Il design: processo e fruizione

ORIOL BOHIGAS
1. Processo e artefatto
Il design può essere definito soltanto come un caratteristico processo di creazione di forme, in una successione di fasi chiaramente stabilite e differenziate. A distinguerlo da qualsiasi altro campo creativo è proprio questa catena processuale nella quale praticamente nessuna fase emerge come «causa» diretta né tampoco come determinante il prodotto in modo particolare.

Promozione, elaborazione di dati e ipotesi formali, progetto, produzione e uso non appaiono con queste medesime caratteristiche nella musica, nella pittura, nell’artigianato, nella letteratura, nella pianificazione territoriale e nemmeno nelle forme storiche di quegli elementi che oggi vengono disegnati.
Il risultato finale è un determinato prodotto la cui forma è stata condizionata da tutte le specifiche circostanze del processo. A questo prodotto diamo il nome di «artefatto» utilizzando una terminologia abituale, per esempio, in S. A. Gregory, che non va confusa con l’uso di questo stesso termine in altre discipline, come la ricerca biologica. «Artefatto» è, cioè, un prodotto del lavoro umano, il risultato materiale della progettazione, tutto ciò che è stato progettato e fabbricato.
È il risultato materiale di questo processo di design.
Ma una volta che l’artefatto ha acquisito una sua propria vita, costituisce un elemento indipendente al quale occorre applicare giudizi non specificamente relazionati al processo che lo ha costituito. L’uso, il significato, i valori estetici e culturali possono essere considerati indipendentemente dalla sua biografia e in accordo, invece con la sua reale e attiva presenza nella nostra attualità.
Così, possiamo classificare due fenomeni indipendenti che ammettono analisi e valutazioni autonome: il processo del design di un artefatto e l’artefatto in sé.
Questa distinzione è stata stabilita più chiaramente in altre discipline. Althusser, per esempio, nel commentare «Il Capitale» distingue nettamente il mode d’exposition e il mode d’investigation.
Il secondo di questi «modi» è rappresentato dai lunghi episodi della
indagine che Marx condusse per tanti anni. Ma le vie e i documenti di questa ricerca scompaiono di fronte alla sostanzialità del risultato, che in questo caso è la definizione delle caratteristiche della produzione capitalistica. Il tema fondamentale de «Il Capitale» non è l’esposizione della logica di un processo di scoperta, bensì la esposizione sistematica, l’ordinamento apodittico dei concetti nella forma stessa di quel tipo di discorso dimostrativo che è «l’analisi» di cui Marx parla.
Popper, per un altro verso, afferma testualmente ne «la logica della ricerca scientifica»: il problema relativo al modo in cui ad una persona viene in mente una nuova – sia un tema musicale, un conflitto drammatico o una teoria scientifica – può essere di grande interesse per la psicologia empirica, ma è di scarsa importanza per l’analisi logica della conoscenza scientifica. Si tratta, cioè, di distinguere nettamente, entro il processo di concezione di una nuova idea, i metodi e i risultati del suo esame logico.
Benché queste due citazioni si riferiscano a processi di ricerca e di invenzione, il criterio si può trasporre integralmente al design, senza timore di cadere in considerazioni metaforiche. Soprattutto perché questi processi hanno la medesima struttura delle fasi centrali del processo di design nelle quali si definiscono le ipotesi formali.
Così la validità attuale di un artefatto va determinata in sequenza della sua analisi e della sua conoscenza, indipendentemente dalle sue vicissitudini biografiche, dalle intenzioni e perfino dai condizionamenti di qualunque ordine che intervennero nel processo di design. Allo stesso modo in cui la logica di un processo di invenzione o di ricerca è indipendente dalla validità della teoria che genera, – che viene verificata subito con mezzi deduttivi e con confronti empirici – la validità di un artefatto non si comprova in base al suo processo di design, bensì in base a quel che l’artefatto è, ed alle sue relazioni con il suo attuale intorno.
Abbiamo, dunque, due analisi indipendenti: quella del processo e quella dell’artefatto. Nell’analisi del processo intervengono in modo fondamentale i problemi della struttura sociale che agevola e perfino provoca il processo; della ideologia individuale o collettiva introdotta nelle decisioni formali o nella elaborazione e gerarchizzazione dei dati; dei metodi operativi in ogni sua fase; dei mezzi di produzione che sono intervenuti e che hanno definito il processo tanto per l’aspetto sociale che per quello tecnico; dell’uso cui l’artefatto era destinato e del concetto che di questo uso avranno coloro che interverranno successivamente nel processo. Tutti questi temi sottendono, evidentemente, una serie di considerazioni filologiche che pongono in relazione tutto il processo al contesto sociale che lo ha sostenuto.
Invece, nell’analisi dell’artefatto, le considerazioni storico-filologiche praticamente scompaiono. L’oggetto sta lì, senza altra storia che la memoria e le cariche psicologiche dello spettatore o dell’utente. Sta come un oggetto presente, che solo si giustifica per quel che è oggi e per ciò cui oggi serve. È un elemento da considerare solo secondo la nostra percezione e nell’attuale contesto.
Di fronte ad una unità architettonica come la chiesa di Santa Maria del Mar, per esempio, possiamo scegliere due atteggiamenti, due modi di conoscere ed afferrare la sua complessissima presenza. Il primo consiste nel considerare il processo attraverso il quale quell’edificio fu concepito e costruito.
Motivazioni sociali della sua istituzione; ideologia e struttura professionale delle persone e dei gruppi che intervennero nelle decisioni formali; metodi di costruzione adottati e loro adeguamento ai metodi progettuali; uso al quale la chiesa era destinata e sua rispondenza a determinate forme di vita, ad una determinata struttura economica e sociale; etc.
Queste considerazioni servono per il giudizio valutativo di un fatto storico o per dedurre determinate correlazioni fra architettura e società, architettura e metodo costruttivo, etc. che possono essere considerate ad integrazione di una struttura valida per altre situazioni storiche e applicabile, pertanto, agli attuali problemi del processo del design. Ma, che il metodo sia storico o strutturale, l’analisi si riferisce alla biografia della chiesa di Santa Maria del Mar e non a quel che in realtà oggi è e significa.
Il secondo modo di conoscere ed afferrare questa presenza è considerare quel che l’edificio è attualmente: un oggetto architettonico di determinate caratteristiche formali; un generatore di relazioni psicologiche e di nuove funzioni, sviluppate su un piano che ha molto poco a che vedere con i fondamenti psicologici e funzionali che determinarono la sua costruzione: un ricettacolo di usi imprevisti; un fatto costruttivo oggettivabile, indipendentemente dalle sue giustificazioni storiche; uno stimolo per determinati comportamenti; una esperienza estetica condizionata dalla sensibilità di oggi; etc. Queste considerazioni ci porteranno a conoscere la chiesa di Santa Maria del Mar non come il risultato di un processo, bensì come un oggetto che si percepisce nella società e nella cultura di oggi.
Se estendiamo questi criteri ad altri campi creativi come la pittura o la letteratura, essi appaiono ancora più evidenti. Noi siamo sicuri che i dipinti murali di Taull non potrebbero essere prodotti nella nostra situazione culturale e sociale nella quale è impossibile ritrovare le circostanze che li motivarono. Ma, in cambio, li percepiamo come oggetti nuovamente validi per la nostra sensibilità.
Il fatto che un qualsiasi pittore che oggi imiti pedissequamente Velasquez o Mondrian non può essere altro che un simulatore incolto, non ha nulla a che vedere con la nostra ammirazione per «Las Meninas» o per la serie «Boogie-Woogie», né con la nostra capacità di fruizione di queste opere. Il processo d’invenzione e di produzione è possibile solo se è adeguato alla sua situazione storica e al suo contesto originale, mentre la percezione e l’uso dell’oggetto prodotto sono indipendenti da questo processo.
2. Conoscenza e fruizione
Si disegna un oggetto perché l’uomo lo comprenda, lo usi e, infine, ne fruisca, nel senso più ampio della parola. La conoscenza di un oggetto può essere volta a diverse finalità secondo il punto di vista dal quale si compie questo sforzo di conoscenza. Queste finalità possono essere correlate alla interpretazione di una dinamica sociale, di un progresso tecnologico, di una formalizzazione visuale, di determinati condizionamenti economici.
Ma è evidente che dal punto di vista dell’uomo che si accinge semplicemente ad utilizzare quell’oggetto, indipendentemente da altre considerazioni non immediatamente attribuibili, la conoscenza non può essere più che un mezzo per ottenere il suo pieno uso e, in ultima analisi, la completa fruizione di tutte le possibilità che in esso si scoprono.
Se conosciamo in modo insufficiente il rasoio Braun Synchron e non sappiamo che premendo un determinato pulsante le testine si dispongono in modo da rifilare i baffi e le basette, faremo un uso ridotto di questo strumento.
Non lo useremo in tutte le sue possibilità. Alla persona che si sta radendo importa piuttosto poco il processo logico della sua definizione formale nonché il meccanismo grazie al quale le testine funzionano in modo particolare al comando del pulsante. Quel che importa è sapere tutto ciò che può fare con la macchina e quale sia il suo uso più proficuo.
E questo atteggiamento conoscitivo, come presto vedremo, non solo è importante per l’utente, bensì anche per il designer, giacché è un modo di intendere l’oggetto, che condiziona i criteri logici del processo di design.
È ovvio che l’uso di un oggetto non si riduce a fattori di funzionalità meccanica come il pulsante del rasoio Braun. In esso intervengono altre sollecitazioni, dalle quali derivano condizioni strettamente psicologiche, fino alle esigenze di carattere estetico. Inoltre, la soddisfazione della maggior parte di queste sollecitazioni non si limita ad un meccanismo razionale asettico, mediante il quale l’esperienza si conclude nel momento in cui si è soddisfatta una necessità.
Al contrario, la ricerca e la scoperta delle possibilità d’uso dell’artefatto costituiscono altre, nuove forme d’uso. Questo modo di comprendere l’oggetto è, in realtà, la fruizione totale di esso.
A questo proposito, dobbiamo riferirci ad una nota asserzione di Susan Sontag: Quel che ora importa è recuperare i nostri sensi. Dobbiamo imparare a vedere di più, a udire di più, a sentire di più… In luogo di un’ermeneutica, abbiamo bisogno di un sensismo dell’arte. («Contro la interpretazione»). E in una recente intervista Roland Barthes manifestava un atteggiamento analogo, espresso in termini praticamente letterali.
Parallelamente, bisogna stabilire un modo di conoscere e analizzare i prodotti del design, che sia diretto a scoprire quelle caratteristiche, quegli elementi e relazioni che rendono questi prodotti «sperimentabili»; ma che, inoltre, porti nello stesso processo di analisi nuove esperienze e un incentivo di sensibilizzazione nei confronti dell’artefatto. Vale a dire, che non sia un processo di interpretazione, bensì un processo di accentuazione degli aspetti sensibili del momento fruitivo. Questa analisi deve basarsi, pertanto, sulla percezione dell’artefatto, cioè sul come vedere e come comprendere un determinato prodotto per renderlo massimamente «fruibile ».
Prescindendo dalle considerazioni teoriche che possono sostenere questo criterio, desidero sottolinearne la necessità da un punto di vista pratico. In questi ultimi tempi abbondano gli studi teorici sul design, sia sotto forma di trattati apparentemente sistematici, come di agili conversazioni e simposi più o meno turistici e divulgativi. I tentativi di ricerca ci sembrano fondamentali, soprattutto in un momento come quello presente nel quale tutti abbiamo coscienza che il design deve rifondare tutto il suo campo di attuazione di fronte ai mutamenti tecnici e sociali che stanno trasformando il nostro mondo.
Ma molto spesso questa ricerca si rifugia in campi eccessivamente astratti che finiscono per svincolarsi completamente dai reali e scottanti problemi di chi deve progettare e di chi deve usare e fruire un prodotto di design. Non è esagerato affermare che si è già prodotta una profonda frattura fra gli abituali partecipanti ai Congressi e coloro che continuano a progettare nei loro studi professionali. Di questo passo, molto presto vedremo apparire una nuova specializzazione universitaria, le cui conoscenze e argomentazioni si applicheranno esclusivamente alla manipolazione di astratti concetti sul design.
D’altra parte, gli operatori professionali continueranno ad affrontare i loro concreti problemi senza alcun rapporto comunicativo con quelle ricerche teoriche: alcuni, quindi, con un certo escapismo reazionario e altri in termini di mera pratica, senza alcuna base di ricerca. Nel campo degli studi metodologici questo problema è già emerso chiaramente: da un lato, la maggior parte delle proposte ha trovato scarsa applicazione e, dall’altro, i problemi imposti dalla realtà dei processi progettuali non sono stati affrontati. Ma nel campo delle analisi formali esso appare ancor più evidente.
La semiologia in pratica non ha fornito alcuno strumento efficace al designer, né ha costituito un metodo per l’uso e la fruizione di un artefatto. La ragione di questa inefficienza deriva dal disconoscimento di ciò che realmente è un artefatto e dall’intento di applicare ad esso alcuni sistemi precostituiti, e spesso mutuati da altre discipline, principalmente dalla linguistica. La scoperta della struttura di un oggetto può venire solo da ciò che l’oggetto stesso suggerisce, cioè da una serie di descrizioni empiriche.
Solo così possiamo riunire in un medesimo campo di ricerca la teoria e la pratica professionale.
Partendo, dunque, da tre considerazioni, abbiamo stabilito che l’analisi dell’artefatto deve tendere a renderlo sperimentabile; che non deve essere interpretativa, bensì sensoriale; che deve basarsi su descrizioni empiriche. Riassumendo, il modello dell’analisi deve essere contrassegnato dai temi che lo stesso artefatto impone nel processo della sua percezione.
3. Percezione
Non ci addentriamo nel complesso campo della percezione perché non è il nostro campo specifico e perché desidero intenzionalmente limitare queste note al punto di vista concreto e pratico dei problemi del design. Così, per noialtri, un processo di percezione incomincia col prestare attenzione a un artefatto; vale a dire, guardandolo nel modo più diretto e immediato e memorizzandolo. La memoria è, senza dubbio, indice di una prima comprensione.
Si deve riconoscere che, come afferma R. Arnheim, la semplice presa di contatto con i capolavori non può bastare. Troppe persone visitano i musei e raccolgono libri d’arte senza con ciò ottenere un accesso all’arte. È evidente che nella nostra cultura stiamo perdendo il dono di comprendere le cose valendoci di ciò che i sensi ci dicono di loro. Ma si deve accettare questo fatto e sostituire completamente ai sensi le esplicazioni interpretative, o possiamo guidare i sensi ad una rivitalizzazione?
Questi interrogativi trovano, per lo meno, una chiara risposta in campo pedagogico. Educare la memoria visiva, per esempio, è una buona via per intendere direttamente un oggetto. Nell’insegnamento del disegno, gli esercizi di memoria visiva possono essere d’una enorme efficacia. Un secondo passo possono essere le descrizioni empiriche riferite sempre al processo di percezione. Stabilire elementi e relazioni di un artefatto dal punto di vista di chi percepisce, anche senza giungere a formulare una struttura, può fornire un catalogo esaustivo sul quale fondare un’ulteriore conoscenza più completa.
Alcune delle analisi semiologiche possono essere utilizzate come descrizioni empiriche se si eliminano i riferimenti a un sistema sovrapposto, soprattutto, al sistema linguistico. Presumiamo che questa riconsiderazione contribuirà a dimostrare che il modello linguistico può perfino ostacolare la visione diretta dell’artefatto e che il miglior apporto delle analisi di Bonta o di Brandi, per esempio, si riscontra nelle osservazioni e nelle descrizioni empiriche dalle quali è assente ogni intento di formulare un sistema.
Parallelamente possiamo dimostrare che molte descrizioni formulate prima della introduzione della semiologia, potranno trasformarsi nei suoi metodi di lettura, senza, con ciò, introdurre alcuna maggiore comprensione né tampoco scoprire strutture più adeguate alla realtà dell’artefatto. Questo si potrà constatare in alcune descrizioni ormai classiche di Argan, di Wittkower e perfino nell’analisi degli «itinerari» di Vieira de Almeida.
Ma, come affermarono già i gestaltisti, la visione non è una registrazione meccanica di elementi, bensì la ricezione di patterns significativi. Il terzo passo è, pertanto, la conoscenza della realtà totale dell’artefatto, la constatazione di alcune relazioni strutturate. Questa conoscenza è stata sempre basata su processi di analogia, che, quantunque abbiano fornito punti di vista interessanti, si dimostrano assolutamente insufficienti. Una via è stata il riferimento a modelli stilistici stabiliti accademicamente e un’altra la utilizzazione di modelli che provengono da altre discipline o l’intento di adeguarsi a sistemi precostituiti.
La descrizione e la conoscenza dell’architettura con riferimento a modelli stilistici sono state la base di una determinata formazione accademica. Un edificio era buono o cattivo a seconda che si adattasse con maggiore o minore esattezza ad uno stile già perfettamente catalogato. Nelle Scuole di Architettura si richiedeva all’allievo di progettare un certo edificio nel tale stile, in modo che il metodo di design costituiva una pretesa conoscenza della storia, sottomessa ai pregiudizi accademici dello stile, ad alcuni lessici formali previsti da un rigido dogmatismo.
Gli aspetti negativi di tale atteggiamento appaiono ovvii, soprattutto adesso, dopo la lotta polemica che il Movimento Moderno ha scatenato contro gli stili. In tutti i casi, in esso si devono considerare due fattori forse ancora validi. Il primo è il vantaggio metodologico che comporta la normativa stilistica, la quale favorisce una linea di esperienze basate su ripetizioni tipologiche.
Possiamo confrontare, per esempio, due modi di operare praticamente contemporanei, come quelli dell’Art Nouveau e della Sezession i quali, fra le altre cose, si differenziano per la maggiore normalizzazione stilistica di quest’ultima scuola. Sicuramente la tipizzazione di elementi che la Sezession comportò fu una delle cause della sua straordinaria divulgazione e, alla lunga, della sua maggiore influenza culturale, nel senso che promosse alcuni sbocchi verso il Movimento Moderno. Il secondo concerne ciò che potremmo definire la sensibilizzazione nei confronti della forma.
Quando un architetto, un critico o un semplice utente fedele alla tradizione stilistica comprende profondamente l’ordine dorico come una struttura basata sugli undici moduli della colonna, ha acquisito l’abitudine di rispondere a qualsiasi cambiamento di proporzioni e si sente particolarmente sensibile a questo settore della sua capacità percettiva. In fondo, l’educazione stilistica ha questo aspetto positivo: la sua relativa equivalenza ad una descrizione empirica non solo di elementi isolati, bensì delle loro relazioni.
Ma di fronte a questi fattori ancora in parte validi, il riferimento a modelli stilistici ha evidenti aspetti negativi, tutti quelli derivanti dall’apriorismo che esso comporta. Di fronte a questo apriorismo paralizzante, la stessa educazione accademica reagì con un metodo di enorme efficacia: la nota formula del «rilievo dei monumenti».
La tendenza e perfino la moda di andare a esperire (vedere, palpare, misurare, mettere in relazione) direttamente un monumento classico ha dato nella storia alcuni risultati rivoluzionari immediati. L’architetto che aveva una aprioristica formazione stilistica si trovava di fronte al Partenone, alle Terme di Caracalla, al Pantheon, o, passando ad altri periodi e ad altri metodi, al Teatro Olimpico di Vicenza o alle facciate albertiane e constatava che i suoi modelli accademici non coincidevano con la realtà che esperiva, dalla quale, invece, poteva dedurre altre strutture più in armonia con quel che era l’edificio che con ciò che l’edificio doveva essere.
Oggi possiamo riabilitare l’antico metododi «rilevare i monumenti», soprattutto se abbiamo eliminato l’alienazione accademica basata esclusivamente sulla normativa stilistica e siamo capaci di aggiungere considerazioni fisiche molto più ampie, superando la limitazione planimetrica e spaziale.
Si deve riconoscere che questa limitazione si è dimostrata difficile da superare nelle descrizioni e nei «rilievi» di origine più o meno semiologica. Per esempio, le analisi sintattiche di Eisenman della Casa del Fascio tentano di dedurre una struttura profonda, approssimativamente nel senso chomskyano, basandosi esclusivamente sul piano e sullo spazio, ma trascurando altri livelli percettivi come la luce, il rumore, l’odore, il valore delle indicazioni direzionali e, in generale, tutto ciò che implica una determinata modulazione psicologica.
Questo non fa altro che dimostrare un fatto che subito discuteremo: la negligenza dei problemi psicologici e della totalità del fenomeno della percezione nell’ambito delle analisi semiologiche.
Fin qui abbiamo trattato la conoscenza della realtà strutturale dell’artefatto facendo riferimento a modelli stilistici e abbiamo visto che l’attualizzazione della vecchia formula di «rilevare i monumenti» può superare i suoi apriorismi accademici. Come abbiamo detto, un’altra via battuta è l’utilizzazione di modelli provenienti da altre discipline o il tentativo di adeguarsi a sistemi precostituiti. I metodi semiologico-strutturalistici sono il miglior esempio di questa via.
Così come nel parlare dei modelli stilistici, anche qui possiamo rinvenire diversi risultati positivi, ma riteniamo che il bilancio complessivo sia decisamente deficitario. Adeguare il disegno ad una struttura di origine linguistica più meno stiracchiata e perfino dissimulata obbliga a grandi forzature della realtà e, conseguentemente, spiega pochissimi fenomeni.
Invece, la ricezione delle strutture significative d’un artefatto dovrà basarsi su un’analisi che non pregiudichi altri modelli estranei né adotti un metodo di classificazione precostituito.
Lo stesso processo di fruizione dell’artefatto dovrà determinare il metodo della sua descrizione e, in conseguenza, la ricezione della sua struttura. Vale a dire che la conoscenza procede lungo la linea della sua fruizione. Questo suggerisce, in sintesi, che la descrizione va riferita a quei fattori e relazioni che fondano la nostra percezione e fruizione (cioè quelli che ci sensibilizzano), e che la stessa descrizione accresce la nostra sensibilità (quel che ci eccita, cioè).
Questi due temi meritano alcuni chiarimenti. Nel primo bisogna tener conto di certe caratteristiche della percezione. Senza addentrarci in questo argomento che, d’altra parte, non possiamo affrontare per una evidente mancanza di specializzazione, è necessario qui chiarire che l’artefatto viene percepito in modo condizionato dalle situazioni sociali e culturali di colui che percepisce.
Prima abbiamo escluso dalla considerazione dell’artefatto quei fattori storico-filologici che consideravamo propri del suo processo di design, ma non della sua comprensione, uso e fruizione. Ma ora vediamo che questi fattori intervengono nel campo specifico del percettore, non riferiti alla storia dell’artefatto, bensì alla storia dell’individuo che percepisce. La situazione sociale e culturale del percettore, la sua memoria, le sue relazioni, tutto il contesto che lo involve, la sua stessa ideologia determinano modi diversi di percepire e comprendere l’artefatto e di definire le sue strutture significative. Così, le strutture rilevate saranno tante quante le diverse configurazioni dei gruppi umani che le percepiscono e le usano.
E questa diversificazione spiega la grande varietà di modi di intendere un oggetto disegnato e la impossibilità di stabilire norme oggettive di valutazione. Cioè un artefatto sarà migliore o peggiore e provocherà reazioni diverse a seconda della persona che lo usa e ne fruisce. Allo stesso modo, l’insieme delle persone che disegnano un artefatto porterà all’una o all’altra definizione formale in funzione non di criteri oggettivi e immutabili bensì dell’intenzione di rivolgersi a un pubblico concreto e di provocare in esso determinate reazioni.
Il secondo tema ci introduce alla quarta fase di questo processo: vedere e memorizzare, descrivere empiricamente, scoprire una struttura significativa e, ancora, stimolare la nostra sensibilità. Come abbiamo detto prima, la ricerca e la scoperta delle possibilità d’uso dell’artefatto costituiscono altre nuove forme d’uso, ma sono anche uno strumento di sensibilizzazione.
Perciò quest’ultimo passo può costituire la base di alcune proposte pedagogiche, non solo per il possibile utente, bensì principalmente per lo stesso designer. Crediamo che in alcune scuole siano stati saggiati metodi e strumenti di descrizione volti a sottolineare l’atto dell’esperienza stessa e a porre le basi di una sensibilizzazione, ma quasi mai in modo ordinato e intenzionato.
4. Critica
Dopo aver stabilito e, nei limiti del possibile, promosso la percezione dell’artefatto allo scopo di conseguire la sua fruizione, possiamo parlare delle altre attività: spiegare scientificamente quali sono i meccanismi che fanno sì che un determinato artefatto permetta determinate forme di fruizione. Questa attività può essere assimilata a quella che tradizionalmente viene chiamata critica del design.
Nel parlare della percezione si è detto che la descrizione dell’artefatto non potrà essere fatta secondo modelli stilistici né mediante modelli che provengono da altre discipline, perché questi due metodi implicano la preconcezione di un sistema che va al di là della osservazione della realtà dell’artefatto. La descrizione dovrà rivelare, invece, la sua autentica struttura formale. Ora, nel tentativo di spiegare i meccanismi della fruizione appaiono altresì discutibili questi due stessi metodi: storico e strutturale.
Secondo il primo, fruiamo di un oggetto esclusivamente per il suo adeguarsi ad alcune norme stilistiche e tipologiche: sottomessi, cioè, ad alcuni fattori e relazioni privilegiati dalla storia. Appare evidente che questo atteggiamento, che secondo noi ha efficacia in una determinata fase del processo di design, non vale a spiegare l’uso dell’oggetto, giacché stabilisce un criterio tipicamente conservatore e reazionario.
E, inoltre, non include alcuna spiegazione dei processi ovvero la spiegazione che ne dà è eccessivamente rudimentale. Il secondo, invece, tenta di stabilire un sistema che spieghi scientificamente il modo in cui si svolge la lettura dell’artefatto. Ma la semiologia di tipo strutturalista sulla linea Saussure-Barthes non sembra aver fornito sotto questo aspetto risultati positivi.
La sua provenienza linguistica la induce a mantenere alcune contraddizioni che sembrano insuperabili. Per esempio, il tema dell’articolazione non ha alcun senso reale nel disegno e il concetto di significato e significante si può adottare solo in modo superficialmente metaforico. Sembra, invece, che questi problemi trovino una migliore focalizzazione nella linea morrisiana, secondo la quale il segno è uno stimolo che produce nell’individuo una disposizione a rispondere.
Questa linea, che si pone in relazione con alcuni presupposti comportamentistici, appare più valida perché ci porta al problema reale che qui abbiamo impostato: stabilire un sistema fondato sulle relazioni fra l’artefatto e chi lo percepisce, in base alla conoscenza delle leggi del processo della percezione e all’intero contenuto psicologico del percettore. Il sistema che spiega scientificamente i meccanismi che fanno sì che un determinato artefatto permetta alcune forme di fruizione e stimoli determinate condotte deve basarsi, pertanto, sull’intero campo della psicologia del disegno.
Per i designer, che progettano e non pretendono affrontare remoti, vecchi e inutili apparati teorici, la critica efficace è quella che si appoggia alla esplicazione sistematica delle reazioni dell’utente. Disgraziatamente questo campo è stato molto meno studiato di quello, per esempio, della semiologia di tipo strutturale o delle metodologie induttive, la cui applicazione si è dimostrata tanto carente. Di recente, tuttavia, il comportamentismo come anche la psicologia empirica più tradizionale hanno dedicato molta attenzione a questi problemi e possiamo già impostare uno schema di come dovranno strutturarsi i risultati perché risultino operativi nel campo del design.
Il comportamento umano è frutto in gran parte di un processo di apprendimento e solo in minima parte di condizionamenti fisiologici ineluttabili. Come primo passo bisogna conoscere esattamente i meccanismi di questo settore minore, in base al quale si può stabilire una sicura corrispondenza fra stimoli e comportamenti. Nell’altro settore, di gran lunga maggiore, le risposte agli stimoli varieranno in relazione al modo in cui è stato diretto l’apprendimento per le condizioni sociali e culturali dalle quali è stato coinvolto l’individuo.
Alcune di esse, ciò nonostante, possono essere considerate sufficientemente costanti attraverso la storia o nella nostra cultura concreta, tanto da far ritenere che vi sono risposte a determinati stimoli universalmente valide. In questo settore si possono acquisire senz’altro molte esperienze della Gestalt che, benché nel complesso non considerino il contenuto sociale e culturale del processo di apprendimento del percettore, possono essere mantenute nel caso in cui questi contenuti si dimostrino sufficientemente costanti.
Se a questo gruppo aggiungiamo quelle relazioni acquisite socialmente, nel controllo delle quali è evidente che il design non interviene in alcun modo, avremo un campo relativamente ampio di corrispondenze che per la nostra disciplina verranno ad essere le più generali. Solo in base a questa catalogazione (molto più estesa delle limitazioni del comportamentismo, ma molto più ridotta di quanto pretende essere, per esempio, il significato sintattico di P. Eisenman o alcuni tentativi di trasferire al disegno il concetto di struttura profonda) si potrà formulare una teoria dei segni nella quale la coerenza linguistica si oggettivi indipendentemente dalla sociologia.
Infine c’è tutta una serie di stimoli e risposte che agiscono condizionati ad una variata e molteplice situazione sociale e culturale dell’individuo. La maggior parte del processo di percezione di un artefatto e la sua fruizione concernono questo settore ed è in esso che abbiamo maggior bisogno di studi sistematici.
Questi studi dovranno tendere a commisurare i dati per conoscere come a tale stimolo coi-risponda tale reazione con tali condizionamenti sociali e culturali. Con questa catalogazione di stimoli, reazioni e condizionamenti si potrà allora introdurre una critica ideologica che si basi, pertanto, sullo specifico contenuto di questi condizionamenti sociali e culturali.
La possibilità di stabilire una critica ideologica basata sulle istituzioni sociali e culturali che condizionano le risposte, invalida un atteggiamento molto diffuso in questi ultimi anni che tenta di assorbire tutto un campo della psicologia del disegno. Ci riferiamo ad alcune proposte teoriche e pratiche di Venturi, Rapoport ed altri, basate su un indiscriminato rispetto per i desideri dell’utente.
Queste proposte sono state enunciate in modo molto efficace nel senso di superare il «dispotismo illuminato» dell’architetto o quello che possiamo chiamare l’«architettocentrismo» di alcuni temi che ci appaiono ora molto più generali. Ma in realtà sono impostate senza tener conto se questi desideri rispondono a condizioni antropologiche ineluttabili o sufficientemente costanti ovvero se, al contrario, vengono provocate da pressioni esterne che modificano questi desideri in funzione di una determinata ideologia.
Sostenere un’architettura, per esempio, che favorisca tutte le tecniche del consumismo non è servire i desideri evidenti del consumatore, bensì contribuire a confermare in lui l’ideologia del proprio consumismo e operare in favore di una determinata situazione sociale ed economica. E sintomatico, d’altra parte, che l’assenza di una critica ideologica coincida quasi sempre con la sottomissione ad una ideologia assolutamente reazionaria e con un atteggiamento contrario al design sperimentale.
5. Metodo

Abbiamo visto che un artefatto viene conosciuto, usato e fruito come tale, indipendentemente dal suo processo di design: che questa conoscenza si basa su operazioni percettive; che il sistema capace di spiegare questa fruizione è fondato sulla psicologia e, concretamente, sulle relazioni fra stimolo e comportamento: e che questo sistema permette di istituire una critica ideologica dell’artefatto.
Riteniamo che tutto ciò si accordi con la realtà del disegno e partendo non da una speculazione teorica, bensì da quei problemi che direttamente ineriscono il progetto e l’uso dell’artefatto.
È possibile che di fronte a questi temi scompaia quella dicotomia di cui abbiamo parlato tra designers impegnati a discutere nei Congressi senza troppo contatto con la realtà e designers che si limitano a realizzare con una carente base di ricerca e senza alcun fondamento teorico. Questo aspetto pratico è stato sottolineato nel corso della esposizione. Ma ora possiamo concludere commentando la utilità concreta dell’ultima fase, cioè dell’impiego della critica ideologica.
Una delle finalità della critica è la possibilità di utilizzare validamente i suoi giudizi nello stesso processo creativo. Giacché il sistema critico stabilito fornisce in feed-back alcuni chiarissimi elementi metodologici. Così, dopo aver analizzato l’artefatto in sé, indipendentemente dal suo processo di creazione, deduciamo alcuni criteri che possono essere applicati a questo processo o per lo meno in alcuni stadi di questo processo.
Questo metodo si strutturerà nella forma seguente:
1) Come conseguenza degli studi sul comportamento umano, conoscere le relazioni che legano gli stimoli alle risposte, tanto se queste risposte sono frutto di condizionamenti ineluttabili, quanto se vengono determinate da costanti o variabili situazioni sociali e culturali. Conoscere, pertanto, gli effetti del disegnato sul comportamento umano e tutto il sistema che lo regola.
2) Classificare i desideri e le necessità umane che vengono condizionati dalla situazione sociale e culturale, in ordine al tipo delle motivazioni.
3) Scegliere quelle motivazioni che corrispondono alla ideologia che si vuole applicare al design nel campo ristretto del designer o nella totalità del processo. Cioè prendere partito fra le diverse scelte di base ideologica.
4) Applicare queste conoscenze e queste decisioni alle determinazioni formali per influire con ciò sul comportamento dell’utente.
Questo schema dovrà costituire la base di un processo di design ideologico. Ci sono da fare, tuttavia, due osservazioni. La prima è che non si tratta propriamente di un metodo globale che abbracci tutta la fase di determinazione della forma, soprattutto perché, secondo noi, la forma non viene data esclusivamente in base ai dati che derivano da questa analisi. In realtà, pertanto, più che un metodo sarà un modo di proporzionare al meccanismo metodologico alcuni elementi di partenza che finora sono stati scarsamente considerati e che ci sembrano fondamentali se crediamo che si possa operare ideologicamente nel design.
La seconda è che la presa di posizione di fronte a differenti scelte di base ideologica presenta enormi contraddizioni nel corso del processo di design. Se la presa di posizione è coerente durante tutto il processo che, come si sa, viene fondamentalmente condizionato dalla promozione e dalla produzione, l’ideologia imposta sarà chiaramente quella delle forze decisionali della struttura sociale ed economica.
Se è esclusivamente il designer, nel suo limitato campo, a tentare di introdurre determinate decisioni ideologiche in contrasto con quelle che contrassegnano il resto del processo, la loro attuazione dovrà essere mediata da quella di tutte le altre fasi. In tal caso l’introduzione della sua ideologia dovrà essere conseguita mediante una strategia nella quale interverranno altri tipi di metodi e di strumenti. Non è questo il momento di insistere su questo tema.
Desidero sottolineare che si deve tener presente che l’azione ideologica del designer è sempre un fattore limitatissimo nella totalità del processo. Non possiamo farci illusioni. Ma, nonostante tutto, una funzione fondamentale del designer è di accentuare questa carica ideologica: ottenere che l’artefatto stimoli specificamente ad essere percepito e fruito sotto determinati aspetti, in modo da incidere su determinati comportamenti. Solo così, benché in campi di ridotta efficacia, il design può contribuire ad una trasformazione del mondo.
tratto dal numero 24