Note sull’arte concettuale

DANIELA DEL PESCO – MARIANTONIETTA PICONE
Il termine
L’espressione arte concettuale è nata negli anni 1966-’67, per designare l’attività di alcuni artisti i quali danno più importanza alle idee e ai concetti che sono alla base del loro fare che al prodotto oggettuale. Benché si realizzino ancora frequentemente oggetti, si tende a presentare interventi a livello progettuale o ad esprimersi attraverso azioni e comportamenti o a limitarsi ad analisi dei problemi dell’arte e del pensiero. La costante comune ed essenziale di tutte queste esperienze è l’evidenziazione del procedimento mentale che vi soggiace.

Il termine arte concettuale è stato riferito, in un primo momento, alla produzione di artisti come Kosuth, Barry, André e, in seguito, ai gruppi inglesi Art-Language e Analytical Art, i quali prendevano in considerazione gli attributi tradizionali dell’opera d’arte, non avendo come unico fine quello di sottostarvi, ma per indagarli, per cercare in che cosa essi determinino l’opera. Per costoro, l’arte concettuale non significa riduzione dell’opera a una idea, a un concetto, ma «idea» dell’arte, «concetto» dell’arte.
Oltre a tale accezione restrittiva di tipo analitico, il termine arte concettuale è venuto successivamente assumendo un senso più generale, per non dire generico, nel suo associarsi ad esperienze molto diverse tra loro, spesso di tipo comportamentistico. In tal modo, concettuali non sono solo gli artisti che indagano sull’arte, ma anche quelli che, attraverso oggetti o, più spesso, comportamenti, si richiamano a concetti di qualsiasi natura.
Alcuni precedenti del concettualismo comportamentistico
L’origine di questa tendenza risale all’attività svolta, fra la fine degli anni ‘50 e gli anni ‘60, da alcuni artisti, tra cui J. Cage, A. Kaprow, R. Rauschenberg, il gruppo Fluxus, La Monte Young, S. Paxton, Y. Klein, J. Beuys, P. Manzoni, G. Paolini, P. Pascali, J. Kounellis, i quali, agendo in campi molto diversi — dal teatro
all’happening, dalla danza alla musica, dalla pittura all’environment, dalla teoria all’event — hanno portato l’informale a passare da un stadio contemplativo ad alto quoziente di informazione visiva … ad uno stadio partecipativo-implicante. L’attenzione si è spostata dal significato dell’umano e del materico all’uomo e alla materia come entità significanti, da intendersi non come mezzi per un discorso «altro» ma come media… .
In questa luce prende particolare rilievo il collegamento frequente a Marcel Duchamp, che avviene non tanto per il suo uso di entità oggettuali trovate o fatte esplodere esteticamente — un uso estetico che è servito da giustificazione al naturalismo industriale della pop art e della optical art —, quanto la sua attitudine od il suo comportamento identificabile con un modo di essere ed un modo di fare e di vivere.
Questa convergenza di arte e vita, che in Duchamp acquistava un sapore dissacrante e provocatorio, è stata uno dei temi ricorrenti delle avanguardie: dall’impressionismo all’espressionismo, a dada, al surrealismo, fino all’action painting, al new dada e alla pop art, ci si è dibattuti all’interno di questo problema, senza uscirne e senza, d’altro canto, risolverlo. Tuttavia, le angolazioni da cui ci si è posti di volta in volta sono molto diverse.
All’impressionismo, per esempio, interessava ristabilire il contatto soggetto-natura, sulla base dei problemi ottico-percettivi indagati da Chevreul; all’espressionismo, invece, importava il rapporto con la vita, intesa come realtà sociale, verso cui l’arte, stravolgendo i suoi canoni formali con un’ottica soggettivistica, doveva indirizzare un’azione corrosiva. Dada, invece, predicava il momento nichilista con le armi dello scandalo e dell’ironia, in modo da attuare, mediante la distruzione sistematica, una auspicata verginità che fosse nello stesso tempo culturale ed etica. Infine, col surrealismo, l’unione tra l’arte e la vita era affidata all’emergere dell’inconscio, attraverso la scrittura automatica, fino al livello della coscienza.
Rispetto alle avaguardie storiche, gli artisti della corrente povera e concettualista si pongono in atteggiamento critico, in quanto salvano di fatto solo Duchamp, coinvolgendo tutto il resto in un giudizio fortemente riduttivo. Le avanguardie, infatti, avrebbero fallito il loro obiettivo di colmare l’abisso tra l’arte e la vita, polarizzando, tutto sommato, l’attenzione sull’elemento arte che rimaneva pertanto chiuso nella «sfera del separato» e della contemplazione.
A questo sostanziale fallimento, col giudizio negativo che ne consegue, non sfuggirebbero neanche i movimenti del dopoguerra, cui pure gli artisti fin qui considerati sono legati storicamente, l’action painting, il new dada e la pop art. Se Pollock aveva posto di nuovo drammaticamente il problema del coinvolgimento esistenziale, considerando la tela come momento del flusso vitale, sta di fatto che, una volta esaurito il processo operativo-realizzativo durante il quale il quadro diventava l’«arena» in cui agire, l’opera riacquistava in pieno la sua statica dimensione contemplativa.
D’altra parte ancora più superficiale è il ristabilito contatto con la realtà urbana e tecnologica operato dalla pop art, in cui l’ottica spersonalizzata e talvolta ironica dell’artista ripropone una situazione, di separatezza nell’enfatizzazione rigida dell’oggetto.
È proprio parallelamente alla pop art che viene ripreso il problema dell’integrazione dell’arte nella vita, con Rauschenberg, il gruppo Fluxus, Cage, Kaprow etc. negli Stati Uniti, Klein, Manzoni, Beuys etc. in Europa.
Infatti questo gruppo eterogeneo di artisti non lotta per asserire esteticamente la carica esistenziale (come faceva l’informale proiettandola sulla tela), ma afferma l’esistenza… usa… l’arte come campo in cui realizzare ed esaltare tutte le componenti dell’esistere… quali il movimento, il tempo, la luce, la voce, lo spazio, il corpo, il nulla. Queste esperienze, tuttavia, accanto all’elemento vitalistico comportano un atteggiamento conoscitivo e, quindi, una componente riflessiva, in quanto l’artista non vuole ricoprire il mondo con una duplicazione che metta in dubbio quella, reale, ma costituire procedimenti di conoscenza. Pertanto, è proprio questa attitudine fondamentale che ha fatto considerare gli artisti, cui abbiamo accennato, come sostanzialmente anticipatori di alcuni punti della poetica dell’arte concettuale intesa nel senso più ampio.
Concettualismo comportamentistico e correnti contemporanee
Queste esperienze sono venute radicalizzandosi negli attuali movimenti che, dal ‘67 in poi, hanno assunto i nomi di arte povera, land art, arte di comportamento, conceptual art, body art. Evidentemente queste denominazioni non sono intercambiabili, in quanto indicano cose differenti. Tuttavia, in pratica, spesso ci si trova nella difficoltà di inserire con precisione un evento estetico in un filone particolare.
Sono frequenti i casi in cui arte concettuale e land art (arte di paesaggio) coincidono: per esempio, V. Burgin, che mette in un punto particolare del terreno la fotografia del pezzo di terra in questione, fa, nello stesso tempo, un intervento sulla natura e un’operazione concettuale; oppure M. Boezem, un artista olandese, acquistando un metro quadro di terra in vari paesi del mondo modifica il paesaggio definendo i limiti della sua proprietà, ma, contemporaneamente, demitizza il concetto di proprietà, rendendola inutilizzabile.
Una componente concettuale ed una di deformazione dell’ambiente coesistono anche nell’intervento di M. Heizer nel deserto del Nevada (1970), un gigantesco spazio negativo rappresentato da uno scavo lungo mezzo chilometro, profondo quindici metri, largo dieci, creato smuovendo sessantamila tonnellate di terra.
Nell’ambito della land art si muovono artisti come W. De Maria con i suoi films-reportages sulla «presenza» della terra, sul suolo in sé; R. Smithson, che produce valanghe artificiali, tonnellate di terra che sommergono case abbandonate; C. André, che esplora geometricamente i pavimenti e, inoltre, D. Oppenheim, R. Long, B. Flanagan, J. Dibbets, Christo. Di fatto, molte opere land passano per concettuali, suscitando le critiche di C. Millet e di C. Harrison, sostenitori di una più rigorosa corrente concettuale (quella di Kosuth, per esempio) che esamineremo più avanti.
Le opere della land art, infatti, a giudizio di questi critici, non sarebbero concettuali, perché, invece di investigare le possibilità dell’arte, continuano a trasmettere messaggi aneddotici e circostanziali.
Una convergenza di tematiche si ha anche tra alcuni rappresentanti dell’arte povera, che sono successivamente passati al concettualismo.
Volendo ragionare per categorie e linee di tendenza, svuotate dei fatti e degli uomini, il concettualismo dovrebbe rappresentare l’antitesi dell’arte povera, giacché, laddove questa puntava al materiale, quello punta al concetto, laddove questa ingombrava e occupava spazio con le sue materie, quello si è smaterializzato ed è, talvolta, tornato al quadro, laddove questa si fondava sulla decultura, quello si pretende «colto». In realtà lontano dall’arte povera si colloca senz’altro il concettualismo di Art-Language, ma non quello che, per comodità di esposizione, stiamo chiamando comportamentistico.
Anzi, quest’ultimo si trova spesso a recuperare, se non a ripetere, gli atteggiamenti di fondo dell’arte povera, soprattutto nella ricerca del primario.
In Italia molti artisti «poveri» sono approdati alla conceptual art, come Calzolari, Merz, Fabro, Prini, Kounellis, in parte Anselmo etc., conservando o eliminando a stento e gradualmente i segni del retaggio materico.
È esemplare a questo proposito il percorso di Mario Merz che cominciò ad usare il neon come materia, per poi adottarlo in alcune scritte, rendendolo, quindi, veicolo di messaggi e idee che lo avevano colpito. Ma, da un concettualismo esteriore e approssimativo, quale è quello degli slogans del maggio francese aggiunti ai suoi igloo materici e spaziali, Merz è passato a una operazione concettuale più inerente agli oggetti, quale è quella della serie Fibonacci, trasformata in strumento di costruzione e di conoscenza.
Mentre Merz ha in buona parte superato l’arte povera, altri artisti vi sono rimasti ancora legati: ad esempio G. Anselmo nella sua produzione, pur dedicandosi a ricerche concettuali nell’investigazione delle leggi della materia (potenzialità dinamica, equilibrio, gravitazione, peso etc.), continua ad assegnare a quest’ultima un ruolo di protagonista.
Quando restituisce all’antracite il suo fuoco originario, introducendovi una luce, o quando concretizza l’idea di tensione, inserendo una spugna fra due sbarre metalliche di centonovanta chilogrammi ciascuna, tutto sommato, polarizza la nostra attenzione sul dato materico dell’antracite, della spugna, del ferro e non sul principio fisico che viene sperimentato.
Dall’arte povera proviene anche Jannis Kounellis che ha sempre dimostrato, sin dai segni alfabetici e numerici del ‘60, una propensione a scavalcare il quadro come oggetto. Un tema ricorrente della sua problematica è quello della dialettica tra elementi formali e elementi sensibili, che ritroviamo in un’opera del ‘70 «Senza titolo», in cui ad un rigido pannello di metallo fa da polo antitetico una donna (o, in un’altra versione, l’artista) con la bocca e gli occhi incerottati con su scritto «alberi», «alberi», «piombo».
Anche a livello verbale, ed in questo senso concettuale, torna l’evocazione di realtà contrapposte dialetticamente. Tuttavia, lo sviluppo successivo di Kounellis non si è svolto tanto in direzione dei concetti, quanto dei comportamenti, dei gesti, in cui solo occasionalmente intervengono elementi concettuali.
L’elemento comportamentistico è nettamente prevalente in Joseph Beuys; in quest’artista tedesco, di cui rileveremo più avanti il carattere da eroe romantico nietzschiano, il gesto si salda all’ideologia. Ritroviamo in lui il fascino del comportamentismo liberatorio e politico teorizzato da Achille Bonito Oliva e Germano Celant, con tutto il peso dell’individualismo e della carica ascetica che comporta.
La parte più interessante della sua produzione è data dalle azioni, tra cui quella chiamata Eurasienstab, durante la quale Beuys crea, all’interno di una stanza, uno spazio con dei pali ricoperti di feltro e con del grasso raccolto negli angoli in forme geometriche. Questa, come le altre azioni di Beuys, punta l’attenzione sul dato corporale, sulla resistenza fisica, sull’aspetto esistenziale.
Non c’è un significato particolare nell’azione al di là dell’«azione », ma questa, in quanto tale, finisce con l’avere una funzione mistica ed esemplare sul piano dell’autoliberazione politica individuale. Oltre che per la portata ideologica del suo discorso, nel caso di Beuys, si può parlare di concettualismo per la presenza degli scritti, dei progetti, degli schizzi illustrativi, che accompagnano l’azione e finiscono con l’assurgere al livello di opere vere e proprie.
Comportamento e concettualismo si sono fusi completamente in due artisti dell’ultima leva: Gino De Dominicis e Vettor Pisani, che hanno cominciato la loro attività nel momento in cui l’arte povera era agli sgoccioli. Tale comportamento concettualizzato nel primo si esprime nella ricerca dell’immortalità (suo tema di fondo) e del superamento di taluni limiti umani e naturali, nel secondo in un’azione di riporto da Beuys, e soprattutto, da Duchamp.
Il ricorso al «plagio» sistematico, annullando l’elemento creativo, che secondo parametri romantici distingueva l’artista dall’umanità volgare, sconfina nella dimensione concettuale di tipo analitico propria del critico.
In tal modo, si assiste a un notevole scambio di ruoli: accanto a critici che intervengono nella prassi artistica, compaiono artisti che si appropriano degli strumenti della critica. Questo è, appunto, il caso di Vettor Pisani ed anche di G. Paolini, che opera su quadri del Lotto e di Raffaello, o di V. Agnetti, che elabora veri e propri scritti teorici sull’arte.
Negli artisti fin qui considerati ricorre, in forme diverse, uno degli aspetti più frequenti ed anche più esteriori, se vogliamo, dell’arte concettuale: l’uso del linguaggio, della parola scritta che vive autonoma su un pannello, o si appone ad un oggetto o lo sostituisce o si affianca ad un gesto. Tuttavia, proprio nell’uso del linguaggio verbale si sono verificate le mistificazioni più grossolane, con il ricorso a frasi profetiche, pseudo-letterarie, ermetiche. Con questa applicazione indiscriminata del troppo estensivo termine «concettuale» polemizza Catherine Miller.
Per alcuni… questa pratica non consiste che in una sotto-letteratura; sottoletteratura, nella misura in cui l’interesse dell’opera non risulta tanto da un lavoro sulla parola o sulla costruzione della frase, quanto dalla bizzarria o dall’imprecisione dell’immagine o del fatto evocato dalle parole; ed ancora: attualmente, tutto quello che appare sensibilmente ermetico, intellettuale o poetico è concettuale. Una tendenza italiana vuole che per fare «concettuale», si scelga qualche frase biblica, che la si conservi, se possibile, in latino, che la si scriva in lettere di bronzo o di acciaio su dei veri e propri quadri o degli oggetti surrealizzanti.
Basta dare una scorsa ad alcuni titoli (che poi sono anche le opere), «Io sono l’alfa e l’omega il primo e l’ultimo il principio e la fine di tutto quanto» di Agnetti, o «Della Metafisica» di Scheggi, o «Ho cucito il mio vestito per la mia salita in paradiso» di Calzolari, per rendersi conto della gratuità di certe trovate ad effetto. Ancora più chiara in questo senso è un’altra opera di Calzolari, costituita dalle parole «mortificatio», «imperfectio», «putrefactio», «combustio», «incineratio», «calcinatio» scritte al neon, come se il fascino della lingua latina bastasse a creare un’aura concettuale.
Tuttavia, non riteniamo che sia l’aspetto evocativo tout court che si debba rifiutare, come fa la Millet, ma solo un certo ermetismo semplicistico e grossolano, che non può essere generalizzato. Per esempio, in G. Paolini, un concettuale torinese piuttosto rigoroso, troviamo sì il carattere evocativo, ma privo di ogni allusività, mediato attraverso un linguaggio verbale o visivo estremamente scarno, che lo rende scarsamente incline all’effetto suggestivo.
Quando Paolini ha scritto le otto lettere dell’espressione «Lo Spazio» sulle quattro pareti di una stanza, esaurisce con la lettura la ricognizione spaziale, in modo che il medium evocante e la realtà evocata si identificano senza generare misteri o «aure poetiche».
L’elemento evocativo, controllato tuttavia dall’atteggiamento distaccato e obiettivo dell’artista, compare anche in «Stanza per voci», un lavoro recente (1971) di C. Alfano, che è passato alla conceptual art dalle ricerche ottico-percettive.
Si tratta di un’opera complessa, in cui si attua l’integrazione di messaggi a più livelli linguistici: dall’interno di un grande ma sottile telaio di alluminio, che ci ricorda nella sua pregnanza strutturale le esperienze minimal, ci vengono restituite voci registrate su piccoli nastri che, con tono cadenzato, elencano nomi di piante ed animali, ricostruiscono verbalmente ritratti di amici o autoritratti, accennano dialoghi.
A fianco vengono presentati contemporaneamente i progetti delle registrazioni e gli astucci marmorei delle bobine, dotati anch’essi come il telaio di una certa carica estetica, su cui sono incisi i nomi di alcuni amici di Alfano e delle persone che entrano nella sua vita. Il concettualismo sottile di quest’opera ha diverse sfumature, nel suo associarsi all’elemento progettuale, a quello verbale-descrittivo e, inoltre, al significato generale che si coglie nella relazione tra realtà diverse, in quanto testimonianza di un’altra relazione, quella tra l’artista e il mondo esterno.
Il mito di un comportamento globalizzante
Lo scopo degli artisti fin qui considerati, sia che ricorrano all’azione sia che si servano degli scritti o ancora degli oggetti, è quello di indagare l’uomo come entità mentale e corporea, e di restituirlo, mediante una presa di coscienza individualistica, alla sua più genuina natura, reintegrandolo in se stesso e nell’universo.
Nella prospettiva di questa globalizzazione, l’opera d’arte non si dovrebbe più costituire come distaccata dall’autore, ma in prosecuzione di esso come trasparenza del movimento individuale dell’uomo sincronizzato su un movimento più esteso, quello dell’universo biologico. Egli esperimenta il proprio apparato psico-motorio come zona elastica ed estensibile di reazioni ed azioni a catena nei riguardi dell’esterno. Si verifica, quindi, una sorta di auto auscultazione attraverso la quale … l’artista… scopre il proprio apparato interno che, come campo di possibilità permanente, produce e sviluppa una nozione più globale di fantasia, quella di immaginazione… Immaginazione… come funzionamento integro e non intaccato dall’esterno di tutti i livelli esistenziali.
Sebbene queste formulazioni non siano dissociate dalla preoccupazione di inserire l’attività di questi artisti in una rigorosa struttura di motivazioni, ci sembra che si sia talvolta venuti meno a tale assunto, forse per il troppo frequente ricorso alle facoltà conoscitive che più si fondano sulla sensibilità ed anche per il livello fortemente riduttivo a cui spesso si pone la ricerca dei valori primari dell’esistenza.
Possiamo pertanto individuare una stretta connessione con alcuni temi della cultura romantica: nella tensione a recuperare, in una indeterminazione spazio-temporale, la totalità dell’uomo in consonanza con quella dell’universo; nel carattere individualistico di tale ricerca; nella netta prevalenza della sfera immaginativa, come
catalizzatrice di tutte le facoltà umane. Tale matrice culturale è evidente, in particolare, nell’opera di J. Beuys, che ha come obbiettivo lo sviluppo della creatività insita nell’uomo come strumento di autoliberazione.
Penso di appartenere a questa linea culturale — afferma Beuys in un’intervista —. Ma la linea del romanticismo tedesco — Novalis, in parte Goethe — è stata spezzata storicamente dal concetto positivistico di scienza col quale gli uomini hanno realizzato la rivoluzione industriale. Però la metodologia che io ho ripreso non si può identificare completamente con quella di Novalis, perché questa ha considerato piuttosto il rapporto tra l’uomo e le forze trascendenti che non tra l’uomo e la materia.
Appare ora scontato un raffronto con Novalis, per il quale temi come la morte o la notte non implicano momenti di irrazionalità ma sono procedimenti di approccio conoscitivo alla realtà. Ciò trova pieno riscontro nel discorso di Bonito Oliva: si tratta di …consegnare l’uomo davanti al nodo primario dell’esistenza: il tempo e la morte. L’artista si è accorto che tale nodo non si scioglie col confronto della cultura e della storia, allora ha recuperato il valore della natura, quale matrice astratta e germinatrice di tracce non artificiali.
La considerazione degli eventi naturali in tutto il loro arco, dalla nascita alla morte, rientra, appunto, in questo tentativo di raggiungere la materia prima assoluta, come sostanza dell’essere. Basterà ricordare, ad esempio, il ritorno frequente del tema della morte in artisti come Pascali, Fabro, De Dominicis, Ulrichs etc., per rendersi conto di quanto questi motivi siano profondamente sentiti.
La tautologia ed il problema dello spettacolo
La conseguenza immediata di questa ricerca volta a reintegrare l’uomo nella totalità della sua esistenza è l’atteggiamento tautologico, sintomo, appunto, del pareggiamento tra forma e realtà. Si chiude, quindi, il ciclo dei rapporti accidentali tra soggetto e quadro e si apre il ciclo in cui i rapporti non esistono, le entità sono, significano solo se stesse, così il quadro è solo materia, tela.
In questa luce vanno visti già gli achromes di Manzoni del ‘67, in cui la tela è da intendersi non come strumento portante altri segni, ma segno realtà essa stessa. Questo atteggiamento è ricorrente nella sua opera dall’assunzione autosignificante dell’alfabeto e della carta geografica, a quella dello stesso corpo, in tutti gli aspetti: escrementi, sangue, impronte digitali, fiato etc. In tal modo il corpo non è un mezzo tecnico per la trasmissione di un messaggio, ma diventa esso stesso messaggio.
Ciò si verifica sia che si attui la produzione di un oggetto, sia che ci si fermi al solo comportamento. Nell’azione, infatti, si vorrebbe realizzare la concretizzazione dello spazio e l’unione tra forma e realtà. Deve essere ben chiaro che non si vuol dare più un «significato» al comportamento, ma solo un «senso» che è quello dell’agire.
Già nel 1924 Schwitters realizzava un Merz-bau, cioè un environment, sviluppando in una dimensione quadridimensionale il discorso dei collages di Boccioni. Ma l’environment comporta ancora una componente contemplativa ed uno stacco nel tempo della fruizione.
Negli happenings di Kaprow, Holdenburg, Dine, etc., l’introduzione dell’azione inserisce lo spazio-ambiente nel presente, superando, in una contestualità nuova, la rigida struttura spazio-temporale delle rappresentazioni tradizionali. In tali azioni, però, in cui la dimensione contemplativa sarebbe superata da una partecipazione realmente attiva del pubblico, c’è ancora il pericolo di produrre spettacolo in cui lo spettatore è portato a leggere il segno strutturale del corpo non come comportamento ma come forma…
L’artista, dunque, non predispone uno spettacolo che si risolve ancora una volta in un rapporto di contemplazione e quindi in un congelamento di distanza tra pubblico e attore, ma attua una dimensione diversa a favore di un effettivo comportamento dell’artista coinvolgendo se stesso e tutti gli spettatori.
In tal modo dovrebbe essere eliminata ogni barriera tra artisti e fruitori in una comune dell’immaginazione in cui si attui il quotidiano del fantastico.Ci sembra piuttosto arduo riconoscere questo appiattimento, questo totale coincidere dell’arte con la vita. Di fatto, le azioni non sono momenti di vita «bruta»: il comportamento degli artisti in quanto «artisti» non si identifica fino in fondo con la loro vita quotidiana, attuandosi di fatto in un tempo di fruizione determinato ed in uno spazio condizionante, particolare, come quello della galleria, realizzando così di nuovo spettacoli.
Anche quando si cercano ambienti diversi, la partecipazione consapevole è limitata ad un pubblico d’élite, che ripropone l’atmosfera tipica delle mostre. Inoltre il distacco tra fruizione ed evento estetico si ritrova anche all’interno di quest’ultimo rispetto alla vita, nel momento della mediazione conoscitiva analitica che gli è attribuita.
In conclusione, ci pare che sia rimasta ancora inattuata la proposta di un modello di società estetica avanzata da Menna, poiché non è l’arte che si è calata nella vita, ma, nuovamente, nell’opera di questi artisti è la vita ad esser vista in una prospettiva estetica; a questo punto, si dovranno fare i conti con una visione estetizzante ed i suoi rischi.
Inoltre, attraverso la concezione dell’arte come tautologia, l’opera non più rappresentativa ma presentativa rifiuta la sua dimensione metaforica per essere associata al procedimento metonimico, che è la possibilità che l’uomo ha di vivere accostato alla propria opera in modo che questa circolarmente sia presente e non sfugga lungo la tangente dei significati.
A questo proposito vorremmo far rilevare come l’uso indiscriminato dei termini linguistici produca una sorta di confusione. Non si capisce infatti come si attui in maniera esauriente la significazione di un segno che significa se stesso, e, d’altro canto, come possa avvenire la separazione dei due livelli, quello metaforico e quello metonimico, che, viceversa, sono connessi e necessariamente compresenti nel processo di significazione. Potremo, infatti, aver messaggi prevalentemente metaforici o metonimici ma, evidentemente, ognuno di questi non implica il ricorso esclusivo ad uno dei due modelli, se non si vuole cadere in un discorso in qualche misura «afasico», nel senso indicato da Jakobson.
La concezione dell’arte come tautologia è vista sotto un’altra angolazione da Catherine Millet, forse anche perché il suo discorso si lega ad artisti che seguono un particolare filone nell’ambito dell’arte concettuale. Dice infatti la Millet: Ciò che l’arte ha in comune con la logica e la matematica è che è una tautologia cioè che «l’idea dell’arte» (« opera») e l’arte sono una stessa cosa.
Sostanzialmente questa accezione si pone su un piano metalinguistico, in quanto l’arte è tautologica nella misura in cui riflette se stessa, mentre per la corrente comportamentista è tautologica rispetto alla vita, su un piano, dunque, non di metalinguaggio ma di linguaggio in quanto vorrebbe identificarsi con la vita.
I precedenti del concettualismo puro
È interessante rilevare come le esperienze della corrente comportamentista, secondo J. Kosuth, che fa parte dei concettuali puri, appoggiati dalla Millet e da C. Harrison, hanno avuto un’importanza di rottura, ma non è abbastanza fare un gesto artistico o presentare un quadro bianco, o dire la mia vita è la mia arte o fare della comunicazione orale… Se l’artista… non ha allargato o articolato il concetto di arte, non ha contribuito in niente, ed il suo gesto, non spiegato, mistico, non ha senso in arte e probabilmente anche nella vita.
Ciò che interessa questi artisti, quindi, non è il contatto con la vita, ma una riqualificazione dell’attività artistica in senso definitorio, al fine di un chiarimento operativo dell’arte e dei suoi confini.
A questo proposito il giudizio negativo sulle avanguardie da parte dei comportamentisti si ribalta in giudizio positivo.
Impressionismo, neoimpressionismo, cubismo, suprematismo hanno avuto il merito di indagare l’essenza dell’arte. Non è quindi l’adesione (fallita) alla vita l’aspetto interessante dei movimenti del ‘900 — anzi ne costituisce un limite — ma il loro carattere di auto-analisi. Su questo piano si giustifica l’interesse per M. Duchamp che ha messo in evidenza questa frontiera dove nasce l’oggetto d’arte. Con il ready-made aiutando l’arte spostò il suo obbiettivo dalla forma del linguaggio al contenuto dello stesso… Tale svolta dall’«apparenza» alla «concezione» dette il via all’arte «moderna», e all’arte «concettuale».
In questa prospettiva la ricerca artistica finiva per polarizzarsi su se stessa.
I precedenti più immediati di tale atteggiamento, nel senso in cui viene assunto dall’arte concettuale, li ritroviamo nelle esperienze dell’astrattista «freddo» americano Ad Reinhardt e dell’art minimal. Esponenti di tale tendenza, sviluppatasi negli Stati Uniti dalla prima metà degli anni ‘60, erano D. Judd, C. André, B. Morris, S. Lewitt. Il punto di contatto tra il concettualismo e l’art minimal si individua nell’istanza sostanzialmente conoscitiva di quest’ultima che sfociava in un processo di riduzione dell’oggetto ai suoi minimi elementi di riconoscimento.
A tale scopo l’opera si liberava di ogni carattere rappresentativo e, quindi, di ogni riflesso del mondo e dell’artista, avvalendosi spesso di forme geometriche che non producevano una rappresentazione particolare ed aneddotica della realtà. Il procedimento di produzione perdeva così di importanza, gli oggetti rivelavano solo [loro processo di percezione. Ma, è stata proprio… l’impossibilità di raggiungere il limite mitico della sensibilità minimale che ha prodotto in qualche modo, lo spostamento… verso il concettualismo… Poiché il minimum sensibile era sempre sfuggente-trascendente non si presentava in sé ma sempre inserito in sistemi, la ricerca minimalista doveva mutare metodi e direzione.
Il termine di passaggio è costituito dalla land art; secondo R. Wedewer, infatti, i solchi nella terra o sulla neve, poiché erano inamovibili dal luogo in cui venivano eseguiti, hanno reso necessaria la documentazione fotografica o cinematografica insieme alla pubblicazione dei progetti o dei diagrammi delle loro azioni, aprendo, in tal modo la via al concettualismo.
La poetica del concettualismo puro
Con l’art minimal abbiamo assistito alla scomparsa dell’artista, che cedeva il posto all’oggetto come stimolo all’esercizio della percezione, anche se questo finiva quasi per dissolversi nel suo ridursi al «minimo» della sensibilità.
La corrente concettuale che ora esamineremo, invece, oltre all’artista pone in secondo piano anche la percezione sensibile collegata all’oggetto, secondo le indicazioni della land art. L’atteggiamento anti-oggettualistico è, infatti, una costante per questi artisti; il supporto materiale, quando persiste, ha una funzione solamente strumentale.
Nel 1966, per esempio, Joseph Kosuth, che lavora a New York, presentava una serie di oggetti d’uso, come una sedia, un orologio, una sega, accompagnati dalla loro fotografia e dalla definizione tratta dal dizionario. Gli ingrandimenti fotostatici — afferma Kosuth — non erano da considerarsi quadri o sculture o anche «opere» nel senso usuale — in quanto il punto era che fossero arte come idea — mi riferivo alla natura fisica dell’ingrandimento come ad una «forma di presentazione»...
Le didascalie avevano lo scopo di evitare associazioni mentali estranee alle opere, cioè alle «proposizioni» che assolvevano al loro assunto conoscitivo. Questo atteggiamento è venuto radicalizzandosi nella produzione di Kosuth dal 1968 in poi, col ricorso a mezzi di comunicazione sempre più anonimi (giornali, riviste, TV) e con la sostituzione degli ingrandimenti fotografici con i manifesti murali, tali da evitare tutti i possibili risvolti formalistici connessi all’idea di quadro. In tali lavori l’aspetto denotativo veniva enfatizzato al massimo, in modo da limitare il senso connotato che poteva portare a degli slittamenti eteronomi del messaggio artistico.
La preoccupazione dell’anonimato e della spersonalizzazione dell’opera, estremamente rigorosa nel suo intento conoscitivo, si ritrova anche in Bernar Venet. Questo artista, infatti, presenta postulati analitici di varie discipline scientifiche, servendosi di diversi mezzi espressivi come registrazioni, conferenze, dischi, televisione etc., tra i quali particolare rilevanza ha la «trascrizione», cioè la riproduzione dei testi scelti attraverso la ricopiatura a mano sulla tela (e qui l’equivocità del «quadro» potrebbe ancora presentarsi) o le fotocopie ingrandite.
Ad esempio, nell’opera che ha per soggetto un codice matematico la deformazione, dovuta alla personalità dell’artista, al suo ambiente naturale e storico, è ridotta al minimo, sia per il contenuto del messaggio che per la sua rappresentazione da cui sono omesse tutte le connotazioni tipiche del linguaggio pittorico. Il ricorso di Venet alla scienza ha come fine l’analisi allo stato puro, nell’intento di riconferire all’arte la funzione didattica che essa ha già avuto in altre epoche. A tale scopo le sue opere più recenti non riproducono più intere parti dei testi scientifici, ma piuttosto il titolo o la prefazione o il sommario, in modo da stimolarne una lettura diretta.
L’artista assume, pertanto, una posizione sostanzialmente anti-individualistica. Afferma, infatti, Venet: solo l’energia creatrice giustifica la individualizzazione momentanea della coscienza, ma esaurisce la sua motivazione nel momento stesso in cui la svolge. La conclusione dello sforzo creativo è la negazione o piuttosto l’eliminazione dell’io.
In questa prospettiva si deve interpretare il rifiuto da parte dei concettualisti della nozione di stile che, tuttavia, ci sembra ritorni nella caratteristica scelta di temi e di linguaggio, che si determina in immagini facilmente attribuibili all’uno o all’altro, finendo per riproporne l’individualità; ciò, nonostante i media meccanici, le «leggende» e il tipo di «scala» che vengono via via adottati.
In definitiva, emerge, anche se talvolta in forma riduttiva, un’esigenza tipica della cultura, o almeno di certa cultura, degli ultimi decenni: quella di sottrarre i prodotti artistici a metodologie analitiche eteronome che, nel loro frequente ricorrere all’irrazionale, all’individuo creatore o a parametri esterni alla specificità dell’opera, sono eco di una cultura che ci appare ormai superata.
Nella sua esigenza di autonomia questa corrente concettuale si differenzia nettamente da quella che abbiamo chiamato comportamentistica, per cui individualismo e ascendenti romantici sono componenti fondamentali.
Culturalmente vicini a Kosuth e Venet sono alcuni artisti concettuali che tuttavia C. Millet considera non «ortodossi», nella misura in cui non hanno del tutto rinunciato alla funzione espressiva dell’opera.
In Lawrence Weiner, per esempio, tale tendenza si concretizza nei suoi «Statements»: «dei chiodi di acciaio piantati nel pavimento nei punti disegnati al momento dell’installazione», oppure «una scala di colori standard gettata nel mare» o più recentemente, con tono più astratto «una turbolenza indotta in una massa d’acqua» o «un’entità indivisibile divisa, ridotta o separata» oppure «un insulto diretto ad un corso d’acqua naturale». Si tratta di idee di eventi, idee di progetti che sono stati attuati o che potrebbero essere attuati, in un clima di indefinitezza evocativa, estraneo alle interpretazioni puriste del concettualismo.
Tuttavia, lo spessore allusivo del linguaggio di Weiner ha uno scopo non troppo distante dai propositi di Kosuth, quello di sfuggire alla presa oggettuale. Ad entrambi, infatti, non interessa l’esecuzione dei progetti ma solo la loro dimensione mentale. A questo proposito Weiner afferma: 1) L’artista può realizzare la piece; 2) La piece può essere realizzata;
3) Non è necessario realizzare la piece. Essendo ciascuna di queste possibilità uguale e conforme alla intenzione dell’artista, la decisione per quanto concerne le condizioni di realizzabilità della piece dipende dal ricettore in occasione della ricezione.
Antioggettualista è anche l’opera di Robert Barry, la cui ricerca si attua, se così si può dire, nel vuoto lasciato dall’oggetto: «qualcosa di cui ero consapevole ma che ora ho dimenticato». Barry afferma che le sue pieces consistono in pensieri dimenticati o in frammenti del suo inconscio.
E aggiunge: Utilizzo anche delle cose che non sono comunicabili, che sono inconoscibili, o che non sono ancora conosciute. Le pieces sono effettive, ma non concrete… Così nel ‘70 Barry pubblica una serie di aggettivi e di proposizioni riferiti, come definizioni concettuali, all’oggetto che non c’è più: «allusivo, / unico, / persistente, / armonioso, / composto, / consistente» etc., «cambia sempre. / Ha un ordine. / Non ha un luogo specifico. / I suoi confini non sono fissi… / Una sua parte può essere parte di un’altra cosa. / Un poco di esso è familiare. / Un poco di esso è estraneo. / Conoscerlo lo cambia». L’antioggettualismo si vela qui di una sfumatura particolare che potremmo definire anti-sensibilistica, e questo in polemica con l’art minimal e con l’intento di superare l’impasse in cui tale ricerca si era cacciata.
Anti-oggettualismo e anti-sensibilismo caratterizzano anche le opere di Douglas Huebler: «Duration», «Locations», «Variabl Pieces». Per esempio, nella «Location Pieces» n. 8 del 1968 egli presentava un verbale che, con stile notarile, ricordava come nell’aprile fosse stata inviata una lettera (di cui veniva riportata la copia) a circa quattrocento ragazze del Junior College di Bradford, in cui esse erano state invitate a scrivere un loro importante segreto su un pezzo di carta che doveva essere poi bruciato. Dopo di ciò le ceneri erano state spedite a Huebler che, come garantiva il verbale, nel maggio successivo le aveva «sparse al vento».
Il chiarimento di quest’opera ci viene dallo stesso Huebler: Il mondo è pieno di oggetti più o meno interessanti, non è mia intenzione aggiungervene degli altri. Preferisco, semplicemente, dichiarare l’esistenza delle cose in termini di tempo e spazio. Più specificamente, l’opera concerne se stessa (e qui torna la tautologia) in relazione con cose la cui interrelazionalità è al di là dell’esperienza percettiva diretta. Poiché l’opera è al di là dell’esperienza percettiva diretta, la conoscenza dell’opera dipende da un sistema di documentazione. La documentazione prende la forma di fotografie, mappe, disegni e linguaggio descrittivo.
Si tratta evidentemente di affermazioni in chiave anti-minimalista con un netto rifiuto dell’oggetto e della percezione come strumento conoscitivo: tutto quello che vi può essere di oggettuale, infatti, è solo «sistema di documentazione», e quindi strumentale al concetto.
Una posizione particolare, per certi versi, ancora più distante dai puristi Kosuth e Venet, è quella di Victor Burgin, inglese, e David Lamelas, argentino. Costoro, infatti, riprendono alcune tematiche degli artisti di cui abbiamo già parlato, come il linguaggio verbale, l’istanza conoscitiva, l’uso della fotografia, ma vi inseriscono anche l’analisi ambientale e lo stimolo rivolto al comportamento del fruitore.
Burgin, per esempio, in «Narrative Piece», un’opera del 1970, dispone sui muri di un locale una serie di diciotto proposizioni allusive a caratteristiche dell’ambiente. Queste inizialmente si presentano come categorie vuote, impersonali, ma l’atto esecutivo del lettore, articolandole con una percezione-visualizzazione della realtà, offre una via d’accesso all’immagine ambientale.
Così «Performative, Narrative Piece», del 1971, consiste di tre parti: una narrativa che è rappresentata da un gruppo di proposizioni collegate tra loro secondo le leggi logiche e strutturali del linguaggio, ma tali da descrivere un fatto a livello universale, prescindendo dall’esperienza particolare dell’artista; una parte visuale, fotografica, dove è possibile ritrovare elementi di quella narrativa (si raffronta la parola «scrivania» all’immagine di una scrivania); una parte «esecutiva» che costituisce il legame tra le due precedenti.
La parte narrativa acquista un senso solo a contatto con la fotografia, grazie all’impulso dato al lettore dall’autore nella parte esecutiva che impone l’accostamento delle altre due. Anche Burgin, quindi, ha un atteggiamento sostanzialmente anti-oggettuale: la realtà ritorna, infatti, nella sua opera, sempre e solamente attraverso l’«esecuzione» del fruitore (e qui vi sono evidenti ascendenti minimalisti) e totalmente mutata nel suo significato.
A questo artista può essere avvicinato, per molti aspetti, l’argentino David Lamelas, che lavora a Londra.
Una sua opera dal titolo «Film Script» consiste in un cortometraggio che descrive i movimenti di una giovane donna che percorre le vie della città, rientra a casa e compie le sue faccende domestiche. Il film è accompagnato dalla presentazione simultanea di tre serie di diapositive, che fermano l’attenzione su alcuni punti del cortometraggio. Una prima serie fornisce una documentazione parziale e modificata nell’ordine degli atti della protagonista, la seconda una informazione completa, ma sempre modificata, la terza una informazione incompleta ma non modificata.
Il punto di contatto con Burgin si individua nell’accostamento al reale, anche se a un livello «altro», nella convenzionalizzazione dei linguaggi cinematografico e di quello delle diapositive manipolato dall’artista. Ma proprio la scomposizione delle diapositive e lo sconvolgimento del filo semantico della realtà, dove ciò che conta non è il riferimento al mondo esterno quanto la relazione sintattica dei segni tra loro, restituiscono una nuova struttura analitica del reale.
Infatti, anche qui, come in Burgin, lo spettatore ha una parte primaria nella realizzazione della piece: … la struttura dell’opera esige un atto di completamento (performatif) da parte del fruitore… l’atto della performance… si esplica… al livello della percezione e della memoria: le immagini e la loro combinazione non hanno un valore autonomo, ma si presentano come mezzi per mettere in moto un processo di riflessione fenomenologica del riguardante sui propri processi mentali….
L’uso del linguaggio verbale nei concettualisti puri
Abbiamo visto come nell’opera degli artisti esaminati il linguaggio verbale sia spesso presente. Tale uso non è nuovo all’arte: surrealisti, cubisti, dadaisti e pop artists hanno impiegato frequentemente la parola anche se con modalità e funzioni diverse. Ai surrealisti interessava il conflitto tra il concetto espresso e un’immagine completamente estranea; i pop tenevano conto soprattutto dell’impatto visuale delle scritte prese dal paesaggio urbano contemporaneo.
I concettualisti, invece, assumono il linguaggio verbale prima di tutto come mezzo espressivo, come contenuto, nel senso tradizionale del termine, come strumento che rivela gli schemi di opposizione e di determinazione dell’opera, attribuendogli o meno, secondo i casi, una dimensione iconica. In artisti come Barry e Weiner o nel gruppo Art-Language, tale dimensione è completamente scomparsa; in Arakawa, Kosuth, Venet, essa, invece, è ancora presente, anche se in modo nuovo.
Per alcuni l’uso del linguaggio verbale nasce dalla consapevolezza della sua maggiore precisione comunicativa rispetto all’equivocità dell’immagine, ricca di elementi particolaristici; affermazione opinabile, perché sappiamo bene quanti aspetti esso presenti che ne caricano di ambiguità la referenzialità.
Infatti, restando nell’ambito di messaggi artistici, abbiamo già notato come il linguaggio verbale sia spesso assunto da Weiner, Barry e ancora da Arakawa, On Kawara etc. proprio per l’alone evocativo, «poetico», tutt’altro che referenziale, che comporta. Secondo C. Millet, le opere di questi artisti non potrebbero essere considerate propriamente concettuali, ma solo «denunziatrici», in quanto, portando fino ai limiti estremi le condizioni di esistenza di un’opera d’arte… interrogano l’arte, ma questa interrogazione non può essere vista che come un epifenomeno a una elaborazione che potrebbe essere ancora «espressiva».
Pertanto, questi interventi sarebbero ancora più letterari e aneddotici che risolutamente analitici.
Quella dell’analisi e della decodificazione è un’altra delle modalità d’impiego del linguaggio. Ma in relazione a quest’ultima bisogna operare una distinzione: nel caso, infatti, di artisti come Burgin, Weiner, Barry il linguaggio non si limita a investigare il campo dell’arte ma si rivolge alla realtà oggettiva, esistenziale, con un tono allusivo che invece di annullarla la esalta; diversamente nell’opera di Kosuth, Art-Language, Art and Analysis la parola serve solo a decodificare l’arte. Quest’ultima, infatti, per Kosuth è costituita da «proposizioni» che ci dicono che cosa è l’arte.
Se le scritte in Kosuth conservano ancora una pregnanza iconica, nei gruppi di Art-Language e di Art Analytical mantengono solo il loro significato concettuale. Il linguaggio verbale, divenuto «linguaggio supporto», costituisce il fulcro della loro ricerca. Ma alla domanda se sia un mezzo specifico dell’arte essi onestamente rispondono che è un mezzo per conservare il loro lavoro in un contesto di investigazione e di ricerca. È probabilmente un mezzo specifico dell’arte ma prima noi dovremmo definire che cos’è l’arte….
Il problema dell’oggetto come problema politico
L’uso del «linguaggio-supporto» nasce, per Art-Language, come conseguenza della scelta fra «dematerializzazione» e «celebrazione plastica». Se la dematerializzazione può portare all’idealismo e alla «letteratura», la forma, a parte tutti gli altri equivoci, si lega agli oggetti inserendo concretamente gli artisti nel sistema economico e produttivo della società.
Art-Language accetta, in linea di massima, l’analisi marxistica della materializzazione come sintomo del sistema capitalistico, ma si chiede fino a che punto l’oggetto sia un fatto borghese e comporti necessariamente la mercificazione e, d’altro canto, quale garanzia dia di non essere borghese la scelta di un supporto immateriale come quello linguistico.
Rispetto a tale posizione problematica e aperta, molto più rigido appare il discorso di Catherine Millet, per la quale l’arte occupa un posto a parte nella società, una zona riservata ed esclusiva di indagine su se stessa in cui non entra nulla del mondo esterno, con il quale, invece, prima o poi bisogna fare i conti.
L’origine di questo atteggiamento risiede in una profonda sfiducia verso la società e il ruolo stesso dell’arte al suo interno: È evidente, che se una qualunque azione artistica si svolge apertamente contro i sistemi in auge… essa è rapidamente sia costretta ai compromessi, sia ridotta all’inefficacia. Non è essa che impone delle condizioni, è manifestamente ciò a cui si oppone che la tollera. E più avanti: Invece se è possibile all’arte di intraprendere metodicamente la propria analisi, la propria critica, se la sua azione non tende a un’altra apertura, può allora privare i sistemi in auge dall’innestarvi i suoi valori e le sue ideologie.
Si delinea in tal modo un’attitudine negativa: l’arte può agire solo sottraendosi all’azione; laddove anche l’atteggiamento dei comportamentisti è negativo — con una impronta che vorrebbe essere marcusiano-adorniana — ma in senso opposto, quello di un’azione ipertrofica autoescludentesi dal sistema. Abbiamo già visto come il gesto vitalistico che dovrebbe compensare lo scacco dell’uomo «separato», in una convergenza di arte e vita, si sia risolto in una velleità illusoria, e come, d’altro canto, non sia sfuggito al pericolo dello spettacolo.
Ma c’è di più: l’«azione» superflua dei comportamentisti, continuando a servirsi dell’apparato divulgativo tradizionale (gallerie, cataloghi, riviste, grafica e oggetti d’arte veri e propri), non solo non riesce a risolvere, come un deus ex machina, l’annoso e complesso problema della proprietà privata — mentre Bonito Oliva lo dà per scontato — ma, nella sua pretesa di eliminare l’elaborazione ideologica, si presta ad essere fagocitata dal sistema molto più dell’ideologia che prescinda dalla prassi.
In definitiva, cosa preferire fra la concezione immobilistica della Millet e l’iperattivismo superfluo ed autoemarginante dei comportamentisti? Entrambe le posizioni hanno dei limiti: se appare legittima e onesta l’aspirazione definitoria dei concettuali puri, non si può non segnalare il pericolo che essi finiscano in un cul de sac riduttivo e paralizzante; d’altra parte, il vitalismo estetizzante degli artisti del comportamento li coinvolge, è vero, in prima persona, nel loro sforzo di inserirsi nella realtà storica contemporanea, ma rischia di sconfinare in un velleitario utopismo
tratto dal numero 25