Semiotica e architettura. Alcuni problemi teorico-applicativi

EMILIO GARRONI
Prospettive metodiche. Il modello tipologico
Chiariamo subito che le prospettive metodiche che seguiranno non hanno in alcun modo la pretesa di essere corrette da ogni punto di vista, né di essere tecnicamente eseguibili. Ammettiamo fin d’ora che esse potrebbero non essere utilmente applicabili da un punto di vista circostanziatamente e sistematicamente operativo.

Esse valgono solo come esemplificazioni di metodi operativi possibili, confortati talvolta da suggerimenti applicativi suscettibili di approfondimento, al fine di esibire concretamente considerazioni valide soprattutto ad un livello teorico. sistematica e di effettiva analisi di oggetti architettonici dati. Con questa essenziale precisazione preliminare, diciamo subito che anche l’elaborazione e l’applicazione di un modello tipologico risolve adeguatamente il malinteso teorico della continuità, a patto che le unità così determinate siano appunto unità formali e non materiali.
Perfino gli elementi «colonna», «trabeazione», ecc., se con essi si intende individuare non i «segni» o gli elementi dalla cui unione e realizzazione risulti l’oggetto architettonico nella sua globalità e concretezza, ma semplicemente gli elementi formali di uno dei possibili modelli in riferimento al quale un oggetto architettonico può essere analizzato, sono a questo patto corretti e permettono di rileggere positivamente anche i tentativi di costruire una semiologia materiale dell’architettura.
[…]Ma in ogni caso, pur con tutte le specificazioni possibili e lasciando comunque aperte le poche ulteriori indicazioni orientative testé fornite, un modello tipologico sembra nello stesso tempo troppo generico e troppo ristretto per consentire analisi sufficienti dell’oggetto o degli oggetti architettonici, quali che essi siano.
Per un verso, infatti, esso non permette di stringere abbastanza da vicino
un oggetto o un insieme ristretto di oggetti, sfuggendogli tutte quelle ulteriori determinazioni non tipologiche che pure concorrono a dare loro rilevanza; per altro verso, esso non è forse sufficientemente generalizzabile (se non, naturalmente, nella forma verbale e praticamente inutilizzabile di «modello tipologico», senza alcuna altra determinazione strutturale), essendo costruibili modelli abbastanza generali e utili applicativamente solo in riferimento a certi insiemi, non amplissimi, di oggetti. […]
In ogni caso, l’esempio del modello tipologico è troppo debole ai nostri fini, anche e soprattutto perché esso consente troppo facilmente di porre un’equivalenza tra significazione architettonica e sua riformulazione verbale, che è il presupposto su cui si sono fondati alcuni tentativi di formulazione di una semiologia architettonica, e non soltanto architettonica.
Presupposto valido, senza dubbio, sotto un certo profilo (grosso modo: esplicitazione di una componente semantica verbale, o comunque verbalizzabile, in una semiosi non-verbale in modo dominante), e che permette correttamente di riferire il continuo architettonico ad una sua riformulazione discreta mediante equivalenti verbali, anche se non dominanti, ma che è per altro verso del tutto incapace di soddisfare esigenze analitiche più complete.
Si tratta di un tipo di approccio, che per di più rischia — se reso esclusivo, sulla base di ipotesi teoriche esplicite — di diventare semplicemente una scorciatoia, un modo di facilitare fin troppo un compito obiettivamente difficile. Invece di scegliere un esempio di metodo per equivalenti verbali, sarà quindi più opportuno tentare di cogliere quegli aspetti dell’architettura che, con terminologia senza dubbio materiale e approssimativa, sembrano esserle più specifici: aspetti che alludono più direttamente alla sua struttura effettiva, agli effettivi mezzi impiegati per realizzarla.
Lo spazio come «essenza» e come modello
Naturalmente non pensiamo all’«essenza» o alla «specificità» dell’architettura, come se fosse possibile definire l’architettura stessa in modo rigoroso (e non lo è per qualsiasi «arte» particolare); ma, certo, non vogliamo neppure negare che la questione mal posta dall’essenza, così come essa è stata formulata a livello teorico-tecnico, risponda a qualche legittima esigenza.
Tale essenza, sulla base del resto di una autorevole tradizione, è stata determinata anche di recente nello «spazio» — che costituirebbe appunto ciò che di specifico e di pertinente in modo esclusivo vi è nell’architettura. In realtà, quando parliamo di «spazio» adoperiamo una nozione equivoca, che può avere significati assai diversi secondo che noi ci poniamo da un punto di vista puramente geometrico, oppure percettivo, oppure pratico (come effettiva praticabilità), e così via.
Bruno Zevi p.e., allorché ripropose tale nozione, intese riferirsi propriamente allo «spazio interno», che è già qualcosa di più preciso per un certo verso e che conduce, per altro verso e cioè in forza della sua materialità, ad alcuni paradossi inaccettabili, che lo Zevi tuttavia accettò esplicitamente e coraggiosamente : all’esclusione cioè, dall’ambito dell’architettura, di oggetti quali il tempio greco, la piramide, il ponte, ecc… Sculture in dimensione urbanistica, si disse, e non architetture in senso stretto. […]. Fino a che punto uno spazio deve essere interno e praticabile (materialmente chiuso e agibile dall’uomo) per costituire l’essenza dell’architettura? Ma l’assunzione e la correzione di tale criterio ha, per un certo verso, messo ancora di più in evidenza le difficoltà che esso comporta.
La sostituzione, proposta da De Fusco, dello spazio interno e praticabile con la nozione di spazio «semiologico», non necessariamente interno e praticabile, aggiusta sì per un verso l’applicabilità del criterio a quegli oggetti che sembravano inaccettabilmente esclusi, ma è pur sempre un aggiustamento tra formale e materiale che, per altri versi complica la questione.
Uno spazio semiologico (lo spazio come «significato») non può non essere spazio virtuale, a nostro parere, a meno di non ricadere con terminologia diversa proprio nelle stesse difficoltà dello Zevi: virtualità che sembra essere confermata esplicitamente da talune precisazioni dello stesso De Fusco. Ma se lo spazio è davvero virtuale, non rientrerà sotto di esso anche la pittura prospettica o, in particolare, lo «schiacciato» donatellatesco?[…] Naturalmente, queste contaminazioni a noi non dispiacciono affatto, nella misura in cui esemplificano ciò che c’è di comune tra arti diverse in funzione p.e. di un modello spaziale di tipo percettivo.
Ma non sono congrue con un criterio che voglia essere specificamente architettonico. Tale conclusione, ci sembra, è perfino suggerita da De Fusco: se lo spazio semiologico viene considerato come l’essenza dell’architettura, il suo «significato», e il «significato» dell’architettura non corrisponde alla sua funzionalità (legata piuttosto allo spazio interno e praticabile) ma piuttosto alle sue valenze simboliche (è il caso della «Rotonda» palladiana, microcosmo che allude metaforicamente al macrocosmo), tale «spazio-significato» difficilmente si riuscirà a distinguere dallo «spazio-significato» di una colonna o di qualsiasi altro elemento plastico dotato di spazialità, anche se piena, e di valenza simbolica.
Di qui alla scultura e alla pittura il passo è brevissimo, se non ci inganniamo.
Ma l’errore, a nostro avviso, sta proprio nella materialità ed esclusività (il suo essere «essenza») del criterio spaziale, solo approssimativamente isolato mediante parziali ammissioni formali (poiché un puro spazio materiale non esiste, non è accessibile neppure alla nostra esperienza più immediata ed elementare).
Per altro verso, il criterio dello spazio, come un criterio utile per parlare di architettura, anche se non soltanto di essa, è del tutto giustificato, nella misura in cui esso è determinabile in funzione di modelli opportuni, p.e. un modello geometrico, il quale è pur sempre solo uno dei modelli possibili e tuttavia sembra suscettibile di cogliere la struttura architettonica in modo più aderente, più stringente, almeno in quanto può essere specificato assai di più di quanto non accade p.e. al modello tipologico. […]
L’ipotesi di un modello geometrico, e le sue relazioni sintagmatiche
Tale modello, in via puramente esemplificativa, nel senso già ricordato, potrebbe essere appunto un modello di tipo geometrico. Potremmo isolare di una fabbrica barocca la configurazione spaziale tridimensionale determinata dagli elementi struttivi interni o (secondo i casi) dagli elementi struttivi esterni nella loro funzione di individuazione per segmenti e superfici di uno spazio interno, oppure isolare di quella configurazione un solo aspetto bidimensionale, p.e. una sezione o in particolare una pianta, in quanto individuata in modo analogo a quello descritto, e analizzare la porzione di spazio o di piano in funzione di una combinazione (per sovrapposizione o per contiguità, essendo chiaramente fuori causa la condizione della linearità) di elementi geometrici solidi o piani in relazione contrastiva, da un punto di vista sintagmatico, e in relazione oppositiva, da un punto di vista paradigmatico.
Con ciò non avremo in alcun modo sezionato materialmente l’oggetto architettonico, ma avremo semplicemente applicato ad esso (con un metodo elementarissimo, che è in uso da tempo nella trattatistica e nella progettazione architettonica) un modello geometrico formale.
Tale modello sarà costituito da elementi discreti cui pure è riferibile il continuo spaziale geometrizzabile nella sua concretezza e materialità, e nello stesso tempo ciascuno di quegli elementi (al contrario di ciò che accadrebbe con equivalenti verbali) sarebbe caratterizzato da una sua peculiare continuità: anzi, addirittura una continuità geometrica e non più semplicemente da una continuità materiale, cioè riferibile soltanto ad un modello implicito.
In particolare, per quanto riguarda le relazioni sintagmatiche, suggeriamo la possibilità di specificare tali relazioni in tre classi distinte, che contrarrebbero reciprocamente un rapporto di correlazione: una classe di relazioni «sintattiche», definite come sovrapposizione di elementi tale che di nessuno di essi si possa stabilire la funzione generatrice, dominante o di «reggenza» (pensiamo p.e. al S. Carlino borrominiano); una classe di relazioni ipotattiche, definite come sovrapposizione di elementi tale che soltanto di uno o più elementi, ma non di tutti naturalmente, si possa stabilire la funzione generatrice, dominante o di «reggenza», essendo gli altri subordinati rispetto ad esso o essi (è il caso, forse, di S. Maria in Campitelli); una classe di relazioni paratattiche, definite da non-sovrapposizione di elementi. Naturalmente, nella misura in cui tali indicazioni siano effettivamente applicabili, si tratterà in generale non di applicare in modo esclusivo l’uno o l’altro tipo di relazione sintagmatica, ma di applicare più tipi interrelati in una gerarchia sintagmatica complessa. […]
L’ipotesi di un modello grafico-analitico, e i «campi di varianti»
C’è da osservare però che la costruzione di un modello geometrico del tipo esemplificato può non essere abbastanza calzante, anche solo come esempio, proprio nel caso di talune architetture assai complesse e qui citate, nei riguardi delle quali si potrebbe forse arrivare soltanto ad un grado di analisi ancora troppo generico, non sufficientemente esplicativo, oppure — per evitare questo inconveniente — si dovrebbero specificare i modelli scelti oltre un utile grado di economia formale.
In ogni caso, potrebbe essere utile disporre di modelli opportuni, capaci di rendere analizzabile, in integrazione con il tipo di analisi già suggerita, anche i contorni esterni o interni (della scatola plastica o dell’invaso spaziale) della struttura analizzata secondo modelli costituiti da elementi-porzioni di spazio o di piano.
Tale ulteriore analisi, tanto più utile quanto più l’andamento dei contorni non sia implicito nella struttura propriamente spaziale, coglie in realtà un altro aspetto dell’architettura, non la sua spazialità geometrica ma la sua figuratività (e preghiamo, naturalmente, il lettore di tener conto della provvisorietà e approssimatività della terminologia): figuratività che può avere appunto un ruolo subordinato e quasi inavvertibile (è il caso limite di certo razionalismo, ma anche quello di certa architettura classicistica, laddove l’andamento dei contorni è affidato a leggerissimi risalti e flessioni), o può assumere un ruolo dominante e addirittura esclusivo (è appunto il caso di certe facciate barocche del tutto indipendenti «a vista» dalla struttura spaziale della fabbrica).
A questo scopo, il modello da adottare (fermandoci qui al caso più semplice della sezione orizzontale o della pianta) potrebbe essere costituito da elementi grafici lineari, riformulabili eventualmente (e questa possibilità è stata proposta anche da altri, ma al fine di scartarla come non specificamente pertinente) con un metodo analitico: riferimento del confine esterno o interno della pianta ad un piano cartesiano e sua rappresentazione analitica mediante uno o più, probabilmente molte, funzioni matematiche, comunque determinabili con una certa approssimazione.
Chiariamo subito che, con questa proposta, forse operativamente pazzesca, non intendiamo in alcun modo conferire un prestigio scientifico del tutto apparente a una semplice ipotesi esemplificativa. Del resto, proprio da un punto di vista scientifico o matematico, tale ipotesi è del tutto banale.
L’abbiamo introdotta, invece, esclusivamente per mettere in evidenza che il modello lineare proposto non deve essere inteso in alcun modo come una sorta di segmentazione materiale, a dispetto delle proteste già formulate in proposito, ma appunto come un metodo di riformulazione arbitraria di tipo metalinguistico, eseguibile — in base ad assunzioni analitiche e non sintetiche — ad un livello diverso o ulteriore rispetto a quello dell’oggetto analizzato, mentre il modello grafico-lineare avrebbe ancora potuto indurre erroneamente nell’idea che qui si sia proposta senza saperlo, una sorta di vivisezione degli oggetti architettonici concreti.
Posto che si possa riformulare la trascrizione grafico-lineare in trascrizione matematico-analitica, gli elementi con cui avremo a che fare non potranno più essere considerati in alcun modo come «parti» di oggetti concreti, ma piuttosto come componenti formali di essi. La possibilità di costruire un modello analitico-matematico contribuisce inoltre a mettere ulteriormente in evidenza il carattere di continuità di ciascun elemento (esibito dagli elementi-funzioni, costruiti per ipotesi come continui).
[…] Lo scopo, insomma, è di costruire — come in qualsiasi operazione di modellizzazione — un sistema di «campi di varianti», determinati in modo adeguato rispetto al tipo di analisi che intendiamo condurre (se p.e. ci interessa studiare il linguaggio architettonico di un’epoca, di un gruppo di architetti legati ad una poetica comune, di un artista singolo, di un momento di un artista singolo, o addirittura di una singola opera, oppure — al contrario — di un insieme di opere, pur dislocate variamente nel tempo, che presentino sotto un certo profilo, e quindi secondo una considerazione sincronica, aspetti comuni), e tale da costituire quel sistema di invarianti, rispetto ai quali tutti gli esempi classificabili in ciascun campo non siano che le loro realizzazioni concrete (o, meglio, le rappresentazioni di tali realizzazioni, come tale richiedenti anche qualcosa di materiale o sostanziale, analizzabile a sua volta in funzione di altri tipi di modelli).
Osservazioni teoriche generali. Il criterio della competenza e il procedimento analitico per specificazione.
Appare quindi evidente che, per poter costruire un modello del genere, non è pensabile che si possa procedere con criteri puramente grafici o matematico-analitici. O meglio: anche se ciò è possibile, niente ci assicura che un modello così costruito, e che potrà essere caratterizzato ad arbitrio da un alto grado di semplicità e di rigore (nella determinazione degli elementi e delle loro correlazioni, delle regole costitutive dei campi di varianti, delle leggi di combinazione sintagmatica), sia poi anche di fatto applicabile.
L’istanza dell’applicabilità, che non può essere ovviamente negata in favore di un’arbitrarietà tanto splendida quanto inutile, costringe a rinunciare — almeno sotto un certo profilo — ad una parte di bellezza formale; il che, però, costituisce anche una garanzia contro il timore che un’analisi del genere sia non pertinente semioticamente, così come sarebbe non pertinente un’analisi chimica o fisica dei materiali che realizzino di fatto le forme analizzate.
È cioè necessario fissare, al di fuori di una considerazione puramente geometrica o matematica, i criteri di pertinenza degli elementi discreti costituenti il modello adottato, e in funzione dei quali un fascio di realizzazioni concrete (o le loro rappresentazioni) viene effettivamente percepito come un insieme di varianti rispetto ad un’invariante formale.
Al livello minimo, di percezione in senso stretto, un tale criterio sarà fornito dall’esercizio stesso della percezione, dalle sue leggi immanenti (oggetto di studio da parte di una branca specializzata della psicologia): in altre parole, dalla competenza del percettore.
A livelli ulteriori, tale «competenza» (termine che qui usiamo in senso non molto remoto da quello chomskyano) si complicherà via via, in riferimento alle altre strutture psichiche implicate, nonché con apporti di gusto, conoscenze storiografiche, esigenze analitiche specifiche, le quali sembra che debbano anche reagire sul livello della percezione e modificare la configurazione legale; cosicché, ciò che a livello di percezione può essere colto come distinto in modo pertinente (secondo invarianti) può essere anche colto, variando i parametri psichici e storici, come mera variante di una diversa o semplicemente più generica invariante (il che tenderà probabilmente ad attenuare o a complicare anche la forza dell’invariante percettiva).
Non si tratta con ciò di rinunciare alle pretese di scientificità di un’analisi semiotica, ma semplicemente di ancorarle all’unica base solida attendibile, cioè alla comunicazione stessa, dove sono in gioco messaggi, mittenti, destinatari, codici, nonché strutture psichiche analizzabili a diversi livelli e condizioni storiche variamente modellizzabili, e non segni isolabili, in quanto segni o cose, dal contesto comunicativo.
Il ricorso alla competenza non costituisce affatto in linea di principio, un esito soggettivistico, relativistico e meramente empirico, anche se non si può pretendere nel nostro caso che la nozione di competenza possa essere esibita in strutture universali non genericamente identificabili e che i diversi livelli di realizzazione di tale competenza possano essere rigorosamente determinati mediante definite operazioni di trasformazione. Probabilmente un compito del genere, almeno al di fuori di certi oggetti di indagine, più che difficilmente eseguibile è addirittura impossibile: e anche per questo abbiamo parlato non solo di strutture psichiche ma anche di condizioni storiche.
Ammesso che sia possibile (come sembra) costruire modelli molto generali, addirittura non ulteriormente generalizzabili, e applicabili quindi a una grandissima varietà di oggetti, i diversi modelli particolari saranno ottenibili non mediante operazioni di trasformazione secondo regole, ma mediante operazioni di specificazione secondo procedimenti costruttivi, tali che i modelli via via specificati risultino adeguati a certi insiemi, più ristretti, di oggetti, pur continuando ad essere modelli analitici (costruiti arbitrariamente a priori) e non semplicemente insiemi disorganici di dati empirici.
In questo senso la ridotta cogenza dell’applicabilità di tali modelli (la possibilità, di fatto, di violarne facilmente le condizioni, in riferimento a modelli diversamente specificati), nonché l’incidenza del fattore «storicità» (che ha dato luogo talvolta, con il cosiddetto storicismo, ad una rinuncia alla modellizzazione in favore di una mitica «individualità» del fatto storico), sembra che si esprimano comunque in termini analitici e correttamente «scientifici».
È necessario soffermarci un momento su questo punto, convinti che la questione comporterebbe un riesame ben altrimenti approfondito di ciò che si dice essere «metodo scientifico»: col che si riaprirebbe un discorso epistemologico generale, qui fuor di luogo.
Ci accontenteremo di alcune osservazioni non sistematiche, ma — crediamo — abbastanza rilevanti. Cominceremo così con l’osservare che il procedimento costruttivo per operazioni di specificazione sembra essere comune, forse più di quanto non si creda generalmente, a moltissime discipline scientifiche. P.e. ciò che comunemente si chiama «ipotesi di lavoro» si può considerare come una specificazione di un modello formale esplicativo più generale […], nella quale ipotesi si riuniscono parimenti i due caratteri dell’arbitrarietà e dell’adeguatezza (quest’ultima da verificare) propri in modo evidente della teoria generale da cui ipotesi e modelli dipendono.
Nell’ambito di una teoria semiotica generale, quale è quella descritta nei suoi preliminari da Hjelmslev, sembra poi che quel tipo di operazione sia dominante e caratterizzante.
Non solo, infatti, Hjelmslev fornisce una teoria generalissima (una «meta-teoria», come è stato detto), specificabile in «several linguistic theories», tra le quali si dovrà scegliere in base al cosiddetto «empirical principle»; ma la stessa teoria generalissima viene concepita come un «processo», o un «sistema» (secondo il punto di vista), organizzato secondo la funzione di «determinazione» («selezione» o «specificazione», in stretto senso tecnico hjelmsleviano, secondo che sia riferita alla teoria come processo o come sistema) : «The function between the definitions [della teoria] are determinations, since the definitions designed to be placed early in the process (or system) of definitions are presupposed by those designed to follow later, but not vice versa».
Si dà cioè un rapporto da costante a variabile, e poiché non c’è passaggio necessario dalla prima alla seconda (ma solo dalla seconda alla prima), il passaggio non avrà la forma tradizionale della inferenza logica o della dimostrazione matematica (se è vero che esse costituiscono davvero, in tutti i sensi, delle tautologie), ma piuttosto quella della specificazione (nel senso da noi usato), vale a dire della introduzione progressiva e sistematica di restrizioni ulteriori rispetto alle definizioni anteriori (cioè rispetto ad un modello iniziale più generale): ulteriori e quindi non deducibili da quest’ultime. […]
Ora, sembrerebbe per la verità del tutto assurdo definire scientifiche soltanto quelle ricerche il cui metodo sia di tipo formale-deduttivo in stretto senso logico-matematico; né, d’altra parte, sembrerebbe corretto distinguere nelle scienze, il cui metodo sia di tipo costruttivo, tra quelle che siano in grado di scoprire nessi, tra gli oggetti, caratterizzati da un’altissima regolarità e quelle invece che debbano accontentarsi di una regolarità più generale (più generica) e più debole.
In quest’ultimo caso, dove una scienza comincerebbe o finirebbe di essere propriamente una scienza? rispetto a quale insieme di fenomeni? a quale livello di generalità? Tutte queste questioni sono ovviamente di carattere pratico e materiale, ma non toccano comunque lo statuto formale della scienza in quanto essa possiede comunque i caratteri dell’arbitrarietà e dell’adeguatezza. […]
Il procedimento per specificazione non può contare dunque su regole di trasformazione: in questo senso, e solo in questo senso, si può dire che in certi casi si ha una perdita di forza scientifica; così come in altri casi si può dire che tale perdita è aumentata dal fatto che, in particolare, i modelli costruibili sono troppo deboli o generici.
Tuttavia una qualche perdita di forza scientifica, posto che di perdita si debba parlare, è in questi casi del tutto pertinente agli oggetti considerati; e non può essere certo un compito della ricerca scientifica quello di costruire leggi universali e di raggiungere la certezza e il consenso anche laddove è caratteristico un certo grado di incertezza e di dissenso.
Il che vuol dire in sostanza che un certo modello specificato e abbastanza generale (p.e., nel caso dell’architettura e oggetti analoghi, un modello geometrico del tipo già esemplificato) imporrà le sue condizioni di invarianza nei riguardi di certi oggetti e non di altri; ma non esclude che, oltre a valere come modello in un certo ambito, esso non rinvii ad elementi e a relazioni di invarianza (p.e. le relazioni sintagmatiche già esemplificate) ancora più generali, che già giustificano l’adozione di un punto di vista analitico, in contrapposizione al vecchio punto di vista normativo e alla sua complementare negazione di tipo meramente storicistico, intuizionistico e — in definitiva — creazionistico.
Ora, tutto ciò non è possibile senza disporre di una teoria generale, anche soltanto in abbozzo e in via di formazione, che consenta di elaborare un metodo adeguato il cui scopo è di costruire e di collocare negli opportuni punti strategici dei filtri analitici, la cui funzione è non certo di negare semplicisticamente storicità e creatività, ma […] di modellizzare storicità e creatività nel loro effettivo manifestarsi e strutturarsi.
Inoltre, seppure non si può parlare di regole di trasformazione, sembra però che si possa ammettere la possibilità di determinare, in sede di teoria applicativa, cioè di teoria specificata in vista della sua applicazione, una opportuna procedura di specificazione, una regola costruttiva, tale che l’approccio analitico non serva semplicemente a nascondere il ricorso all’empirismo e al mero inventario.
Una tale regola costruttiva, infatti, non costituirebbe altro che la condizione formale a priori per la costruibilità di un modello, dalla sua massima generalità alle sue tante (virtualmente infinite) specificazioni, e insieme la condizione perché il criterio della competenza possa esercitarsi in modo non rapsodico e intuitivo. Così, molte delle possibilità concepibili in sede propriamente teorica potrebbero non essere utilizzate di fatto in rapporto ad una competenza reale, ma non perciò dovrebbero essere necessariamente considerate inapplicabili: poiché niente esclude che esse possano diventare, quando che sia, possibilità esplicative di oggetti reali.
La regola costruttiva, in altre parole, rappresenterebbe una condizione molto generale di competenza e la competenza cui di volta in volta facciamo appello una sua specificazione opportuna (adeguata ai fatti da spiegare).
Si avrebbe così una sorta di procedimento intermedio tra «procedimento generativo» e «procedimento tassonomico» e la costruzione di un modello intermedio tra «struttura» e «quasi-struttura», né propriamente «statico» né propriamente «dinamico» — nel senso in cui tali termini sono usati dallo Saumjan. Dello stesso autore, inoltre, ci sembrano estremamente produttivi ai nostri fini, e proprio perché abbiamo a che fare con qualcosa di cui non si può e non si deve presupporre una regolarità molto elevata, il riconosci-mento di una componente di «irrazionalità» nello stesso linguaggio verbale e la conseguente distinzione tra modello «genotipico» e modello «fenotipico».
Il modello costruttivo, qui soltanto enunciato, sembra in verità rispondere alla stessa duplice esigenza: esso è propriamente geno-fenotipico, nel senso che a livelli di grande generalità è molto astratto, regolarizzante, ma appunto come un modello «profondo», e a livello di maggiore specificazione, in quanto vengono escluse certe specificazioni e accolte altre in vista di un’applicazione a oggetti dati, mette in evidenza anche certe caratteristiche apparentemente «irrazionali». Che sono però irrazionali solo in quanto il determinato modello venga assunto nel suo isolamento, e non sono più tali se tale modello viene ricollegato con tutti gli altri possibili modelli altrettanto o meno specificati secondo una regola costruttiva.
La continuità variazionale nell’architettura, e le invarianti dinamiche
Torniamo ora alle nostre esemplificazioni pratico-teoriche, al fine di chiari un ulteriore aspetto importante del problema posto dal carattere di continuità di taluni linguaggi non-verbali, nell’esempio qui scelto il linguaggio architettonico e ciò che chiamiamo linguaggio architettonico.
In realtà, finora abbiamo semplicemente aggirato (correttamente, ci auguriamo) la difficoltà o la presunta difficoltà, riportando anche i cosiddetti linguaggi continui al caso generale dei linguaggi analizzabili mediante modelli costituiti da elementi discreti, come appunto esemplarmente accade in relazione al linguaggio verbale.
Le invarianti cui ci siamo riferiti finora, pur non essendo elementi o pseudoelementi materiali e complessi, sono state determinate secondo criteri classificatori e latamente tipologici, del tipo — diciamo così, per semplicità — «concavo», «convesso»,ecc., analoghi (pur nella loro appartenenza ad uno specifico modello) agli elementi tradizionali tipologici come «colonna» «architrave», ecc. o anche (sempre dedotte le caratterizzazioni specifiche dei vari modelli chiamati in causa) ai fonemi /a/, /b/, ecc.
Sennonché si deve tener conto anche di un altro tipo di continuità, anch’esso pertinente a livello di modello e non semplicemente di messaggio, ma non più esplicitabile soltanto nella caratterizzazione formale di ciascun invariante preso a sé, e in quanto riformulato mediante simboli opportuni. Questo espediente di riformulazione è stato utilizzato infine per mostrare che il carattere di continuità, pur pertinente a livello di codice, non è affatto un ostacolo insormontabile ai fini della costruzione di modelli adeguati mediante procedimenti tradizionali.
Tale ulteriore aspetto del carattere di continuità, in qualche modo ancora più intrinseco al modello e tuttavia parimenti esplicitabile e discretizzabile, può essere individuato — da un altro punto di vista — nello speciale rapporto variazionale che può legare tra loro le varianti di uno o più campi di varianti o anche una parte di esse (essendo, tali varianti in rapporto variazionale, opportunamente determinate e scelte).
In altre parole: la continuità come variazione. Si tratta cioè di considerare la possibilità di costruire, oltre a modelli costituiti da «campi di varianti», che denomineremo «invarianti statiche», anche modelli costituiti da «campi di variazioni», che denomineremo «invarianti dinamiche». […]
In generale, sembra che i rapporti tra invarianti statiche e invarianti dinamiche possano essere di cinque specie : di «sovrapposizione completa isomorfica»[…], di «sovrapposizione completa non isomorfica» […], di «inclusione» […] di «esclusione»[…[ di «disgiunzione»[…] Queste fondamentali modalità di interrelazione, che abbiamo qui elencato senza tener conto direttamente della loro applicabilità, sembra che possano fornire […] le caratteristiche formali di modelli complessi (modelli interrelati o codici) in quanto appunto applicabili nell’analisi di oggetti dati.
Non osiamo precisare questa nostra opinione, che richiederebbe una non facile ricerca a sé, e ci accontentiamo di suggerire p.e. la possibile pertinenza del rapporto di sovrapposizione completa isomorfica rispetto all’architettura di orientamento classicistico […]. Ma, ripetiamo, si accolgano queste indicazioni come semplici suggestioni, ancora largamente intuitive.
Per chiarire con un’analogia, del resto abbastanza calzante, le ragioni che ci hanno indotto a introdurre la nozione di invariante dinamica (o variazionale, o formativa e strutturante), proponiamo di pensare alla distinzione e al rapporto che intercorre, nel caso del linguaggio verbale, tra invarianti fonematiche e invarianti intonazionali o emozionali. […] Ci riferiamo in particolare alle invarianti intonazionali secondo la quantità (essendo possibili, ovviamente, anche altri tipi di invarianti intonazionali, secondo l’altezza, il volume, la grandezza, ecc.).
Allorché il linguista si occupa propriamente di invarianti fonematiche, le differenze quantitative tra varianti vengono ignorate (per definizione); tali differenze — da un altro punto di vista — possono diventare pertinenti proprio ai fini della individuazione di invarianti di diverso tipo, dinamiche o variazionali (e, in questo caso, l’interrelazione tipica dei due modelli, esclusi i fenomeni intonazionali non linguistici, è di sovrapposizione completa non isomorfica).
Il metodo consueto di cifrazione, giustificato dalla sua comodità di impiego rispetto a certi scopi analitici ed esemplificabile nella correlazione o quasi-correlazione: /x/, /x:/, dove viene notata esplicitamente e schematicamente soltanto la opposizione o differenza tra «breve» e «lunga», cioè nello stesso tempo e ambiguamente tra assenza e presenza di prolungamento intonazionale (correlazione in senso proprio) e tra i due estremi di una stessa unità variazionale, tale metodo consueto — dicevamo — può far pensare ad una discretizzazione del tutto analoga a quella fonematica, priva cioè della capacità di cogliere a livello di modello la continuità propria del carattere variazionale del fenomeno dell’intonazione secondo la quantità.
[…] Nel caso dell’architettura le cose non stanno esattamente così, come è ovvio. Le osservazioni fatte a proposito del linguaggio verbale avevano, come si era già precisato, un valore soltanto analogico. E, tuttavia, una qualche somiglianza c’è, e potrebbe essere rilevata a molti livelli. In molti casi, p.e. le differenze tra varianti di uno stesso campo invariantivo (ci muoviamo quindi nel caso di un rapporto di sovrapposizione completa e isomorfica) possono essere considerate secondarie, ma non certo inesistenti da ogni punto di vista, rispetto all’invariante: cioè (v. l’esempio del troppo citato «tempio greco» nella sua forma dorica) il riferimento ad un modello costituito da invarianti statiche sembra primario rispetto al riferimento ad un modello costituito da invarianti dinamiche (che, sempre a proposito di tempio greco, ci darebbe conto delle connotazioni, per così dire, «intonazionali» di sotto-gruppi di templi dorici o di un singolo tempio, differenzialmente rispetto ad altri sotto-gruppi o altri templi).
Ma in altri casi le differenze variazionali possono divenire primarie rispetto al fatto che le variazioni registrabili possano anche essere attribuite, da un punto di vista statico e cioè come semplici varianti, a uno o più campi di varianti: cioè (v. l’esempio del colonnato dorico del Parco Güell di A. Gaudì) il riferimento ad un modello costituito da invarianti dinamiche (semplificando alquanto, in questa sede, le complesse questioni interpretative, diacroniche e sincroniche, connesse all’esempio fatto) sembra primario rispetto al riferimento ad uno o più modelli costituiti da invarianti statiche (che ci darebbero conto, da una parte, di una generica legalità statica «art nouveau» o «modernismo catalano» e, dall’altra, di una legalità ellenico-dorica e neo-ellenica, ancora più debole e intenzionalmente tenuta in sordina, mediante il procedimento di una sistematica e violenta «deformazione»).
Con la nozione di «invariante dinamica», dunque, non abbiamo voluto introdurre semplicemente la considerazione di aspetti in qualche modo più superficiali, puramente aggiuntivi e facilmente deducibili in favore di una esclusiva e primaria considerazione strutturale, di tipo statico, quasi che questa debba essere di necessità statica e non dinamica. Al contrario, proprio i modelli di tipo dinamico, come abbiamo detto, possono essere strutturalmente primari: essi non hanno, cioè, quel carattere «soprasegmentale» che i linguisti attribuiscono, con terminologia almeno ambigua, ai tratti intonazionali.
Perciò abbiamo definito l’invariante dinamica anche come invariante «formativa» o «strutturante», in opposizione all’invariante statica che potrebbe anche essere denominata correlativamente come invariante «classificatoria» o «tipologica» (in senso lato). In realtà sono proprio i modelli di quel tipo, perfino quando essi svolgono un ruolo secondario o connotante, a farci intendere meglio, con maggiore adeguatezza, gli aspetti più delicati e più sfuggenti del fenomeno architettonico, diciamo pure: la sua interna creatività, almeno quando abbiamo a che fare con fenomeni molto circostanziati, al limite con singole opere architettoniche.
Tali modelli di tipo dinamico sono poi del tutto indispensabili (comunque essi debbano essere costruiti), quando abbiamo a che fare con quelle opere d’architettura o di qualunque altro genere che la critica e la storiografia artistica ama definire «organiche». Infatti, se l’organicità non è semplicemente un mistero, una vuota analogia tratta dalla sfera biologica, essa deve essere intesa o in termini di equivalenze statiche (è p.e. l’organicità geometrica e razionale dell’architettura «a pianta centrale» di taluni edifici romano-imperiali o rinascimentali) o in termini di impiego sistematico di unità variazionali.
Quest’ultimo è il caso, per tornare ancora una volta a Gaudì, della casa Milà o, soprattutto, della cappella di S. Coloma di Cervellò, dove addirittura sembra che sia in gioco un’unica e assai complessa unità variazionale, in correlazione con la quale c’è — per così dire — l’assenza d’architettura (o tutta la tradizione architettonica in quanto negata). Non si tratta di reintrodurre con ciò l’irrepetibilità e inanalizzabilità creativa sotto le apparenze della modellizzazione, ma anzi di mostrare come perfino nei casi estremi e più riottosi si possa parlare di «struttura», di «organicità», di «creatività», ecc., solo a patto di introdurre adeguate ipotesi analitiche.
Quante siano le unità in gioco nella cappella di Gaudì (una, dodici o duemila) qui non sappiamo dire, né ci importa stabilirlo: una questione del genere può essere affrontata seriamente, nei limiti in cui le nostre proposte siano effettivamente traducibili sul piano operativo, solo in sede di costruzione sistematica di una teoria applicativa: il che non rientra né nelle nostre attuali possibilità, né infine nei nostri interessi. Importa stabilire piuttosto che, nei limiti in cui l’organicità dell’opera di Gaudì o di altri non è analizzabile adeguatamente in termini di invarianti statiche, essa deve però essere analizzabile in termini di invarianti dinamiche.
Le «forme» di Gaudì non sono semplicemente invenzioni soggettive ed estemporanee, ma rispondono ad un piano formativo preciso e precisabile, sono — ciascuna — una variante-variazione di una o più invarianti. Guardando soprattutto a questa loro applicazione (che non è l’unica, come si è già accennato), le abbiamo dette formative o strutturanti, in quanto la loro scelta — con le possibilità di variazioni che essa comporta — si pone come il principio formativo o strutturante dell’opera.
tratto dal numero 19