Segni e simboli del tempietto di Bramante

RENATO DE FUSCO e MARIA LUISA SCALVINI
Fra le opere di Bramante S. Pietro in Montorio è quella che maggiormente si presta ad interessi di natura iconologica e semiotica; anzi, proprio la compresenza e al limite l’intrecciarsi in essa di valenze disponibili per interpretazioni appartenenti e all’una e all’altra sfera, ci consentiranno in questa sede sia di approfondire un tipo di lettura, quella semiologica, ancora tutta da esperire, sia di contribuire ad una più esatta distinzione fra le due discipline.

In prima approssimazione, e per motivi del tutto operativi, diciamo che qui intenderemo per simbolo «una cosa che sta per un’altra», ossia tutto ciò che costituisce elemento di rimando referenziale; mentre per segno intendiamo — come già abbiamo avuto occasione di definire altrove — una unione di significato e significante da noi identificata con il binomio spazio interno-esterno.
Cogliamo l’occasione per precisare che, nell’associare questi due binomi, non intendiamo stabilire una corrispondenza di termine a termine, bensì una equivalenza tra i due binomi stessi nella loro valenza totale.
In altri termini, se è vero che lo spazio esterno svolge il ruolo del significante e quello interno il ruolo del significato, non si verifica tuttavia una mera identificazione, a due a due, fra i quattro termini così individuati, né una netta separazione fra le due entità spaziali considerate; infatti, data la natura omogenea di queste, non è possibile — così come invece avviene in linguistica per l’immagine acustica e il concetto corrispondente — ritrovare l’esatto punto di passaggio dallo spazio interno a quello esterno, dal significato al significante.
In ogni caso, e riducendo al minimo l’impiego di nozioni teoriche, questo studio si propone di analizzare il significato del tempietto bramantesco non in una specialistica visuale semiologica, bensì in quella che consideriamo una particolare angolazione storica. Infatti, è proprio la prospettiva storica, coniugata con l’indagine segnica, che più avanti specificheremo, che ci consente di affrancarci da un generico simbolismo, appartenente a tutta la cultura rinascimentale, per cogliere le valenze significative contrassegnanti l’individualità — appunto storica — dell’opera in esame.
Alla sfera dei simboli appartengono ad esempio, nel caso di S. Pietro in Montorio, la centralità della pianta, la presenza della cupola e della cripta, l’uso dell’ordine dorico, la ricorrenza di particolari rapporti numerici, le figurazioni delle metope (queste ultime in una maniera più direttamente emblematica), etc. E tutti questi fattori, espressivi della cultura iconologica del tempo, con i loro molteplici e ben noti rinvii referenziali, costituiscono — come d’altro canto gli stilemi e le tipologie — un insieme di dati «a priori» rispetto alla conformazione della specifica opera di cui ci occupiamo.
Nella misura in cui essi si traducono in fattori formativi del tempietto, perdono la loro generica connotazione simbolica per acquisirne una specifica, concorrendo così in misura determinante alla costituzione del significato globale dell’opera.
Pertanto, sotto questo aspetto, i simboli vengono inglobati nei segni.
Il compito dell’iconologia, almeno sinora, sembra essere stato quello di individuare in ogni opera la presenza di fattori appartenenti a questa sfera di simbolicità generica. E poiché obiettivo della storia è notoriamente, in prima istanza, quello di definire la individualità di un monumento, la storia, per cogliere tali specifiche valenze simboliche o meglio significative, necessita di un’indagine come quella semiotica, volta a riconoscere un processo di significazione intorno alla struttura segnica dell’opera.
Dal canto suo, la conoscenza storica contribuisce evidentemente alla determinazione del significato: nel caso di S. Pietro in Montorio, ad esempio, per cogliere appieno il senso globale dell’opera è indispensabile non solo una generale informazione storica, ma anche la specifica notizia filologica inerente al programma edilizio che voleva celebrare il ricordo di S. Pietro nell’esatto punto del suo martirio.
Passando alla lettura segnica del tempietto sul Gianicolo — che consideriamo riferita, almeno per gli elementi di pianta, all’originario progetto illustrato dal Serlio — osserviamo che la dicotomia esterno-interno (termini per noi, come si è detto, corrispondenti alle componenti del segno) si presenta come una ricorrente alternanza. Infatti, ad eccezione della cripta — spazio senza esterno — tutti gli elementi concentrici (il sacello, il peribolo, l’anello a cielo scoperto, il portico perimetrale con le cappellette absidate ricavate ai quattro angoli del quadrato circoscritto) costituiscono altrettante strutture monosegniche, in cui la relazione di esternità-internità giuoca un complesso ruolo sintagmatico.
Esamineremo partitamente ciascuno di questi spazi monosegnici e le loro interrelazioni, in rapporto al binomio esterno-interno; precisando tuttavia che l’una e l’altra condizione (come è stato osservato da Cesare Brandi) non vanno riferite alla entità fenomenica e quindi tettonica, bensì soprattutto alla valenza architettonica, espressiva di una intenzionalità che si traduce talora in un’immagine virtuale piuttosto che in una realtà materiale. Peraltro, data la nitidezza dell’immagine planimetrica di S. Pietro in Montorio, il binomio esterno-interno risulta qui, in linea generale, riferibile sia alla conformazione tettonica che a quella architettonica.
Corre l’obbligo anzitutto di dare un cenno sulla cripta, spazio evidentemente «segnato» sotto il profilo semantico. La carica di significazione che riscontriamo nella cripta è decodificabile da varie angolazioni. Dal punto di vista storico, essa contiene, rispetto all’intero tempietto, il nucleo celebrativo principale, sintesi di un «luogo» e di un concetto: il punto in cui fu infissa la croce di S. Pietro, e l’idea di cripta come tomba, associata a quella di martirio.
Il tema della morte si ritrova anche espresso in termini di iconologia, poiché infatti la cripta denota la sfera degli inferi, in asse ascensionale rispetto alla sfera della vita, rappresentata dal sacello, e alla sfera celeste simboleggiata dalla cupola. Queste diverse interpretazioni semantiche confermano la nostra visuale semiotica di coincidenza fra internità e significato, poiché anzi il «segno» della cripta è caratterizzato da un significante che presenta la sola faccia interna.
Ma veniamo alla dialettica degli anelli concentrici, ognuno dei quali segna il passaggio da un interno ad un esterno e viceversa, secondo un sistema di mutue corrispondenze, condizionato dall’impianto radiale, fattore anch’esso conformativo e semantico.
A parte la cripta, il sacello — lo spazio più fortemente segnato e l’unico a pianta circolare e non anulare, nonché l’unico a possedere una internità assoluta e non relativa — va analizzato prima isolatamente e poi in relazione al peribolo. Dalla lettura morfologica, risulta che il sacello è formato da un cilindro concluso da una cupola; le specificazioni architettoniche e semiotiche di questo organismo sono date dalla diversa articolazione delle due facce del suo involucro.
La faccia interna presenta quattro nicchie, mentre quella esterna ne presenta otto; analogamente, le paraste interne sono otto, e sono disposte secondo una sorta di travata ritmica, mentre quelle esterne, disposte ad interassi regolari in corrispondenza delle colonne del peribolo, sono sedici. Non ci soffermeremo sulla simbologia di questi numeri, che riteniamo nota.
Vogliamo qui solo sottolineare le differenze tra le due facce dell’involucro del sacello, denotanti ciascuna una condizione di internità e rispettivamente di esternità. La prima presenta per così dire una autonomia conformativa coincidente col significato (l’interno del sacello) che essa involucra, e con la logica propria delle sue modulazioni spaziali; la seconda viceversa partecipa della catena sintagmatica costituita dagli spazi anulari concentrici del peribolo, del portico circolare esterno, e dell’anello scoperto interposto fra questi.
Altrettanto significativa è l’articolazione verticale delle due facce dell’involucro del sacello. Entrambe presentano un doppio ordine; il primo con paraste doriche, il secondo con elementi verticali semplificati, privi di capitello. Il fattore di maggiore diversificazione fra esterno ed interno — oltre al numero ed alla posizione delle paraste, di cui già si è detto — sta nella diversa altezza della quota d’imposta della trabeazione. Questa, internamente collocata più in alto, segna l’imposta del tamburo e risulta proporzionata, grazie anche ai piedistalli che reggono le lesene, alla symmetria dell’impianto interno.
All’esterno viceversa la trabeazione sulla parete del sacello ha la stessa quota di imposta del peribolo. Cosicché la faccia interna dell’involucro del sacello conforma solo e sempre il significato-interno; mentre quella esterna, che in corrispondenza del tamburo configura un esterno, in corrispondenza del peribolo vale insieme come esterno rispetto al sacello, e come faccia interna dello spazio anulare del peribolo.
Così come abbiamo osservato per gli elementi di pianta, la faccia interna dell’involucro esaminato obbedisce alla sola logica conformatrice del sacello, di quell’interno che noi chiamiamo significato in quanto luogo maggiormente segnato, cavità fruibile e quindi ragion d’essere della costruzione di qualunque edificio; mentre la faccia esterna partecipa della conformazione sintagmatica dell’intera successione degli spazi anulari.
È necessario qui un cenno sulla balaustra; questa partecipa sì alla struttura del peribolo, ma al tempo stesso, con la sua proiezione sul tamburo, vale figurativamente a ridurre l’altezza di esso: accorgimento prospettico che serve a compensare le diverse quote di imposta della trabeazione sulle due facce del significante.
Cosicché, se la balaustra segna da un lato la linea di maggiore esternità del complesso sacello-peribolo, dall’altro essa, proiettandosi sul tamburo in corrispondenza dell’imposta della trabeazione interna, vale come connessione virtuale tra i due segni del sacello e del peribolo, confermando l’impossibilità di una netta distinzione tra significante e significato architettonico.
Concludendo l’analisi del sacello, osserviamo che la cupola — elemento complementare alla cripta lungo l’asse ascensionale prima individuato — presenta sia nell’intradosso che nell’estradosso delle lievi costolonature, che figurativamente equivalgono al proseguimento curvilineo delle paraste, e che seguono quindi il differente numero e la diversa disposizione di queste: si ritrova dunque anche per le due facce della cupola la stessa dicotomia fra interno ed esterno dell’involucro del sacello.
E se sull’intradosso il gioco dei risalti determina anche una figura a croce, emblematicamente completata al centro dall’immagine della colomba, sull’estradosso tale giuoco ci sembra indicare altre valenze figurative e semiotiche. Infatti, l’incurvarsi per così dire delle paraste lungo la calotta, intersecate dai ricorsi orizzontali delle lastre di copertura, determina una figura a meridiani e paralleli che evidenzia in termini di geometriche intersezioni la struttura planimetrica degli anelli concentrici e delle radiali su cui si impostano gli elementi del doppio colonnato nonché gli assi delle cappelle angolari absidate.
Il peribolo — l’elemento che ricollega il tempietto alle sue matrici tipologiche «classiche», e come tale avente uno spiccato valore iconologico — dal punto di vista segnico-spaziale marca evidentemente il punto di passaggio tra il nucleo del sacello e il più complesso giuoco dialettico di esternità-internità che contrassegna gli spazi anulari concentrici ad esso. Tuttavia, anche il peribolo ha una sua logica e spazialità interne.
Infatti, l’altezza effettiva del suo spazio interno risponde ad un autonomo criterio di proporzionamento, mentre l’ideale parete esterna costituita dall’anello di colonne prosegue in alto con la balaustra, di cui sopra abbiamo accennato la funzione. E questo divario di altezze denota proprio l’internità dello spazio anulare del peribolo; anche se la parete che lo involucra (il circolo di colonne) è discontinua ed aperta: siamo in presenza di un’internità architettonica e non tettonica.
È necessario ora operare una distinzione tra la parte realizzata e non del progetto bramantesco. Se consideriamo infatti il tempietto così com’è, esso risulta una costruzione isolata al centro di un cortile che, tranne un rapporto di mera scala dimensionale, non ha alcuna corrispondenza linguistica col monumento.
Viceversa il disegno serliano ci mostra uno schema planimetrico costituito da una catena disegni formanti un vero e proprio sistema architettonico, il cui carattere precipuo e complessivo è l’internità; siamo cioè di fronte ad un organismo tutto risolto nella sua internità architettonica, senza alcuna esternità urbanistica. E tuttavia, come già si è accennato, nell’ambito di questo sistema i vari segni sono caratterizzati da un diverso e relativo grado di internità e di esternità.
Per la lettura semiologica dei rapporti sintagmatici fra gli spazi anulari — o meglio tra il tempietto realizzato e il suo intorno — e riferendoci sempre al solo schema planimetrico serliano, partiamo dallo spazio a cielo scoperto delimitato da un lato dalle colonne del peribolo e dall’altro da quelle del portico esterno. La relativa maggiore esternità di questo spazio scoperto ci permette di considerare sia l’anello di colonne del peribolo che quello del portico come due significanti, ciascuno dei quali delimita uno spazio interno-significato: ossia quelli del peribolo e del portico stessi.
A questo punto, che consideriamo il centro della nostra trattazione, si pone l’interrogativo sulla natura nominale oppure realmente semantica della terminologia da noi adottata.
In altre parole, parlando di significanti e di significati, abbiamo dato un nome ad una serie di passaggi tra esterni ed interni, oppure abbiamo individuato una chiave che contribuisce a decodificare la significazione dell’intero organismo?
E ancora, l’ipotesi che considera il binomio esterno-interno coincidente con quello significante-significato, è così rigida da dare lo stesso risultato per qualunque edificio, o è abbastanza elastica da fornire interpretazioni diverse da un’opera all’altra, tanto da evidenziarne le caratteristiche peculiari e quindi l’intrinseco significato? Rispondiamo affermativamente ad entrambi questi interrogativi.
Quanto al secondo, ossia alla flessibilità del nostro schema, rileviamo come esso possa applicarsi utilmente anche ad un sistema architettonico assai particolare, qual è appunto quello in esame.
Osserviamo che, mentre in termini di analisi morfologica la concentricità dei vari elementi anulari (il peribolo, lo spazio a cielo scoperto, il portico circolare) fa apparire questi come una serie di «strati» esterni rispetto al nucleo centrale del sacello, l’introduzione della dicotomia semiotica esterno-interno/significante-significato porta a riconoscere per ciascuno di questi elementi un diverso ruolo rispetto al sacello.
Infatti, considerando l’asse mediano dell’anello a cielo scoperto e applicando la dicotomia suddetta, si rileva che in corrispondenza di esso avviene una inversione, dalla convessità, data dall’insieme sacello-peribolo (parte realizzata del monumento), alla concavità del portico anulare con le sue articolazioni.
Tale inversione fa sì che l’anello di colonne del peribolo circoscrive uno spazio interno ad andamento convesso, mentre l’anello di colonne del portico delimita uno spazio interno ad andamento concavo. E mentre l’insieme sacello-peribolo è circondato dall’anello a cielo scoperto che costituisce lo spazio relativamente più esterno di tutto il sistema, lo spazio interno del portico perimetrale, invece, per la già ricordata assenza di esternità che contrassegna il sistema stesso nel suo complesso, trova la propria esternità (relativa) all’interno della propria configurazione. Pertanto queste due entità sono segni concorrenti sì all’intero sistema, ma ciascuno con una propria specificità ed autonomia.
Quanto al primo dei due interrogativi suddetti, sulla natura nominalistica o realmente semantica dei termini da noi adottati, riteniamo, anticipando alcune conclusioni, che l’intero nostro scritto valga come una risposta.
Tuttavia, una fra le prove più convincenti ed immediate del reale senso semantico di tali termini può ricavarsi a nostro avviso capovolgendo, per assurdo, il rapporto fra la parte costruita e quella non realizzata del progetto bramantesco.
Infatti, se ipotizziamo che il portico anulare con le sue nicchie e cappelle absidate fosse stato costruito, e al posto del tempietto fosse stata realizzata una fontana, una vera da pozzo, o un altro elemento di minore carica semantica, avremmo chiaramente assunto tale portico, e le sue nicchie e cappelle, come la ragion d’essere della costruzione — che tipologicamente sarebbe diventata un chiostro a pianta circolare (si pensi ad esempio al cortile del palazzo di Carlo V a Granada) — e nello spazio interno di questa struttura anulare avremmo riconosciuto il significato dell’edificio stesso.
Notiamo per inciso come, generalmente, l’identificazione tipologica di un edificio — aspetto indubbiamente dotato di carica semantica — dipenda dall’organizzazione del solo spazio interno: il che conferma ulteriormente la nostra visuale di coincidenza tra significato e internità.
D’altra parte, la stessa concentricità del sistema radiale di S. Pietro in Montorio ci avverte della subordinazione dell’anello periferico rispetto a quello più centrale e connesso con il sacello; di conseguenza la relazione che lega al sacello gli spazi interni del peribolo e del portico è quella di una subordinazione diversa e per grado (connessione sintagmatica con il sacello), e per natura (convessità/concavità).
L’indagine semiotica ci consente così di individuare la struttura della significazione in S. Pietro in Montorio, precisando i nuclei spaziali in cui il significato si condensa, e le relazioni che intercorrono fra tali «poli di significato». Resta da compiere il passaggio dalla individuazione dei vari significati parziali a quella del significato globale del monumento.
Così come per il piano dei significati di natura iconologica abbiamo riscontrato nel monumento il passaggio da una sfera di simbolicità generica ad una specifica, peculiare proprio del tempietto sul Gianicolo, analogamente, per il piano dei significati di natura gestaltico-strutturale — dei quali principalmente ci stiamo occupando in questa sede — riscontriamo il passaggio da una intenzionalità stilistica ricorrente come una invariante nel linguaggio bramantesco, ad una particolare configurazione segnica. Come ha osservato Bruschi — riprendendo il concetto di «spettacolo della spazialità» attribuito da Argan all’architettura di Bramante — «mediante la forzatura prospettica, il ‘vero’ potrà ormai prolungarsi nel ‘verosimile’; lo spazio dell’architettura — lo spazio della vita dell’uomo — potrà ormai divenire una funzione scenica: uno spazio prima da guardare che da vivere».
Posto che tale caratteristica sia una invariante dello stile bramantesco, in S. Pietro in Montorio essa assume una peculiarità tale da fornirci il significato sintagmatico complessivo dell’opera, ossia il significato dei significati prima singolarmente analizzati,
Per convincersene occorre operare una semplificazione, e ridurre l’intero sistema segnico a due entità: l’una costituita dal tempietto, l’altra dal portico anulare, l’una coincidente con una spazialità convessa, l’altra con una spazialità concava; entità separate nettamente dall’anello a cielo scoperto.
Apparirà allora in tutta evidenza come il rapporto fra le due parti sia perfettamente simile allo schema teatrale, l’una essendo scena e l’altra platea. All’anello a cielo scoperto è affidato il compito di determinare la necessaria soluzione di continuità, e inversione, tra rappresentazione e contemplazione; mentre il fatto che l’intero sistema segnico, come si è detto, sia un «interno senza esterno», ribadisce l’intenzione bramantesca di risolvere realtà e rappresentazione in una struttura sintagmaticamente unitaria.
Possiamo quindi dire che il significato sintagmatico di S.Pietro in Montorio è la particolare struttura secondo cui qui si attua l’intenzionalità prospettica propria del linguaggio bramantesco; una struttura per la quale si verifica l’equivalenza dei vari punti di vista, disposti lungo un percorso anulare, e in cui la scala del tempietto, i valori chiaroscurali del peribolo e delle articolazioni parietali, tutto è in funzione di visione ottica, o «da lontano», per dirla con i teorici della pura visibilità.
Tuttavia non siamo in presenza, come è in S. Maria di S. Satiro, di uno «spettacolo di spazialità» realizzato con mezzi pittorici e percepibile da un punto di obbligato, bensì di uno «spettacolo» realmente architettonico, essendo il nucleo centrale percepibile da ogni lato» ed anche secondo una successione dinamica e temporale.
La teatralità di questo sistema, già riconosciuta da altri in termini di analogia morfologica, grazie alla dicotomia semiotica esterno-interno suggerisce una inedita lettura. Infatti, a nostro avviso non è la similitudine con il sistema teatrale a caratterizzare semanticamente il sistema esaminato, ma è piuttosto la struttura semiotica del sistema a farci pensare al teatro: l’analogia, cioè viene a confermare la quiddità dell’opera, il suo intrinseco significato, che è quello di un sistema «tutto interno», racchiudente tanto la propria realtà quanto la propria rappresentazione.
Abbiamo in precedenza accennato ad una significazione di natura iconologica e ad un’altra, intrinseca, di tipo semiotico, ed affermato di voler coniugare la prospettiva semiologica con quella storica, anche per cogliere l’apporto che la semiologia dà alla storia, e in definitiva mostrarne l’utilità metodologica e la diversità rispetto al metodo storico empirico.
Quanto alle nozioni relative all’iconologia, le abbiamo date per note esistendo una vasta letteratura sull’argomento, e in particolare sull’architettura rinascimentale. Abbiamo invece condotto la nostra indagine sul tempietto bramantesco prevalentemente da un punto di vista semiotico, utilizzando però soprattutto la sola dicotomia relativa alle componenti del segno. Per ricondurre l’intero discorso in un ambito storico è ora necessario introdurre esplicitamente un’altra dicotomia saussuriana, quella tra gli assi sintagmatico ed associativo.
Com’è noto, l’uno si riferisce ai rapporti realmente presenti in un contesto linguistico (nel nostro caso, nella conformazione di una fabbrica), l’altro si basa su relazioni di tipo mentale evocate dalle forme reali presenti in tale fabbrica.
L’analisi sintagmatica, per essere condotta direttamente sulla conformazione dell’opera architettonica, è volta a coglierne il significato intrinseco; la natura di questo significato è di tipo gestaltico, conformativo, fa capo ai principi della pura visibilità, riguarda i fenomeni ottico-percettivi con tutte le loro implicazioni conoscitive indicate appunto dalla teoria purovisibilista, dalla psicologia dell’Einfühlung, della Gestalt, fino a quella transazionale. Possediamo quindi tutto un bagaglio di strumenti suggeriti dalla teoria dell’arte e da altre scienze per poter analizzare e cogliere il senso di una struttura architettonica attenendoci in prima istanza ai suoi valori fenomenici e spaziali.
L’analisi associativa invece, per essere fondata su rinvii referenziali, mira a porre l’oggetto architettonico in relazione con una serie di parametri esterni: un certo modo di intendere lo stile, le tipologie, gli altri edifici con analoga destinazione d’uso, e, di particolare interesse per il nostro discorso, tutti quei motivi simbolici che presiedono all’iconologia. Si tratta quindi di cogliere, descrivere e classificare i valori connotativi (esterni) di una fabbrica o di un complesso architettonico, registrandone anche le eventuali mutazioni di senso verificatesi dalla costruzione sino ad oggi.
Qui ogni illazione ideologica, politica, sociologica, etc., trova il proprio terreno di elezione. Come si vede, l’analisi sintagmatica opera sulla specificità, quella associativa sulle relazioni di analogia/diversificazione, somiglianza/dissomiglianza; peraltro i due assi sono strettamente intrecciati e il processo di significazione si attua contemporaneamente lungo entrambi, anche se per semplificazione didascalica li abbiamo provvisoriamente considerati distinti.
Da quanto precede, si rileva che l’indagine semiologica, proprio perché prevede la coesistenza dell’asse sintagmatico e di quello associativo, mentre considera unitariamente significanti e significati (ossia non smentisce l’acquisita nozione estetica dell’unità di forma e contenuto), ammette tuttavia dei rimandi mentali, appunto associativi, che recuperano valori semantici esterni alla struttura dell’oggetto indagato.
Quindi, quanto al significato in generale, possiamo dire che questo è riscontrabile sia dentro che fuori l’architettura, sia lungo l’asse sintagmatico che lungo quello associativo, entrambi previsti dalla semiologia che in tal senso include l’iconologia come una delle direzioni in cui può essere esperita l’indagine associativa.
Queste ultime considerazioni ci portano nel pieno dei problemi metodologici riguardanti la storia, perché una dialettica analoga a quella descritta per i due assi peculiari alla semiologia, si ritrova in tutta una serie di temi storiografici: individualità e generalità, opera e modello, stile dell’opera e stile dell’artista, stile individuale e stile epocale, deroga e norma.
In particolare, nella prospettiva semiologica le dicotomie storiografiche sopra individuate trovano una precisa collocazione in termini metodologici, perché possiamo considerare l’asse sintagmatico corrispondente all’individualità, all’opera, allo stile personale, alla deroga (atto di parole), e quello associativo corrispondente alla generalità, al modello e alle tipologie, allo stile epocale, alla norma del codice (ossia, in senso lato, alla langue).
Nel caso del tempietto bramantesco l’analisi sintagmatica ci dà conto di tutti i fattori di conformazione e di significazione che abbiamo riscontrato — sistema architettonico a prevalente spazialità interna, dialettica tra convessità e concavità, rapporto fra realtà e rappresentazione —, che sono peculiari dell’opera e non rintracciabili altrove, che ne costituiscono cioè la irripetibilità come «événement» (per dirla nei termini di Paul Lacombe); mentre l’analisi associativa, iconologica, tipologica, stilistico-epocale, ci dà conto di tutti i fattori che riconnettono l’opera alle sue matrici culturali ed alla sua influenza futura, qualificandola come «institution».
Come si vede, la prospettiva semiologica conferisce ai problemi storiografici un tangibile apporto metodologico, contribuendo a risolvere questioni altrimenti rimaste nel vago, nell’intuitivo, nell’ideologico.
Si pensi ad esempio alla filologia che, collegata all’indagine sintagmatica, perde il suo carattere strumentale per assumerne uno critico, in quanto finalizzato alla significazione. Viceversa, una storia angolata ideologicamente trova nell’asse associativo la sua sede più pertinente; e ancora, quanto alla contemporaneità della storia, ognuno vede che l’analisi sintagmatica trova la sua più logica dimensione nella sincronia, mentre quella associativa nella diacronia.
Questi sono solo alcuni spunti sul contributo della prospettiva semiologica alla storiografia; viceversa, quanto al problema della significazione, nessun dubbio che l’indagine semiotica necessiti del supporto storiografico; di una storia però non intesa empiricamente, bensì intessuta di motivi dialettici, e indagata come «soluzione» ai problemi posti dalla teoria.
tratto dal numero 19