Valori iconologici e semiotici in architettura

GILLO DORFLES
Negli ultimi tempi possiamo, davvero, parlare d’una «moda semiologica» che si è affermata nei più vari territori culturali. Non vorrei però che questo termine ‘moda’, suonasse derogatorio: anche la moda – è chiaro – ha i suoi aspetti positivi; intanto perché è proprio la moda a portare fino nelle regioni in apparenza più frivole, alcune grandi costanti stilistiche d’un’epoca; e poi perché anche la moda (l’ha fatto ad es. Barthes) si può prestare a sua volta ad acute e minuziose indagini semiologiche.

Dunque, se è «di moda» parlare di semiotica e di linguistica perché non dovremmo parlarne anche a proposito dell’architettura e del disegno industriale? E, infatti, negli ultimi anni si sono avuti molti tentativi di dare una classificazione e un’impostazione semiologica alle ricerche critiche e strutturali dell’architettura.
Il mio proposito, oggi, vuol essere solo quello di esporre alcuni momenti che, secondo me, possono essere considerati «utili» per un’impostazione semiologica del problema; cercando soprattutto di distinguere quello che era, sino a ieri, l’aspetto iconologico, e quello che è oggi piuttosto l’aspetto semiologico d’una critica e d’un’analisi del linguaggio architettonico.
Perché ho detto « sino a ieri »? Perché, come è ben noto, l’influsso degli studi panofschiani, soprattutto applicati alla pittura e alla scultura, si è, in un secondo tempo, esteso anche all’architettura e ha fatto sì che, da molti autori, si tendesse ad analizzare il « messaggio architettonico » (questo termine, veramente, è d’uso più recente, già dipendente dagli studi legati alla Teoria dell’Informazione e alla cibernetica) da un punto di vista prevalentemente iconologico, figurativo, proprio considerato che tale messaggio avesse un valore comunicativo quale è appunto quello dell’icone: dell’immagine figurale; o – se vogliamo invece accettare la definizione morrissiana di questo termine – di « quel segno che ha in sé alcune delle proprietà che tende a denotare »; e, nel caso dell’architettura, è evidente che il « segno » architettonico ha in sé tali proprietà nel senso più completo; e cioè un tipico segno iconico.
Ecco, dunque, come, già partendo dall’iconologia
(che lasceremo provvisoriamente in disparte) siamo giunti a parlare di « segni », di « messaggi », e di « segni architettonici »: dunque di comunicazione attraverso segni; che è quanto dire di semiosi (ossia di processo segnico) e della dottrina che studia tale genere di comunicazione attraverso i segni o i complessi segnici: ossia di semiotica.
Fino a che punto, allora, possiamo affermare che l’architettura è sottoponibile ad un’indagine semiologica? Fino a che punto il messaggio architettonico è « semantico »?
Negli ultimi anni l’applicazione di moduli linguistici attinti alle diverse correnti strutturalistiche, alla letteratura e alle diverse arti si è diffusa con rapidità e intensità sorprendente.
E la cosa, da un certo punto di vista, non può non essere considerata come positiva. Se, tuttavia, per l’opera letteraria l’applicazione di schemi linguistici era non solo auspicabile ma indispensabile, proprio per la parentela tra mezzo d’indagine e medium analizzato, per gli altri linguaggi artistici le cose si presentavano in maniera alquanto diversa. Non è difficile precisano.
Sono convinto che si debba considerare la linguistica come una delle branche della semiotica e non viceversa: la semiologia come una dipendenza della linguistica (come viene spesso sostenuto specialmente da alcuni autori francesi).
Questo per una ragione sostanziale: che una semiotica – una teoria o dottrina dei segni può essere applicata ad ogni sistema segnico (tanto ai sistemi comunicativi artistici quanto al telegrafo morse, o alla segnaletica stradale) mentre la semiologia propriamente linguistica è applicabile soltanto alle opere che si valgono della parola (del linguaggio verbale) per esprimersi. (Nel caso, poi, che si tratti della parola usata in opere letterarie, e in particolare poetiche, possiamo anche definire questa branca della linguistica – adottando la terminologia di Jakobson come «poetica»
Io non intendo qui occuparmi di poetica né di linguistica verbale, ma soltanto di una possibile semiotica architettonica e per far ciò devo porre alcune indispensabili premesse: Già a partire del 1959 in un mio saggio e poi nel mio volume Simbolo, Comunicazione Consumo , ho accennato alla possibilità e opportunità di considerare anche l’architettura come un sistema segnico; uno dei compiti o delle funzioni dell’architettura come quella di «comunicare un peculiare messaggio» che è appunto il messaggio architettonico
In quel volume sostenevo tra l’altro : «i problemi dell’architettura considerata, alla stregua delle altre arti, come un ‘linguaggio’ sono alla base di tutta una nuova corrente di pensiero che permette di far rientrare anche quest’arte entro i canoni d’una teoria informativa e comunicativa . ….Il ‘significato’ si può considerare come un processo che lega gli oggetti, gli eventi, gli esseri a dei ‘ segni’ capaci a br volta di evocare tali oggetti eventi esseri.
Il processo conoscitivo altro non è che la possibilità di conferire un significato alle cose che ci circondano e tale possibilità ci viene offerta dai segni che sono per noi tramite tra la nostra coscienza soggettiva e il mondo dei fenomeni. 1 segni, dunque, sono i primi e precipui strumenti di ogni comunicazione… Una cosa… è certa: l’architettura, come ogni altra arte, può e deve essere considerata come un insieme organico, e sino a un certo punto, istituzionalizzato di segni; e come tale può essere identificata almeno parzialmente con altre strutture linguistiche».
Potrei, a questo punto, richiamarmi ai numerosi studi apparsi negli ultimi tempi in Italia e all’estero; ma un esame completo della letteratura richiederebbe troppo tempo: mi limiterò perciò ad accennare alle ricerche compiute presso la Scuola d’Architettura di Firenze da Gamberini e da Koenig (quest’ultimo prevalentemente in chiave morrissiana) e a quelle di Christian Norberg-Schulz in Norvegia, di Max Bense e Kurd Allsleben in Germania, e più recentemente a quelle di Cesare Brandi, di Renato De Fusco di Umberto Eco, di Guido Morpurgo-Tagliabue in Italia, di Luis Prieto 1 in Argentina e in Francia. Ma tralasciando ora, di esaminare più a fondo queste diverse teorizzazioni vorrei addentrarmi un po’ in quella che è la mia visione d’una semiotica architettonica.
Non senza avvertire, prima, comunque, che qui parlerò sempre di «linguaggio» nel senso più lato, come d’un mezzo comunicativo valido tanto nel caso di trasmissione dei messaggi scientifici (linguaggio matematico, logico) quanto di messaggi artistici (linguaggio pittorico, musicale), mentre col termine «lingua» intendo designare soltanto il particolare linguaggio verbale basato sull’uso della parola.
Non intendo, cioè, ricondurre mai alla parola, al linguaggio verbale, il linguaggio delle altre arti. (Come purtroppo è stato tentato da molti con notevole rischio di confusione e di equivoco).
Faccio ancora presente che non intendo valermi della distinzione di Saussure tra « langue» e « parole »; giacché nel caso dell’architettura considero i due termini come, di solito, coincidenti: una delle funzioni fondamentali dell’architettura è di essere « langue » e la presenza di elementi appartenenti alla « parole » non mi sembra degna d’essere presa in considerazione almeno in questa mia nota.
La ragione per cui trovo poco confacente all’architettura di essere suddivisa in «langue» e «parole» è dovuta al fatto che quest’arte – a differenza della maggior parte delle altre – possiede quell’inderogabile addentellato con la funzione pratica, utilitaria, che, già di per sé, ne limita le possibilità espressive o che, quanto meno, la indirizza verso un tipo di utilizzazione che non è quasi mai privata, singola, ma è, già in partenza, comunitaria, e destinata ad una fruizione di massa. Ecco dunque perché potremo sorvolare sulla distinzione in «langue» e «parole» per quanto concerne il linguaggio architettonico.
Non ritengo, del pari, che sia opportuno, né possibile, compiere per l’architettura – come del resto per il cinema e l’arte visiva in genere – un genere di sistemazione del materiale semiotico che si possa far corrispondere a quella applicata al linguaggio verbale; e questo perché la suddivisione del messaggio verbale nelle sue diverse parti non è real-cabile delle arti visive se non con evidenti forzature.
In altre parole: se è facilmente ammissibile la presenza d’un codice architettonico in buona parte istituzionalizzato, capace dunque di comunicazioni sufficientemente precise agli utenti dello stesso tale codice, per contro, non è riportabile a unità discrete identificabili con quelle del comune linguaggio verbale.
Sia ben chiaro, inoltre, come io consideri poco attendibile la presenza d’una «doppia articolazione» (nel senso di Martinet) in ogni sistema segnico. Se nella lingua parlata si danno costantemente elementi significanti (morfemi, monemi) che costituiscono una prima articolazione (e che articolandosi tra di loro potranno costituire dei sintagmi, e delle più complesse strutture significanti), mentre gli stessi elementi si possono a loro volta suddividere in elementi di seconda articolazione costituiti dai fonemi (le minime unità fonetiche pari agli stoiheia aristotelici o ai vãrna-spota sanscriti), questo non vuoi dire che altrettanto accada per ogni altro sistema comunicativo segnico.
E, nel caso dell’architettura, è evidente che non si può parlare d’una divisione in fonemi e morfemi pari a quella del linguaggio parlato anche se si potrà, per analogia o metaforicamente, ragionare di «sintagmi architettonici» come della congiunzione e sommazione di diversi « segni» architettonici tra di loro.
Per cui si potrà ben dire che una scala che conduce ad una piazza, oppure un ascensore che porta ad una terrazza, o un pannello d’alluminio con cui si costruisce un intero curtainwall corrisponde ad un «sintagma architettonico », ma del tutto figuratamente. Non si dovrà invece assimilare il mattone al fonema o la finestra al sintagma.
Ritengo invece (e questo punto mi sembra fondamentale tanto più perché contrasta con quanto viene sostenuto oggi dalla maggior parte dei ricercatori) che esista, non sempre, ma spesso, un « quid formale » – potremo definirlo un gestaltema – capace di comunicare qualcosa esclusivamente in base al suo aspetto formale-configurazionale.
E questo, in parte, per ragioni analoghe a quelle che mi fanno propendere per l’accettazione di principi del tutto opposti a quelli sostenuti dalla maggior parte dei linguisti recenti, circa la convenzionalità dell’unione tra segno verbale e suo referente. Non ho bisogno, qui, di ricordare l’importanza di alcune illuminanti intuizioni di Giambattista Vico, poi riportate da Schelling e da Cassirer, per spiegare il perché del significato di alcuni vocaboli e di alcuni elementi mitici strettamente legati a fattori linguistici ed etimologici.
Ebbene, in molti vocaboli il rapporto tra elemento fonetico ed elemento morfologico è altrettanto importante (e non legato a mera convenzione) quanto lo è quello del rapporto tra «significato» di certe forme architettoniche e loro primitiva «funzione».
Esiste, o esisteva, dunque, un elemento semanticamente implicito nella stessa struttura fonetica della parola. Tengo ad affermare questo principio, anche se dalla maggior parte dei più recenti linguisti è stato contraddetto o limitato alle sole espressioni onomatopeiche.
Possiamo dire altrettanto dell’architettura? Possiamo cioè ammettere che certe forme architettoniche (che non devono necessariamente corrispondere a precisi «elementi distributivi» o a già istituzionalizzate tipologie!) corrispondano a determinati significati (e alle relative «funzioni»)?
È un quesito che si viene ponendo da tempo e che, tutto sommato, si richiama a certe antiche teorie ventilate persino da Woelfflin, da Schmarsow, dai purovisibilisti e da più recenti teorie legate agli studi sullo schema corporeo secondo Schilder, ecc.
Per parte mia ritengo che non ci sia dubbio sulla presenza di alcune, almeno, analogie isomorfe tra edificio (e, in genere, forma d’un oggetto) e struttura corporea.
Per cui, sia che si voglia invocare l’antico concetto antropomorfico vitruviano, sia che si voglia ricorrere a più recenti impostazioni circa l’espressività di certe forme, quali vengono sancite da alcuni gestaltistici ‘, è comunque possibile intravvedere un nesso abbastanza netto tra configurazione architettonica (e urbanistica) e suo «significato» (piuttosto nel senso di significance che di meaning).
La significanza architettonica, cioè, sarebbe piuttosto di ordine non concettuale, non razionale, ma simbolico; anche se tutto quanto il processo operativo ed esecutivo di quest’arte appare sottoposto alla logica e alla razionalità. E, in questo senso, l’architettura rientrerebbe in quella categoria di «forme simboliche» così ben indagate e studiate già da Ernst Cassirer.
Nel caso dell’architettura ci troviamo dinnanzi ad una forma espressiva (non dunque, come di solito si sostiene, di fronte ad una semplice «comodità» funzionale, con la quale l’uomo ha cercato di mettere a punto un riparo atto ad essere abitato) il cui compito, sin dall’inizio, è stato quello di «significare qualcosa». È ovvio che i primi selvaggi si costruissero l’abitazione nelle caverne o sulle palafitte, senza, probabilmente, nessuna pretesa comunicativa ed espressiva.
Ma, appena fu loro possibile di costruire, non solo per ragioni di riparo e di difesa dalle fiere, la loro tendenza fu certamente quella di valersi delle stesse forme usate per riparo e abitazione trasformandole in forme espressive di qualche cosa. Qui si situa l’inizio di una semiotica architettonica. Perché il tempio greco, il minareto, la piramide, il nurago, il dolmen, ebbero proprio quelle forme, non certo le più semplici e le più ovvie? Queste ben noie forme architettoniche denunciano chiaramente la loro «funzione» prima di tutto simbolico-sacrale-sessuale.
Nel lungo corso dei secoli, con le dovute eccezioni, l’architettura ha, in fondo, continuato a perpetuare l’esistenza di forme simboliche che, di tutte quelle costruite dall’uomo, sono state quelle che hanno meglio potuto valere come «segni», d’una sempre rinnovantesi, ma sempre ripetentesi, semiotica architettonica.
Un altro tipo di distinzione mi sembra a questo punto necessaria. Bisogna distinguere tra quel tipo di semiosi architettonica che sia intenzionalmente semantica e quella che io sia non intenzionalmente; ossia casualmente o comunque senza vera intenzionalità e consapevolezza da parte dell’architetto. L’importanza di questa distinzione risulta rilevante anche ai fini d’una successiva interpretazione dei singoli monumenti architettonici.
Vediamo come si verifichi il primo caso: sappiamo ad esempio che, nella basilica protoromanica, buona parte degli clementi costitutivi sono riferibili a precisi motivi sacramentali per cui, a mo’ d’esempio: le pietre stesse della chiesa” sono identificate con i fedeli « saldati con il cemento della carità»; o le colonne rappresentano gli Apostoli, la sacrestia il grembo della Vergine dove Cristo ebbe a rivestire l’abito di carne, allo stesso modo di come il sacerdote riveste i paramenti nella sacrestia [«Sacrarium in quo sacerdos vestes induit, uterum sacratissirnae Mariae significat in quo Christus se veste carnis induit»]. E sappiamo persino come la deviazione nell’asse di parecchie chiese medievali sia stata spiegata con la inclinazione del capo del Cristo crocifisso (inclinatio capitis). Tali esempi potrebbero ovviamente essere moltiplicati all’infinito e applicati a molte costruzioni religiose di tutti i tempi.
Ecco, dunque come in questo caso l’architetto (o chi per lui) ha la precisa volontà di costruire l’edificio in base ad una prestabilita semanticità istituzionalizzata e basata sopra un codice iconologico ben preciso. L’edificio è intenzionalmente eseguito in maniera che, se non tutti, buona parte dei suoi elementi costitutivi, siano semantici; abbiano una una referenzialità precisa.
Dobbiamo in questi casi parlare di «doppia articolazione»? Ossia affermare che, oltre ad avere la consueta significazione architettonico-funzionale (trave portante, porta che apre verso l’esterno, scala che porta dal basso all’alto, iconostasi che separa, ecc.) questi elementi avranno anche una referenzialità seconda, metaforica, allegorica, traslata?
Possiamo senz’altro accettare questa ipotesi e anche, se vogliamo, invocare una «seconda articolazione», purché questo non ci induca nell’errore (commesso come sappiamo da Barthes e da altri semiologi francesi) di ricondurre tale doppia articolazione a quella verbale, identificando cioè la referenzialità seconda a quella presente nelle parole della lingua.
Nel secondo caso invece, la semanticità dell’edificio e delle sue parti costitutive sarà solo occasionalmente tale e comunque non risponderà a precise intenzioni da parte del costruttore.
Si pone ora il seguente quesito: È possibile oggi una semanticità del primo tipo e quando? Quasi tutti i tentativi compiuti nella nostra epoca per far sottostare il fatto architettonico al primo tipo di semanticità si sono mostrati spun e poco genuini.
Cessata o ridotta fortemente la componente sacra, religiosa, iniziatica dell’arte; svuotati dai loro contenuti magici e misterici i rapporti numerici, dobbiamo convenire che un genere di « simbolicità» e quindi di semanticità legata a un simbologismo sacro o religioso si dimostra del tutto inattuale, e per ciò appunto anartistica.
Per quanto riguarda il secondo tipo di semanticità dovremo suddividere la stessa in due sottordini che più spesso ricorrono: quella che si basa sull’esame dei «caratteri distributivi» d’un edificio e quella che si appunta sulle peculiarità tipologiche dello stesso. Anche se entrambe queste impostazioni appaiono oggi svalutate tanto nell’insegnamento architettonico quanto nelle analisi linguistiche di questa disciplina, mi sembra che possa ancora essere opportuno tenerne conto, soprattutto per quell’aderenza della forma architettonica ad un fattore tipologico e distributivo da cui non credo convenga totalmente prescindere.
Bisognerà dunque distinguere tra la presenza di un aspetto simbolico-iconologico quale era giustificato e giustificabile negli edifici sacri dell’antichità e un aspetto tipologico-iconologico quale è ancora presente in molte opere recenti soprattutto quando queste rivestono particolari esigenze «semantiche».
Sarà opportuno, inoltre, essere cauti nei tentativi d’insistere troppo sulla valutazione connotativa d’un determinato edificio (o gruppo d’edifici) a sfavore di quella denotativa. Certo, si danno numerosi casi dove l’aspetto connotativo di un’opera architettonica è ovvio: ad es. l’ambasciata americana a Londra di Saarinen oltre a «denotare» un
«importante edificio pubblico in stile vagamente neo-georgiano», connota altresì, per la presenza dell’aquila dorata, delle finestre metalliche, di certi altri particolari, la potenza e ricchezza degli Stati Uniti. (E, come è facile intendere tali connotazioni sono tanto positive – volute dall’architetto -‘ quanto negative, risultanti tali suo malgrado, ma non perciò meno « vere », autentiche).
Eppure, quasi sempre l’aspetto denotativo e connotativo dell’architettura si mescolano, e non è possibile e neppure conveniente cercare di distinguerli tra di loro, come è invece quasi sempre possibile fare nel caso del messaggio verbale. Per questo anche la proposta di Eco di distinguere una «funzione prima» (denotativa) e una «funzione seconda» (connotativa) che possono coesistere o che possono sopravvivere una all’altra a seconda dei casi, è accettabile solo fino a un certo punto.
In realtà, si può asserire, in linea di masisma, che certe funzioni «simboliche», soprattutto in architetture provenienti dal passato, sopravvivono anche quando sia andata perduta la conoscenza della effettiva funzione denotativa (o rispettivamente connotativa): ed è questa una delle ragioni per cui credo si possa effettivamente parlare a proposito di forme architettoniche di una loro capacità comunicativa trans-epocale; ossia d’una possibilità di essere decriptate non già in base a un codice che può essere anche andato del tutto perso, ma in base a un tipo di messaggio simbolico – o meglio segnico (giacché non è che esso si basi su una convenzione) – che riesce a superare i tempi, a essere anzi « fuori dal tempo » – eppure sincronico come accade per molte forme del rito, del mito, e delle espressioni simboliche e metaforiche dell’umanità.
Ho già avuto occasione di soffermarmi su questo punto sin dall’epoca del mio volume Le oscillazioni del gusto e credo che (anche applicando più sottili analisi linguistiche quali allora non avevo ancora tentato) – dovrebbe essere possibile accettare codesta ipotesi. Che le pietre di Stonehenge (o alcuni Dolmen, Nuraghi, Lingam, Churinga, ecc. e altre cosiffatte « pietre sacre ») siano da considerare come antiche cittadelle iniziatiche, come tombe di eroi, o – come abbiamo avuto occasione di leggere in un libro di Fantascienza – la base di lancio e di atterraggio d’una cosmonave; uno spazio-porto, dunque – non avrà molta importanza (salvo che per chi coltivi particolari interessi archeologici).
Avrà invece notevole importanza l’efficacia immensa (estetica, psicologica, storica, antropologica) che ancora hanno su di noi questi monumenti venerandi; per cui il fatto che la loro effettiva denotazione sia andata perduta, o che la connotazione odierna differisca da quella di ieri e dell’altro ieri non toglierà che ben poco al valore architettonico dell’edificio.
Un ultimo argomento che non può non essere toccato per chi voglia accennare ai principali quesiti d’una semiotica architettonica riguarda il problema della notazione della stessa attraverso il disegno, tanto disegno di progetto che disegno di rilievo, plastico, modello, e qualsiasi altro mezzo usato di solito per rendere visivamente il progetto d’un oggetto architettonico (e naturalmente anche d’un oggetto di disegno industriale).
Il fatto che l’architettura (come la musica, ma in maniera diversa) sia suscettibile di una comunicazione diretta(attraverso se stessa), e di una indiretta (attraverso la notazione, il disegno e in genere ogni altra resa simbolica dell’oggetto) conferisce immediatamente a questa arte un duplice tipo di semioticità.
Certo: il progetto come il modello, il grafico, il plastico, il disegno esecutivo, dell’oggetto industriale, e nel caso del disegno architettonico: lo schizzo, la proiezione ortogonale, l’alzato e la pianta ecc. non sono l’opera architettonica o di design in carne ed ossa ma ne sono un equivalente su cui si possono compiere quelle operazioni semiologiche che di solito si compiono sulla opera autentica.
(Nel caso della musica e lo dico per inciso – la lettura della partitura, pur informando in maniera anche molto precisa, e per certe musiche addirittura completa sul determinato brano, rimane una lettura non musicale (secondo l’opinione di numerosi musicisti e rnusicologhi, ad es. Stockhausen, Castaldi, ecc.) ossia una registrazione attraverso un sistema ben configurato di segni di alcuni oggetti sonori che, tuttavia, esistono solo in potenza nella notazione mentre la loro autentica fruizione (percezione estetica) si può avere soltanto attraverso l’organo dell’udito. Stockhausen, infatti, afferma che il tipo di «godimento» che gli viene offerto dal percorrere rapidamente una partitura, magari soltanto da un luogo all’altro della composizione, o invertendone l’ordine, è del tutto diversa da quello dell’ascolto dello stesso brano) 1.
Ho rammentato il caso della musica, perché nel caso dell’architettura ci troviamo in una situazione analoga: è bensì vero che un disegno esecutivo ci informerà attorno all’edificio o all’oggetto in questione in maniera quasi completa, ma con tutto ciò (a prescindere qui, s’intende, dall’eventuale ma, in questo caso del tutto superfluo, valore pittorico dello stesso) il progetto e il modello non ci potranno mai dare quella particolare qualità percettiva che ci consente il vedere, entrare, percorrere, abitare, un determinato edificio. Per cui andrà quasi totalmente perduto quella componente di relazioni spaziali tra uomo e mondo, tra uomo e ambiente interno ed esterno dell’edificio.
Potremo quindi asserire che il tipo di comunicazione e di informazione che ci viene trasmessa dal linguaggio architettonico (o – se vogliamo il tipo di semiosi contenuta nel messaggio architettonico) è strettamente legata alla nostra percezione stereometrica spaziale, o se vogliamo specificare meglio alla nostra sensibilità stereognosica (ivi compresa la baticstesica e quante altre forme di sensibilità profonda sono indispensabili per un’esatta fruizione dell’oggetto architettonico nel suo insieme).
Il messaggio architettonico, dunque, a differenza di quello verbale (che è disgiunto da ogni dimensione spaziale salvo nei casi limite della «poesia concreta»), a differenza del linguaggio visivo (pittorico) che è prevalentemente bidimensionale, di quello musicale che è prevalentemente temporale (salvo, anche qui, per il caso delle notazioni musicali con particolari effetti visivi), è un messaggio che si basa costantemente sopra una dimensione temporo-spaziale complessa e solo in questo senso deve essere considerato riconducibile ad un suo particolare «codice» di cui si possa analizzare la descriptazione.
Se, poi, vogliamo analizzare o sistematizzare ulteriormente il valore da conferire, da un punto di vista semiologico, al disegno di progetto architettonico, potremo ammettere che – (oltre alla solita distinzione fatta per alcune arti, e soprattutto per quelle della parola, in prima e seconda articolazione – nel caso di alcune arti, come appunto l’architettura, la musica, in parte la danza, esiste la possibilità d’una ulteriore distinzione semiologica: una analisi decisamente semiografica basata sugli elementi della notazione e della trascrizione simbolica di questi linguaggi (in certo senso analoga a quella di alcune scritture pittografiche primitive, ossia non ancora cristallizzate in ideogrammi che non presentino più alcuno o quasi riferimento iconologico) e una invece legata all’opera in sé, e alle sue parti costitutive note, accordi, ritmi per la musica; spazi, ritmi, volumi per l’architettura), le quali sono analizzabili secondo gli schemi linguistici che abbiamo cercato di precisare e non si possono comunque ricondurre agli schemi, propri esclusivamente, del linguaggio verbale.
tratto dal numero 16