell’esperienza è mostrata nel e dal linguaggio e non può essere detta (4.12. del Tractatus), e cioè non può essere che (inseriamo noi termini kantiani) «appercepita trascendentalmente». E così la presunta teoria dell’icona che si mostra, altro non sarebbe che una trascrizione contemporanea dell’appercezione trascendentale dell’Io Penso.
Ma forse non è vero, Wittgenstein non voleva dire questo. Vediamo allora cosa dice quando si critica, e cioè nelle Ricerche. Maldonado dice che ciò che rimane valido delle ricerche è ciò che appare immutato rispetto al Tractatus. Poiché questa è una affermazione da Cremonini, allora, Cremonini per Cremonini, faccio il Cremonini anch’io e assumo che ciò che resta valido delle Ricerche è ciò che mette in questione il Tractatus.
Cosa fa Wittgenstein nelle Ricerche? Non fa altro che mettere in dubbio, non appena può, la teoria del modello. Ma non la mette in dubbio perché pensa che le immagini non rappresentino la realtà: ma perché avverte che questa «rappresentazione» è continuamente mediata da circostanze concrete, presupposizioni contestuali, e regole culturali. E lo dice proprio analizzando (questa volta sì) le immagini, i disegnini, le fotografie, eccetera.
Anzi, fa persino dei disegnini di visi umani, di cubi, di anatre e conigli, per rendersi conto di cosa accade quando guardiamo una immagine. Che poi non ne tragga una teoria definitiva come accadeva nel Tractatus, questo è coerente con tutta la impostazione delle Ricerche, in cui l’autore non cerca certezze ma semina dubbi.
L’iconico non «mostra» mai per forza nativa. Persino nella comunicazione «per ostensione», in cui pare così facile esprimersi mostrando oggetti, occorre una previa stipulazione di pertinenza, una regola.
Perché anche l’ostensione mostra un significato contrattato culturalmente, che non è l’oggetto: «è importante mantenere fermo che, se con la parola ‘significato’, si designa l’oggetto che ‘corrisponde’ alla parola, allora la parola viene impiegata in modo contrario all’uso linguistico. Ciò vuol dire scambiare il significato di un nonne con il portatore del nome. Se il signor N.N. muore si dice che è morto il portatore del nome, non il significato del nome.
E sarebbe insensato parlare in questo modo, perché se il nome cessasse di avere un significato, non avrebbe senso dire ‘il signor N.N. è morto’» (40). Questa nota è di fondamentale importanza per capire ciò che contesteremo a Maldonado nel paragrafo seguente, e cioè la sua incapacità di concepire una semantica non-referenziale.
Ora per il secondo Wittgenstein anche l’iconismo rimanda a significati, indipendentemente dagli oggetti, per via di mediazioni culturali; criticando una proposizione del Tractatus (la 4.5) che suona «La forma generale della proposizione è: È così e così», Wittgenstein osserva: «Si crede di star continuamente seguendo la natura, ma in realtà non si seguono che i contorni della forma attraverso a cui la guardiamo» (114).
Infatti l’immagine è vaga, si presta a interpretazioni (141,526) — ed è naturale, se essa è come un grafo, offre delle relazioni generali ma attende una chiave perché quelle relazioni possano essere riempite di contenuti di esperienza, padri e figli, rapporti algebrici, pere e mele, lepri e anatre … Non è che Wittgenstein non si chieda come sia motivata una icona, e studia a lungo le ragioni per cui, fatto un segno sulla carta, se ne può riprodurre uno «uguale».
Ma si rende conto che a istituire similarità intervengono anche delle regole e si domanda se il modo migliore per capire queste regole non sia lo studio della prassi operativa (che è poi, come vedremo, la proposta finale di Maldonado, proposta a cui egli malauguratamente, per tutto il suo saggio, non si attiene). Non si tratta di negare l’immagine, ma di scoprirne le modalità produttive: «l’immagine c’è, non contesto la sua correttezza. Ma che cos’è la sua applicazione?». Ed è chiaro che chiedersi «che cos’è» significa abbandonare la pretesa (kantiana?) del Tractatus dell’impossibilità di spiegare le modalità di rappresentazione del modello. Infatti alla domanda «come fa la proposizione a rappresentare?» la risposta è: «Non lo sai? Lo vedi bene come fa, quando la usi», subito corretta da un dubbio, che è un progetto, non una rinuncia o un invito al silenzio: «Già, ma tutto passa così in fretta, e i vorrei vederlo dispiegato, per così dire, su una superficie più ampia» .
È chiaro che queste proposte di Wittgenstein potrebbero essere interpretate anche in senso opposto: ma tale è la fecondità delle Ricerche. In ogni caso è indubbio che Wittgenstein in questo testo ritiene che le icone siano comprensibili (in quanto modello) solo in virtù di regole culturali stipulate: «Non sono abituato a misurare la temperatura in gradi Fahrenheit. Per questo una indicazione di temperatura nella scala Fahrenheit non mi ‘dice’ nulla».
E perché? Perché Wittgenstein comprende la natura di ciò che Peirce chiama interpretante, un altro segno, o comportamento, che mi chiarisce il significato del primo segno, senza che intervenga la natura dell’oggetto a chiarirmi la natura del segno: «L’uomo distratto, che al comando ‘Fianco destr!’ si volta a sinistra e poi, aggrottando la fronte, dice: ‘Ah, fianco destr!’, e si volta a destra. Che cosa gli è passato per la testa? Un’interpretazione?» (506). Certo, poteva essere solo distratto; ma potrebbe avere sbagliato regola, potrebbe avere applicato male la regola che associa il segno a un contenuto: così da restituire un referente errato … Bel problema.
E d’altra parte, una immagine rimanda a un oggetto o a un dato culturalizzato di contenuto che media la mia comprensione? «Ebbene, qual è l’oggetto del dipingere: l’immagine di un uomo (per esempio), o l’uomo che l’immagine rappresenta (darstellen)?».
E, mirabile dimostrazione di come Wittgenstein distinguesse il significato dal referente, subito dopo: «Si direbbe che un comando è una immagine dell’azione che è stata compiuta in conformità al comando; ma anche che è una immagine dell’azione che si deve compiere obbedendo al comando». Ecco, il problema è tutto qui. Vogliamo parlare solo del rapporto tra segni e oggetti o anche del rapporto tra segni e regole di contenuto culturalizzato che mediano il rapporto con gli oggetti? È Wittgenstein che ci invita a questa indagine, anche a proposito delle icone. Cosa si deve allora fare, usando Wittgenstein in un modo che a Maldonado non pare familiare?
Si tratterebbe dunque, se così stanno le cose, di chiedersi in che modo le icone sono proposizioni circa il mondo, in che modo riflettono le cose, secondo quali modalità vengono istituite o riconosciute come modelli di fatti reali. Il farlo implicherebbe un discorso sulle modalità culturali mediante le quali questi modelli sono costituiti. Per esempio, già nella Struttura assente, io avevo proposto che la realtà, in quanto percepita e culturalizzata, si organizzasse in pertinentizzazioni del campo semantico che assegnano a ogni unità culturale determinate proprietà.
Queste proprietà, ai fini della rappresentazione visiva, si manifestano come semi di riconoscimento che, attraverso convenzioni grafiche, danno luogo a trascrizioni iconiche. Facevo l’esempio della zebra, che per noi è anzitutto riconoscibile in virtù del tratto pertinente «striscia», inserito su un corpo vagamente quadrupede, e per una comunità africana che conosca solo zebre e iene, entrambe dal manto a strisce, sarà riconoscibile in virtù della pertinentizzazione di altri dati formali.
È chiaro che tale teoria serviva solo per le rappresentazioni schematiche e stilizzate, ma c’è da chiedersi quanto non potesse essere estesa anche a casi di iconismo più «forte», posto che nel mio libro si parlava anche di simulazione delle condizioni percettive, mediante realizzazioni in altra materia, e quindi non più di stilizzazione ma di operazioni tecniche motivate dall’esperienza percettiva diretta dell’evento da raffigurare.
Ma tutto questo richiedeva una teoria del significato come sistema di unità culturali pertinentizzata e sistematizzata: e quindi una icona, prima di riprodurre un oggetto reale, riproduce anzitutto un insieme di proprietà che la cultura ha assegnato a quell’oggetto in quanto catalogato e riconosciuto.
In altri termini, l’icona doveva anzitutto essere messa in contatto con un contenuto (nel senso hjelmsleviano del termine) e non con degli oggetti concreti (ai quali poteva rinviare solo attraverso la mediazione del contenuto espresso). Che tale impostazione lasciasse in ombra problemi di motivazione, che ora credo di aver ricuperato, sono d’accordo. Ma per criticarla occorre passare attraverso la critica di una semiotica che riconosca, come oggetto di una semantica strutturale, il contenuto sistemato come cultura.
4. Due semantiche
È su questo punto che Maldonado inizia un singolare discorso tra sordi. Perché, mentre afferma che l’icona è proposizione, e che occorre studiare come essa organizzi il suo tessuto dichiarativo, invece di approfondire queste modalità, passa all’esame critico delle mie posizioni, con un’argomentazione che potrei riassumere come segue: Eco afferma che una semiotica non deve occuparsi dell’esistenza oggettiva dei referenti, ma solo delle condizioni di comunicabilità e comprensibilità dei messaggi che studia; ma non occuparsi dei referenti significa rifiutare l’esistenza di una realtà extralinguistica, ovvero l’oggettività del mondo esterno (pag. 276); criticare la definizione di iconismo come similarità significa lasciarsi spaventare dalla materialità della realtà extralinguistica a cui tale definizione fa ricorso (pag. 277); occuparsi solo della comunicabilità e comprensibilità significa porsi banali problemi di teoria dell’informazione, lasciando da parte il problema del significato, su cui la semiotica allora pare non abbia più nulla da dire (pag. 281).
Anche se il mio riassunto può avere radicalizzato l’argomentazione, ciò non toglie (e si vada a controllare alle pagine citate) che essa si presenti come un sorite di paralogismi, la maggior parte dei quali dovuti a banale equivoco sui termini in gioco da entrambe le parti.
Punto primo, cosa significa voler fare una semiotica non referenziale?
Significa individuare condizioni di funzionalità di una espressione, indipendentemente dagli oggetti o stati del mondo ai fini dell’indicazione o menzione dei quali può essere usata. In altri termini, significa vedere se a una espressione corrisponda una porzione di contenuto culturalizzato e se questo contenuto può essere in qualche modo descritto da una semantica strutturale.
Esiste una semantica, in quanto opposta a sintattica e pragmatica, che si occupa, specie in filosofia, del rapporto tra segni e oggetti che questi segni menzionano; ed è quella a cui sta pensando Maldonado. Ma esiste un’altra semantica, che assume per lo più la forma di semantica strutturale, che si presenta come descrizione o tassonomia del contenuto, ovvero approccio antropologico al modo in cui una cultura organizza il mondo.
Dire che una semiotica non è referenziale non significa dire che non si occupa del momento semantico, significa anzi privilegiare questo momento semantico perché la validità dell’espressione viene stabilita solo per mezzo dell’esistenza di un contenuto descrivibile, osservabile e opportunamente segmentato.
Come si descrive contenuto? Qui i problemi sono molti, e ne Le forme del contenuto avevo fatto ricorso alla teoria peirciana degli interpretanti come garanzia della descrivibilità del significato senza attuare un passaggio indispensabile agli oggetti. È vero che Peirce in varie parti dei suoi scritti àncora i segni agli oggetti, ma è pur vero che egli sviluppa una teoria vastissima e feconda della interpretabilità dei segni attraverso altri segni che ne circoscrivono il contenuto.
Di questo aspetto della teoria peirciana non vi è traccia nel saggio di Maldonado, e non a caso: quando egli, nel 1961, pubblicava un dizionarietto di semiotica su basi eminentemente peirciane, tra le sue varie voci la nozione di «interpretante» non appariva. Come si spiega questa assenza? Col fatto che per Maldonado esiste un’unica semantica, che è la semantica referenziale; Maldonado riconosce una semantica estensionale ma è scarsamente sensibile ai problemi di una semantica intensionale. Infatti nel suo attacco alla tradizione linguistica nessuna citazione specifica dimostra che egli abbia mai riflettuto sull’esistenza di analisi di semantica strutturale (o che per lo meno queste abbiano mai risvegliato il suo interesse).
Sia chiaro che ne Le forme del contenuto io limitavo l’interesse semiotico all’aspetto non referenziale dei segni e escludevo implicitamente dall’orizzonte semiotico il problema del riferimento o menzione di oggetti o stati del mondo: lacuna di cui ho fatto ampia penitenza non solo nel mio prossimo libro ma anche nel saggio pubblicato su VS 7, «Is the Present King of France a Bachelor?»
Ma un conto è affermare che nell’ambito problematico di una disciplina semiotica deve entrare anche una teoria del riferimento o menzione, e un conto è affermare che una teoria delle funzioni segniche (e cioè del modo in cui una espressione si correla a un contenuto indipendentemente dall’esistenza attuale o dalla presenza di oggetti a cui sia riferibile) può e deve fare astrazione dai referenti. Altrimenti non si spiegherebbe la possibilità che i segni hanno di essere usati per mentire.
Una semiotica non referenziale deve spiegarmi perché, ricevuta una data espressione, io ne comprendo il contenuto, in base a quale sistema sociale di regole. Non cogliendo questo punto metodologico fondamentale, Maldonado estrapola una mia frase in base alla quale io affermo che «la semiotica deve solo studiare le condizioni di comunicabilità e comprensibilità del messaggio (codifica e decodifica)» e compie una curiosa operazione: trascura la parentesi, da cui si evince che associando comunicabilità a codifica e comprensibilità a decodifica, dato che per codice intendo un sistema di funzioni segniche, sto parlando del modo in cui socialmente è possibile trasmettere dei contenuti; e si sofferma invece sui termini, indubbiamente vaghi, di «comunicabilità e comprensibilità».
Li intende come riferiti alla teoria dell’informazione (la quale si occupa della natura fisica delle espressioni intese come segnale e a cui Maldonado attribuisce, e giustamente, «neutralità semantica») e ne conclude che la mia semiotica è «a-semantica e a-pragmatica» (poi chiedendosi intelligentemente come mai questo avvenga a me, che sono così interessato ai problemi dell’ideologia e delle comunicazioni di massa; e infatti, la cosa non ha senso, ma non è colpa mia se Maldonado intende «semantica» solo come «teoria dei rapporti tra i segni e le cose»).
Ma una volta messosi su questa strada, Maldonado non può che arrivare alle ultime conclusioni: una semiotica che non si interessa agli oggetti, non si interessa a ciò che «si dice effettivamente» (pag. 280) (secondo Maldonado dunque si «dicono effettivamente» solo gli oggetti), e se non si interessa a ciò che si dice, non si interessa della realtà; se non vi si interessa, dunque la nega, ed eccoci al «vecchio spettro della gnoseologia idealistico-soggettivistica» (pag. 281).
Ora si può essere diffidenti verso la formulazione che io o altri diamo di una possibile semantica strutturale, ma non si può negare che l’oggetto di tale semantica, detto «contenuto», è la stessa organizzazione del mondo operata da una società. E dunque l’oggetto di una scienza delle ideologie e della stessa organizzazione sociale.
Cerchiamo di interpretare questo modo d’approccio dal punto di vista di un materialismo non volgare: cosa interessa al marxismo, sapere che ci sono dieci mele e due uomini, e che uno produce le mele e ne mangia una e l’altro non le produce e ne mangia nove? Oppure il rapporto di proprietà che coordina la distribuzione dei beni tra i due, e il rapporto di nove a uno che regola la distribuzione delle mele e che rimane inalterato anche se, in caso di carestia, le mele prodotte fossero cinque, o se in luogo di mele si producessero radici?
È ovvio che ad una analisi materialistica dei rapporti di produzione e di proprietà interessano dei rapporti legalizzati e non il contenuto empirico di tali rapporti, a meno che la sostanza di tale contenuto non influisca sulla variazione dei rapporti (come quando si passa dai telai meccanici ad altre e più elaborate forme di produzione).
Ma allora interessarsi all’organizzazione del contenuto, e a come i segni ne veicolano porzioni, non sarà idealismo soggettivistico, ma un modo di occuparsi dei fatti materiali nella misura in cui generano leggi sociali, come sono appunto le leggi di sistematizzazione del contenuto. Opporre a queste i diritti immediati della esperienza sensibile che si rifletterebbe senza mediazioni nei modelli di conoscenza sarà al massimo materialismo meccanicistico.
Ma per Maldonado porre la mediazione del contenuto socializzato tra le espressioni modello e la realtà da modellizzare significa rifiutare l’esistenza della realtà. E coloro che si macchiano di tale peccato, e cioè i semiolinguisti, «nel loro ostinato idealismo… contestano tutto ciò che in un modo o nell’altro può costringerli ad ammettere che la realtà… esiste».
Frase che pare tratta di peso da un tazebao contro Lin Piao, Confucio e Beethoven: e manifesta una tecnica della contestazione che ameremmo vedere più articolatamente diluita in un libro che si dilunga, con possibilità di riflessione, per trecento pagine complessive.
5. Conoscere per similarità e conoscere la similarità
Ora è chiaro che Maldonado non è sensibile ai fascini della semantica strutturale e rimane fedele alla semantica referenziale proposta dai neopositivisti del Circolo di Vienna. E va bene. Ma siccome Maldonado è studioso attento, sarebbe troppo facile dire che tutta la polemica di cui sopra è dettata da insensibilità verso un settore così ampio della meditazione contemporanea sui linguaggi. Deve esserci qualcosa d’altro che giustifica il suo atteggiamento. E questo qualcosa d’altro, ad essere onesti, esiste, e inclina a considerare con maggior attenzione le sue contestazioni.
Il fatto è che sembra facile parlare di organizzazione del contenuto e di rapporti tra espressioni e contenuto quando si ha a che fare con sistemi semiotici ad alta dose di arbitrarietà, come la lingua verbale, ma tutte le speculazioni sul contenuto appaiono molto più deboli quando si parla di un indice o di una icona, uno connesso causalmente a un oggetto singolo, l’altra ad esso presuntivamente legata da rapporti di proiezione.
E infatti uno dei problemi per una semiotica non immediatamente referenziale è come definire il contenuto di una icona.
Qui potrei liquidare il problema dicendo che costituisce l’oggetto di circa duecento pagine del mio nuovo Trattato: e questa è senz’altro una buona ragione per cui io non tenti di riassumere in poche pagine ciò che sono appena appena riuscito ad impostare in una serie alquanto noiosa e tormentata di capitoli. Ma occorre almeno dire perché la risposta di Maldonado mi lascia insoddisfatto e in che senso essa apra invece a un necessario approfondimento della questione.
Maldonado conduce anzitutto una interessantissima analisi del pensiero peirciano per dimostrare che io avrei troppo sbrigativamente accusato di petizione di principio la sua definizione di iconicità per similarità. Il discorso di Maldonado è molto complesso, e probabilmente ha ragione lui nell’asserire come nella prospettiva logica di Peirce una accusa come quella di circolarità non sia applicabile. Ma è anche vero che egli trae questa mia accusa da testi precedenti il 1973. Egli non considera i capitoli che ne II segno (Milano, Isedi, 1973) ho dedicato ai vari esempi di similarità offerti da Peirce, specie nel trattatello sui Gufi esistenziali, e in cui dò conto della varietà di sensi che la nozione di similarità e iconismo assumono nel pensatore americano.
Il succo dell’argomentazione di Maldonado è tuttavia che la similarità ha valore conoscitivo: da Galileo in poi «per la conoscenza scientifica si trova sempre l’idea di similarità: modellare e simulare significano costruire similarità; categorizzare e classificare significano ordinare similarità» (pag. 288).
Ora il punto è che io non nego il valore conoscitivo della similarità, dato che è esperienza comune che l’esistenza di una fotografia mi permette di riconoscere qualcuno che non ho mai visto, e che le carte topografiche mi permettono di muovermi in una data zona senza finire in un burrone. Quello che io nego è che la categoria della «similarità» abbia valore conoscitivo.
Il che è ben diverso! Io suggerisco semplicemente che la nozione di similarità non chiarisce perché i segni detti iconici mi dicano qualcosa circa gli oggetti. Dico che ogni icona ci offre dell’oggetto solo alcune caratteristiche prescelte filtrate da convenzioni culturali. E dico (ma specialmente nel nuovo libro a venire) che anche quando una espressione visiva nasce dalla proiezione di caratteristiche di un oggetto, anzitutto si tratta di caratteristiche già selezionate e quindi organizzate in un modello di contenuto di quell’oggetto, e in secondo luogo che le modalità di proiezione, con le selezioni che comportano, si basano su regole culturalizzate.
E che pertanto il problema della conoscenza attraverso le cosiddette icone si pone come il problema dell’intervento culturale umano sui dati percettivi. Madonado sa che ottimizzare la similarità (ma anche la sua spiegazione scientifica) significa «trovare, sul piano tecnico, il migliore adeguamento tra le richieste convenzionali che provengono dall’osservatore e quelle non convenzionali che scaturiscono dall’oggetto osservato» (pag. 281). Ma il discorso può apparire troppo difficile. Facciamo una cosa, guardiamo nel cannocchiale di Galileo, e guardiamoci insieme.
6. L’icona di Saturno
Diciamo subito che il mondo in cui vi guarda Maldonado (sia pure per un solo momento) non mi convince. Egli corre un grosso rischio, e a fare della filosofia si potrebbe dire che l’origine ne è in certe pagine di Peirce, dove nel suo desiderio di trovare iconismi dappertutto questi parla anche delle immagini mentali come di icone; e perché no, visto che la conoscenza — per Peirce come per Maldonado — è essenzialmente iconica?
Ma il rischio è proprio questo: di confondere l’iconismo della percezione (è ovvio che per muovermi nel mondo devo supporre che in qualche modo il contenuto delle mie percezioni corrisponda all’organizzazione degli eventi esterni) con l’iconismo della rappresentazione segnica.
Perché il disegno di un cane non è la percezione di un cane: al massimo è o l’icona del percetto o l’icona dell’oggetto, ma il problema di chi vede il disegno è di risalire da esso — ricordando il percetto — all’oggetto. Quindi ciò che dobbiamo sapere è con quali mezzi dei segni materiali permettono di proiettare all’indietro verso un percetto e quindi verso l’oggetto che in circostanze idonee potrebbe produrre quel percetto.
Ora Maldonado parla del cannocchiale come qualcosa che permette di avere sulla lente (o nell’occhio, non so) una immagine iconica della luna: «c’è una similarità tra l’immagine che ci offre lo strumento e l’oggetto raffigurato da quell’immagine» (289). Francamente non so a cosa alluda Maldonado quando parla dell’immagine offerta dallo strumento: dell’immagine virtuale che si forma sull’oculare e che potrebbe essere fotografata in assenza di occhio umano? dell’immagine retinica corrispondente?dell’immagine «mentale» prodotta dall’immagine retinica?
Per tutti questi fenomeni si potrebbe porre una serie di questioni di «semiotica della percezione», ma ora non vorrei farlo. Il fatto è che, in quest’ambito, lo strumento non è veicolo di significazione, è pura protesi; così come con una pinza articolata posso afferrare oggetti che il mio braccio non raggiungerebbe, così come ponendomi uno specchio dietro alla testa e uno davanti posso guardarmi la nuca là dove i miei occhi non possono arrivare, così come mettendomi i trampoli posso compiere passi più lunghi, mettendo l’occhio a una lente vedo le cose più grandi. Qui l’iconismo non c’entra.
Dove entra invece? Nel momento in cui Galileo, vista per la prima volta una realtà ancora ignota (e cioè la luna o altri corpi celesti) cerca di comunicare le caratteristiche di ciò che ha visto attraverso un disegno. I disegni dei corpi celesti tracciati da Galileo sono icone dei corpi celesti (e che egli li abbia visti col cannocchiale o perché ci si è approssimato a volo, non importa gran che).
E allora guardiamo cosa succede a Galileo quando, con la protesi del cannocchiale, riesce a guardare più dappresso non la Luna, su cui tutti avevano già una qualche idea, ma Saturno.
Ora, la prima volta egli si accorge che Saturno non è fatto come gli altri pianeti, perché vi vede qualcosa intorno. Siccome la sua cultura non lo ha provveduto con schemi interpretativi adatti (la nozione di anello gassoso intorno a un corpo celeste è assente dal suo universo culturale) egli opera una pertinentizzazione che corrisponde al sistema di contenuto di cui dispone: se non è un pianeta saranno tre, uno accanto all’altro. E scrive a Belisario Giunti nel 1610 che «la stella di Saturno non è una sola, ma un composto di tre, le quali quasi si toccano, né mai tra loro si muove o mutano»: e disegna un cerchio maggiore con accanto, a guisa di orecchiette, due cerchi minori.
Negli anni seguenti guarda meglio, e in migliori condizioni astronomiche. E nel 1616 scrive a Federigo Borromeo che i due compagni di Saturno non sono più due piccoli globi rotondi, ma corpi maggiori, «et di figura non più rotonda, ma come vede nella figura appresso, cioè due mezze ellissi con due triangoletti oscurissimi nel mezzo di dette figure, et contigui al globo di mezzo di Saturno».
La storia potrebbe continuare: e si potrebbe seguire la vicenda delle rappresentazioni di Saturno presso gli astronomi successivi. Buona idea per una semiologia delle rappresentazioni astronomiche. Fatto sta che, ammesso che Saturno sia come ce lo rappresentano le icone contemporanee (e ci rimarrà sempre un dubbio sulla «forma reale» di questo pianeta), esso non era come appare nei disegni di Galileo.
Occorrerebbe andare a prendere il cannocchiale di Galileo al Museo della Scienza di Firenze per controllare se Saturno lo si vede come egli lo ha rappresentato, o se noi oggi, anche col cannocchiale di Galileo, saremmo portati a vederlo secondo le rappresentazioni attuali, o se Galileo lo ha visto come lo vedremmo noi e tuttavia non poteva che disegnarlo così, perché gli mancava il modello culturale adatto per pertinentizzare gli anelli gassosi; eccetera eccetera.
Sta di fatto che il Saturno di Galileo non è iconico; e tuttavia è più iconico degli eventuali disegni convenzionali pregalileiani che avessero rappresentato un Saturno di maniera, stella tra le stelle. Ma, ultimo fatto da non trascurare, pur con una rappresentazione iconicamente così imperfetta Galileo è riuscito cionondimeno a mandare avanti la scienza astronomica, così come Eratostene riuscì a calcolare la lunghezza dell’equatore pur avendo l’idea di una terra assai più piccola di quanto realmente fosse.
Abbiamo qui il modello di un aspetto della realtà che la riflette in modo improprio; che la riflette essendo determinato da modelli culturali precedenti; e che tuttavia funziona per operare sulla realtà.
Ma allora il problema non consiste nel dire che l’iconismo è un modo di conoscenza, ma che la conoscenza mette in opera modelli organizzati in modi diversi, e che molti di questi modelli si attengono a regole di proiezione culturalizzata, che non prescindono dall’esperienza di oggetti reali, e che tuttavia il nostro rapporto con gli oggetti e gli stati del mondo è mediato da questi modelli, nati dall’interazione di dati di esperienza e di schemi culturali (organizzazioni del contenuto) precedenti.
E se è così che l’uomo, animale culturale, si rappresenta il mondo, la critica all’iconismo dogmatico e ingenuo è l’unico modo per poter studiare le modalità materiali del rapporto dell’uomo col mondo.
Allora criticare l’iconismo non significa negare la realtà, ma porre in chiaro che, per capire quell’aspetto della realtà che è la vita sociale, occorre studiare i modi in cui l’uomo socializzato filtra i dati della realtà e costruisce immagini che, anche se non «ingenuamente» iconiche, tuttavia permettono ad altri uomini di maneggiare la stessa realtà.
La realtà permanendo oggetto di conoscenza ulteriore, abbiamo come materia di scambio immediato una espressione materiale che veicola un contenuto organizzato, il quale contenuto si rivela, se non «giusto», almeno «sufficiente», nella misura in cui permette operazioni socializzabili, comunicabili, sulla realtà.
Se la semiolinguistica «idealistica» credesse che la luna non esiste, come inclina a pensare Maldonado, non si preoccuperebbe di dire che il Saturno di Galileo non è iconico (non «riflette» proprietà reali dell’oggetto, bensì trascrive aspetti di un percetto incompleto e stabilisce un modello di contenuto). Se Saturno non esistesse, il Saturno di Galileo sarebbe quello vero. Ma è proprio perché i «semiolinguisti idealisti» credono che Saturno esista in barba alla semiotica, che essi pongono in dubbio la nativa rivelatività delle icone. Perché, a credere che le icone riflettono la realtà, si finisce di restar vittima delle rappresentazioni, e di non criticare neppure i propri strumenti di modellizzazione.
Non sono così impietoso e rozzo da ritorcere su Maldonado l’accusa di idealismo, ma sento il bisogno di avvertirlo che, benché io sia fermamente convinto che lui crede nell’esistenza della Luna, a credere con pari forza nell’iconismo si rischia di credere più al lunario che alla luna. Quale, tra le nostre due, è la semiotica più lunatica?
7. L’impronta della tigre
Maldonado sa che l’isomorfismo predicato dalla logica, se pure ben definito, non è quello, altrettanto ben definito, della chimica, come non è quello, malissimo definito, della psicologia e della linguistica (pag. 292). Ma se allora termini come «isomorfismo» sono casi vaghi e polivoci, perché non sottometterli a critica e a definizione operativa?
Io voglio che Maldonado mi dica cosa differenzia l’iconismo presunto di una formula algebrica o di un diagramma di Venn (è Peirce che cita questi casi) da quello di un grafo, da quello di una costruzione di triangoli simili, da quello che può rendere un ritratto di Diana similissimo a Diana ma — basandosi sui trattati di anatomia e sulle foto delle riviste di moda — pochissimo simile una donna vera.
Prendiamo il caso delle impronte, che Maldonado affronta più avanti, quando discute su alcuni passi leibniziani e sul problema della compresenza proiettiva. Le impronte sarebbero icone dell’agente impressore perché proiettate in compresenza, o meglio, diremmo noi, per connessione causale coll’agente.
Ben, nel momento in cui l’agente imprime, l’impronta è invisibile, e non è iconica per nessuno. Lo diventa quando l’agente è passato. A quel punto la compresenza è semplicemente inferita (e infatti potrebbe trattarsi di una impronta falsa). L’impronta mi permette di inferire la natura dell’agente perché, diciamo, proietto all’indietro, rifaccio il cammino inverso, e dai tratti dell’espressione risalgo all’oggetto.
Anzitutto, per risalirci, mi abbisognano regole culturali. L’impronta di un bicchiere sul tavolo è più grande del fondo del bicchiere, quella della zampa di un gatto più piccola, perché solo alcune parti si sono impresse: di entrambi gli oggetti ho il contorno, e null’altro. Per proiettare all’indietro devo applicare alcune regole di trasformazione, quindi aggiungere idealmente i tratti che l’impronta non reca e che caratterizzano invece l’oggetto.
Se non sono stato istruito con modelli precedenti, se la zampa è di coccodrillo e invece del bicchiere si trattava di un particolare tipo di vaso cinese, non posso passare dall’impronta all’oggetto se non possiedo modelli culturali adeguati. In ogni caso, alla fine di questo lavoro proiettivo all’indietro, non ho ottenuto quel bicchiere, quel gatto, quel vaso, o quel coccodrillo: ma dei contenuti, un bicchiere, un vaso, un gatto, un coccodrillo.
Solo attraverso la mediazione di questi contenuti posso azzardare atti di riferimento. Quando Robinson trova l’orma di Venerdì sulla sabbia non pensa «è passato Venerdì» ma al massimo «uomo a piedi nudi». E così via.
L’iconismo indessicale delle impronte è frutto di precisi legami causali con oggetti concreti, nasce in forza di trasformazioni proiettive, mi aiuta certo a conoscere qualcosa circa la realtà, ma al tempo stesso si presenta semioticamente come una espressione che rimanda a un contenuto in forza di alcune regole culturali. Che queste regole siano diverse da quelle che stabiliscono il rimando tra la parola / gatto / e il contenuto corrispondente, è verissimo. Se in altri miei scritti è sembrato che lo dimenticassi (ma semplicemente non lo mettevo in evidenza dato che era di per sé pacifico) ho fatto male; ma dire che certi segni hanno una meccanica diversa da altri non significa che non possano essere teorizzati gli aspetti in comune.
Le icone (ma quale differenza tra una impronta e una foto, tra una foto e un disegno di Raffaello, e tra questo e la pianta della metropolitana) servono certo a conoscere. Ma in che modo?
8. Che fare?
Maldonado decisamente afferma (pag. 295): «per noi rimane come punto fermo il valore conoscitivo dell’iconicità». Troppo fermo. Tanto fermo che si evita di discuterne in concreto le modalità, preferendo riferirsi ai testi di Wittgenstein o di Frege. Ma facendo questo Maldonado non solo afferma il valore conoscitivo dell’iconicità ma di fatto sottintende  il valore iconico della conoscenza concettuale!
Mentre si tratta di due cose diverse. Dire che una immagine mi permette di conoscere la cosa rappresentata è una affermazione di buon senso che richiede poi approfondite verifiche sulle modalità di questa conoscenza. Dire che la conoscenza, e non solo quella percettiva, è di natura iconica, fornisce certo la risposta alla domanda «perché le icone mi fanno conoscere?», ma non risponde alla domanda «in base a quali meccanismi conosco?».
Eppure è Maldonado stesso che ci indica la soluzione. La parte più interessante del suo saggio è data dalle ultime due pagine. Le quali sfortunatamente avrebbero dovuto essere le prime: nel senso che è di lì che bisogna cominciare, e tutto il resto è ancora da scrivere e probabilmente nessuno meglio di Maldonado potrebbe scrivere questo saggio, eluso, su cosa sia l’iconicità.
Quando Maldonado avverte che «ci manca una storia delle tecniche di iconicità indessicale… una storia critica della tecnologia in genere… fino all’esame della tecnica più recente: la produzione olografica di immagini tramite i raggi laser», ci indica la strada da seguire.
Analizzare le modalità di riproduzione e gli effetti operativi che esse consentono, per vedere come si procede a queste riproduzioni, cosa si sceglie, cosa si lascia, sino a che punto la presenza dell’oggetto determina l’espressione, sino a che punto i modelli culturali determinano il tratto dell’espressione, sino a che punto chi non conosce l’oggetto risale dall’espressione a un dato di contenuto, sino a che punto una espressione «più iconica» riesce a criticare un contenuto convenzionalizzato e a sostituirvi un nuovo contenuto.
E indubbiamente la storia della strumentazione scientifica e dei mezzi riproduttivi potrà aiutare molto a fare una tipologia dei modi di produzione segnica (che, en passant, è delineata in sede teorica, ma non verificata in sede sperimentale, nel mio Trattato).
È in questo campo, forse più che nelle querelles filosofiche, che Maldonado potrebbe darci il meglio della sua esperienza di operatore visuale sorretto da una vigile coscienza teorica. Una strada su cui sarebbe grave non seguirlo perché o si va in questa direzione o si continuano inutili diatribe che, al di là di una certa soglia, non producono più di nuovo.
Pertanto sono d’accordo per continuare a guardare insieme (ma insieme, senza dirlo e poi non farlo) nel cannocchiale.

tratto dal numero 32