Significanti e significati della Rotonda palladiana

RENATO DE FUSCO, MARIA LUISA SCALVINI
Gli studi di semiologia architettonica sono andati sin qui svolgendosi in un ambito esclusivamente teorico, e si sono risolti essenzialmente nella trasposizione al campo dell’architettura di concetti propri della linguistica. Com’è noto, questa costituisce il settore più evoluto della semiologia, la quale, intesa come scienza generale dei segni e della loro significazione, presenta sia una fondazione teorica generale, sia una sistematica, peculiare a ciascun campo di applicazione.

E, se in altri settori l’indagine vale anche se limitata all’ambito teorico, in quello architettonico invece, proprio le istanze che il corpus della disciplina impone, rendono indispensabile collegare gli assunti generali alla loro verifica applicativa. Questa esigenza, che finora è stata solo enunciata, si riflette nella presente rassegna in un primo tentativo di lettura semiologica di un’opera architettonica specifica.
All’inizio della nostra ricerca si è presentata l’alternativa della scelta, come oggetto dell’analisi applicativa, di una singola opera o di uno « stile». In entrambi i casi, infatti, si delineavano interessanti prospettive di ricerca.
L’analisi dell’opera presentava i vantaggi di una storicità più determinata, di una esperienza critica più consueta, e di una documentazione talvolta assai ricca anche in senso iconografico e iconologico. L’analisi di uno «stile», viceversa, si ricollegava più direttamente alla metodologia strutturalistica, con i vantaggi connessi alle invarianti sociologiche e tipologiche, e soprattutto con quelli derivanti dalla nozione di codice. Abbiamo scelto lo studio semiologico dell’opera, perché l’ipotesi teorica dalla quale siamo partiti – identificazione delle componenti del segno con il binomio spazio interno-esterno – trova in essa un riscontro più tangibile.
Nella gamma, evidentemente assai vasta, delle opere che per la loro rappresentatività si sarebbero prestate a costituire l’oggetto della nostra analisi, abbiamo preferito la Rotonda di Palladio, sia perché si tratta di un’opera paradigmatica in sé, sia perché, intendendo di dare un contributo alla moderna storia dell’arte e non alla
storia dell’arte moderna (la prima ingloba evidentemente la seconda), la celebre villa palladiana ci è parsa un caposaldo della storia dell’architettura, non più soggetto ai moti del gusto.
L’esigenza suddetta, di collegare intimamente assunti teorici e analisi applicativa, ci impone, prima di affrontare l’esegesi semiologica, di richiamare ed esplicitare la nostra ipotesi teorica di base, nella cui prospettiva si muoverà l’esame della Rotonda. Premesso che lo scopo di un’analisi semiologica è il porre l’accento sui valori semantici, cominciamo con il ricordare che, dalla maggior parte degli autori, il significato in architettura è stato visto in termini di funzione, in senso denotativo e connotativo.
Viceversa, riprendendo quanto altrove abbiamo già rilevato’, riteniamo che il problema del significato si debba risolvere attraverso l’incontro della tradizione puro-visibilista, e in particolare della teoria dell’architettura come conformazione spaziale, con gli assunti semiologici mutuati dalla linguistica strutturale. Pertanto, la nostra ipotesi di partenza è che il significato dell’architettura non vada ritrovato nella sua funzionalità, bensì nella sua spazialità.
L’idea di architettura come Raumgestaltung, ovvero arte dello spazio, e il suo corollario per cui la genesi dell’organismo tettonico è quella di un interno che, conformato in spirito di empatia con l’uomo, si proietta verso l’esterno, sono assunti elaborati dal pensiero critico tedesco, ed enunciati da Schmarsow in una elaborazione di principi-base in cui confluivano gli esiti dell’Einfühlung e della puro-visibilità. Se quindi il carattere peculiare dell’architettura è quello di essere formata da uno spazio tridimensionale cavo – assunto confermato dalla teoria di Zevi mutuata dalla poetica wrightiana, per cui lo spazio interno è il protagonista dell’architettura – possiamo considerare questo corrispondente al significato e l’esterno al significante.
Come è vero che in ogni edificio il contenuto equivale allo spazio interno e il contenente all’involucro che racchiude detto spazio, così appare legittimo dire – se si riconosce all’architettura anche una funzione comunicativa – che l’interno, espressivo della ragion d’essere prima della fabbrica, dello spazio in cui si vive, delle funzioni, delle intenzioni, del costume culturale, possa senz’altro paragonarsi al significato; mentre l’esterno, che involucra e conforma il vuoto interno, proprio per il suo intimo ed indissolubile legame con quest’ultimo si possa identificare col significante. Tali sono le componenti del segno architettonico.
Questa interpretazione semiologica dell’architettura conferma la tesi di Zevi (per cui tutto ciò che non ha spazio interno non è architettura, mentre lo spazio esterno ha natura urbanistica) e ne corregge i punti più incerti, quali ad esempio la esclusione dalla sfera dell’architettura del tempio greco, per essere questo in pratica privo di spazio interno. La conferma, in quanto riconosce lo spazio, o meglio lo spazio-segno, come il protagonista dell’architettura; afferma una dicotomia e non una antinomia; sostiene un’internità ed una esternità legate ad una unica struttura.
D’altra parte, la corregge o meglio le conferisce un nuovo senso, introducendo appunto il fattore relativo alla significazione. Infatti, identificato con il significato, l’interno architettonico perde la sua obbligatoria consistenza meramente materiale, non è più un vuoto necessariamente praticabile o abitabile. Il naos del tempio greco o le tombe delle piramidi ritornano così ad essere il significato, ossia il motivo primario per cui questi monumenti furono edificati, indipendentemente dal fatto che i loro spazi interni siano più o meno agibili.
Quanto al significato, ossia allo spazio esterno, esso involucra l’interno con le sue facciate e coperture, con tutte le sue peculiarità di plastica architettonica minore, di scultura, di decorazione, etc. e va quindi considerato come il solo, l’indissolubile conformatore di quell’interno, e al tempo stesso, come l’esplicito portatore di quel significato che racchiude.
Sviluppando l’ipotesi di partenza, poiché il protagonista dell’architettura è uno spazio tridimensionale cavo, ogni parte di una fabbrica che presenti detta cavità è un segno architettonico.
Cosicché un edificio può presentarsi come una struttura monosegnica, ovvero con un unico spazio interno, o come una struttura polisegnica; e in questo secondo caso (riferendoci ad una nota terminologia saussuriana) possiamo avere tra i vari spazi interni un rapporto di tipo associativo, allorché trovandosi all’interno di un ambiente è possibile intuirne la contiguità con altri allo stesso o a differenti livelli, venendosi così ad instaurare tra i vari spazi una associazione mentale; oppure un rapporto di tipo sintagmatico, allorché dall’interno di un ambiente si ha la percezione diretta di altri contigui.
La gran parte delle fabbriche è polisegnica e presenta tratti di tipo sintagmatico unitamente ad altri di tipo associativo. Si pensi a molte delle Prairie Houses di Wright, in cui al piano del soggiorno la fluenza e continuità degli spazi consentono una percezione diretta degli ambienti contigui, i cui nessi sono quindi di tipo sintagmatico; mentre al piano superiore la suddivisione in ambienti distinti consente solo, dall’interno di ciascuno, un legame di ordine mentale nei confronti degli altri contigui, avendosi di conseguenza solo dei nessi di tipo associativo.
Alla fenomenologia del significato, finora descritta, fa riscontro quella del significante; identificarlo con lo spazio esterno è necessario ma non sufficiente. Se assumiamo, in prima approssimazione, che l’involucro sia il significante, notiamo che esso si presenta come una entità a due facce, l’una esterna e l’altra interna. In una fabbrica monosegnica, il significante-involucro presenta una faccia interna, configurante il vuoto racchiuso, ed una esterna che, oltre a denotare la presenza sui prospetti dell’articolazione interna, dà luogo alle lacciate di quella fabbrica.
In un edificio polisegnico, ciascuno spazio interno viene delimitato da elementi parietali; ognuno dei quali vale da un lato come interno di uno spazio e dall’altro come esterno di quello stesso spazio e come interno di quello contiguo. Una serie di ambienti disposti verso il perimetro fa capo ad un involucro generale che, mentre ha una sola successione di facce esterne (ossia i prospetti), presenta invece tante facce interne quante sono le cellule spaziali che esso delimita.
D’altro canto, se la struttura della fabbrica è polisegnica, oltre all’involucro perimetrale troviamo spesso degli elementi murari che hanno solo funzione di separazione tra ambienti contigui, e che sono caratterizzati dall’avere due facce equivalenti, ossia entrambe solo interne, contrariamente al caso sopra indicato degli elementi che, pur anch’essi interposti tra ambienti interni, hanno la proprietà dialettica di valere come faccia interna per un ambiente e come faccia esterna per l’altro.
In ultima analisi, ciò che determina il valore di internità o di esternità dell’involucro-significante, al di là della nomenclatura, è proprio la sua caratteristica di significazione.
In altre parole, un setto divisorio può con una sua faccia delimitare un ambiente del tutto insignificante quanto a valore comunicativo, e con l’altra faccia, viceversa, configurare un ambiente fortemente significativo; donde la necessità di lasciar cadere la dizione di «involucro», a favore di una entità a due facce, conformante da un lato il significato e dall’altro il significante.
Conclusione che giustifica appieno l’interpretazione semiologica, valida oltre tutto a definire una complessità strutturale difficilmente specificabile nei termini di una spazialità asemantica. Infine, va osservato che, per quanto concerne la struttura perimetrale, essa costituisce sì, con la propria faccia esterna, il significante dello spazio interno, ma concorre altresì a determinare, con questa stessa faccia, un significato, un interno a scala diversa, ossia uno spazio urbanistico. Parlare di questa molteplicità di facce risulta anche giustificato dal tatto che nel percepire uno spazio noi proiettiamo sempre contro una superficie-limite l’immagine di quello spazio, comune esperienza confermata dalla prospettiva.
Dopo aver chiarito la nostra ipotesi di base, ossia il ruolo di protagonista che lo spazio interno ha nell’architettura, donde la sua identificazione col significato, e dopo aver delineato, sia pure sommariamente, la fenomenologia dei segno architettonico, è necessario, prima di tentare un’analisi applicativa, proporsi di verificare se esista, in campo architettonico, una articolazione di grado n analoga alla doppia articolazione riscontrata in linguistica da Martinet .
Notiamo per inciso che finora il problema non è stato sufficientemente approfondito; infatti, tendendo a dimostrare la natura semiologica e non linguistica dell’architettura, alcuni autori hanno ritenuto irrilevante la questione; e viceversa, non riscontrandosi immediatamente la presenza in architettura della doppia articolazione, si è avuto da parte di altri un elemento in più per negare la natura comunicativa dell’architettura stessa.
A nostro avviso la questione va posta in termini più generali, indagando sulla eventuale presenza nell’opera architettonica di una articolazione di un grado da determinare, i cui elementi possano, pur non avendo gli stessi caratteri dei fonemi e dei monemi, svolgere un ruolo analogo al loro, ossia costituire dei termini minimali e discreti.
In linguistica si parla di un’articolazione basata sui fonemi, ossia sulle nità minime del linguaggio, di numero modesto in ogni lingua e prive di valore semantico; accanto a questa esiste un’altra articolazione, basata sui monemi (grosso modo le parole), di notevole numero in ogni lingua e dotati di valore semantico.
In architettura possiamo parlare di una prima, più elementare articolazione che, nella rappresentazione, connette i segmenti rettilinei e curvilinei utili a progettare e comunicare tutti gli aspetti di una fabbrica, mentre nella realtà spaziale collega tutti quegli elementi che rimangono al livello tettonico, i quali, come i primi, sono in numero discreto, privi di significato architettonico, e aventi solo valore opposizionale. Una seconda articolazione può riscontrarsi al livello simbolico.
Ricordiamo per inciso che simbolo è (fatta salva evidentemente la sua specifica carica di ambiguità ) « qualcosa che sta per un’altra », mentre segno è l’unione di un significante e di un significato. Elementi di questa seconda articolazione possono considerarsi gli ordini architettonici (dei quali è nota la va lenza simbolica) e tutti quegli elementi che, pur avendo un valore semantico, sono privi di quella spazialità interna che abbiamo ipotizzato essere il vero significato dell’architettura.
Una terza articolazione è quella dei segni architettonici, che pur inglobando i precedenti fattori presentano la caratteristica di un valore semantico derivante dalla loro interna spazialità. Cosicché, per una semiologia architettonica, abbiamo non la doppia articolazione della linguistica, dove il monema (dotato di valore semantico) coincide con il segno; ma una tripla articolazione, basata rispettivamente sui segmenti, non significanti, sugli elementi, significanti in senso simbolico, e sui segni, realmente significanti in uno specifico senso architettonico, perché composti della dicotomia spazio interno-esterno. Su queste premesse teoriche affrontiamo l’analisi semiologica della Rotonda.
«Il sito è degli ameni, e dilettevoli che si possano ritrovare perché è sopra un monticello d’ascesa facilissima,  è da una parte bagnato dal Bacchiglione, fiume navigabile, e dall’altra è circondato da altri amenissimi colli, che rendono l’aspetto di un molto grande Theatro, e sono tutti coltivati,  abondanti di frutti eccellentissimi,  di buonissime viti: Onde perche gode da ogni parte di bellissime viste, delle quali alcune sono terminate, alcune più lontane,  altre che terminano con l’orizonte; vi sono state fatte le loggie in tutte quattro le faccie ».
Non c’è dubbio che il significato paesistico della Rotonda sia stato uno dei motivi ispiratori della sua conformazione. Parliamo di significato, giacché non si tratta in questo caso di una fabbrica felicemente ubicata e dal cui interno sia, nei modi usuali, visibile il paesaggio circostante; bensì di un edificio in cui la visibilità paesistica penetra dalle quattro direzioni nel nucleo spaziale più interno e semanticamente più ricco, conformandolo non in vista di una direzione privilegiata, ma di una « universalità » di prospettive, concorrendo quindi a determinare un parametro e una ragione d’essere della « rotonda » centrale.
Per quanto concerne la relazione della Villa Capra con l’ambiente circostante, ci dobbiamo richiamare a quanto in precedenza abbiamo detto sul valore urbanistico del significante: questo determina, con la sua faccia interna, il significato a scala architettonica, e contribuisce con la sua faccia esterna a conformare un altro interno-significato, quello a scala urbanistica. Ciò si verifica esplicitamente per i palazzi di città: si pensi agli edifici vicentini così legati alla configurazione urbanistica, in cui ogni esterno è l’interno di qualcosa, di una piazza per il palazzo Chiericati, di una strada stretta per il palazzo Valmarana.
Viceversa, per quanto attiene alle ville, e alla Capra in particolare, le facciate costituiscono un esterno in senso assoluto, perché delimitano i segni architettonici separando nettamente l’artificio costruttivo dall’ambiente di natura. Ma questo stesso artificio, che nelle altre ville ad andamento acropolico tende a mediare il legame della fabbrica al paesaggio secondo graduali successioni, legate anche alla plurifunzionalità delle parti, nella Rotonda è ridotto al minimo, quanto basta cioè per raccordare la villa all’altura su cui sorge. Questo carattere di esternità assoluta del significante, rafforza e giustifica il richiamo di Palladio alla morfologia del tempio.
Dalla lettura planimetrica del piano nobile della villa (evidentemente quello più significativo e al quale di volta in volta riferiremo gli altri livelli ed ambienti), da un punto di vista semiologico risulta evidente la qualità polisegnica mista degli spazi che lo compongono.
Questi si possono dividere in tre categorie: a) uno spazio interno fortemente segnato, quello della rotonda centrale; b) un gruppo di ambienti perimetrali, più debolmente segnati (il che beninteso non implica alcun giudizio di valore architettonico); c) quattro spazi fortemente segnati, di valore e posizione equivalenti sia l’uno rispetto all’altro che rispetto allo spazio centrale della rotonda; ossia i pronai, che peraltro mediano il passaggio fra l’interno della villa e l’esterno.
Ma prima di affrontare l’analisi di questi interni aventi ciascuno uno specifico significato, è da notare una caratteristica non prevedibile dall’esterno, quasi una deroga dal programma di assoluta centralità. La fabbrica, il cui impianto nasce dalla fusione di tre schemi (circolare, quadrato e a croce greca) presenta due diversi assi di simmetria, in quanto ai quattro angoli del corpo quadrato sono disposti degli ambienti rettangolari.
Questa deroga, dovuta certo anche all’esigenza della migliore utilizzazione degli spazi interni, alla necessità di disporre al piano nobile di quattro ambienti maggiori e quattro minori, ad una flessibilità quindi legata alla distribuzione ed all’uso, è ricca per noi anche di indicazioni semantiche.
E veniamo all’analisi delle tre categorie di ambienti conformanti l’edificio in esame, ossia la rotonda centrale, i quattro settori angolari, ognuno dei quali contiene una camera grande, una piccola e una scala, i quattro pronai. Nella rotonda centrale, come si è detto, abbiamo il luogo di convergenza delle quattro direttrici che mettono in comunicazione spazio esterno e spazio interno.
A conferma della mancanza di una direzione privilegiata, si noti che da tutti e quattro gli «anditi» che conducono al nucleo centrale (orientati a quarantacinque gradi rispetto ai punti cardinali) la luce penetra con uguali possibilità in tutte le direzioni, anche se evidentemente con intensità e gradazione diversa nel suo percorrere l’arco da oriente ad occidente. Questa condizione suggerisce due spontanee metafore: quella di un microcosmo intorno al quale ruota il sole, e quello della rotonda centrale come un occhio con possibilità di un arco visivo completo, di trecentosessanta gradi.
Va sottolineato come, ad avere tali rapporti con l’ambiente di natura, non sia lo spazio interno di un tempietto monoptero, ma il più intimo nucleo spaziale di una fabbrica avente una struttura polisegnica mista relativamente complessa. Infatti, sia le penetrazioni luminose sia le vedute aperte verso il paesaggio, non si attuano per una diretta contiguità dello spazio dei pronai e di quello centrale, bensì attraverso i quattro anditi.
Questi, con la loro profondità, rendono percettibile lo spessore interposto tra la faccia interna (la parete curva della rotonda) e quella esterna dell’involucro (il perimetro quadrangolare); questo spessore, virtuale perché legato alla presenza degli ambienti perimetrali di cui si è detto, può intendersi semiologicamente come uno spessore interamente murario.
Quanto alla cupola, è nota la divergenza tra la didascalia e i disegni nel testo palladiano (l’una che descrive una copertura a terrazza, gli altri che mostrano un piano attico coperto a tetto); divergenza che Pane interpreta come due soluzioni, l’una verbale l’altra grafica, lasciate dal Maestro a testimoniare della ideazione originaria e della successiva modificazione.
Ancora riguardante il problema del coronamento è la discussa questione dell’altezza della cupola, del suo completamento, e dell’intervento dello Scamozzi sul progetto palladiano; in proposito, secondo Pane «la cupola esistente è quella che Palladio eseguì e che Scamozzi non alterò, ma si limitò a coprire mediante un ben disposto cono di successivi anelli a raggiera, quasi una gradinata circolare di tegole».
Questa complessa questione filologica tocca il nostro discorso solo per ciò che riguarda le due facce del significante, ossia – poiché tali termini già esistono nella nomenclatura architettonica tradizionale – l’intradosso e l’estradosso della cupola. Considerata dal suo interno, la cupola a tutto sesto con l’oculo centrale è la logica conclusione del volume cilindrico della rotonda; considerata viceversa dall’esterno, la soluzione dello Scamozzi presenta un indubbio interesse semantico per il suo evidente alludere, sebbene con dimensioni ed impianto costruttivo diversi, alla copertura del Pantheon, edificio ritenuto fra i più rappresentativi del mondo classico, e noto comunemente nella tradizione popolare come «la Rotonda».
Il singolare rapporto che si instaura tra l’intradosso e l’estradosso della cupola della villa Capra dimostra e conferma quanto sopra accennavamo circa la complessità dei nessi tra le due facce del significante. Infatti, mentre quella interna configura uno spazio di impronta schiettamente classicistica, la faccia esterna invece, sia per il raccordo tra le falde dei tetti inclinate e il volume cilindrico del tamburo ridotto al minimo, sia per il suo digradare ad anelli, determina, nonostante il voluto richiamo erudito al Pantheon, un risultato semanticamente ambiguo, di pretto gusto manierista.
Le considerazioni finora svolte possono ritenersi pertinenti al significante della rotonda centrale. Occupiamoci ora del suo significato. A questo punto è d’obbligo la citazione del celebre passo dei Quattro Libri relativo alla forma circolare delle piante delle chiese, che possiamo considerare il più ricco di allusioni iconologiche dell’intero trattato. «I Tempij si fanno ritondi; quadrangulari; di sei, otto, e più cantoni, i quali tutti finiscano nella capacità di un cerchio… Ma le più belle, e più regolate forme, e dalle quali le altre ricevono le misure; sono la Ritonda,  la quadrangulare».
E dopo aver ricordato la nota corrispondenza simbolica dell’ubicazione, degli ordini e della forma planimetrica dei templi con le divinità pagane, Palladio prosegue: «E però ancora noi, che non habbiamo i Dei falsi, per servare il Decoro circa la forma de’ Tempij, eleggeremo le più perfetta,  più eccellente; e conciosiache la Ritonda sia tale, perché sola tra tutte le figure è semplice, uniforme, eguale, forte, e capace, faremo i Tempij ritondi; a’ quali si conviene massimamente questa figura, perché essendo essa da un solo termine rinchiusa, nel quale non si può ne principio, ne fine trovare, ne l’uno dall’altro distinguere;  havendo le sue parti simili tra di loro, e che tutte partecipano alla figura del tutto; e finalmente ritrovandosi in ogni sua parte l’estremo egualmente lontano dal mezo, è attissima a dimostrare la Unità, la infinita Essenza, la Uniformità,  la Giustizia di DIO… Devono anche essere i Tempij capacissimi, acciò che molta gente commodamente vi possa stare à i Divini officii; e tra le figure, che sono terminate da eguale circonferenza, niuna è più capace della Ritonda»
Come trasferire questa simbologia morfologica da un edificio sacro ad uno profano? Non a caso, si parla innanzitutto, per la Rotonda, di villa-tempio; e ciò non solo per l’aspetto esterno, quanto anche per una certa sacralità che l’edificio profano conserva nonostante la sua pratica destinazione. Tale sacralità va intesa in rapporto alla sua qualità di dimora dell’arte. Nella cultura rinascimentale, se gli dei pagani vengono dissacrati, non si perde tuttavia il carattere «culturale» della loro mitologia; specie per quanto attiene alle ninfe e soprattutto alle muse.
La nozione di musa cui pure Palladio accenna nello specificare i simboli architettonici che gli antichi facevano corrispondere a queste figure poetiche – a costituire l’elemento di tramite e di continuità, tra i parametri simbolico-referenziali del mondo antico e di quello rinascimentale. Come è stato giustamente notato, «la villa che il Palladio costruiva per un umanista era una specie di dimora dell’arte, fatta per essere abitata ma soprattutto per essere vissuta artisticamente. Nel suo centro quindi, nel suo cuore, doveva esserci il locale che ne era la ragione, il locale dell’arte, il locale delle muse, l’odeon, la ‘rotonda’» .
Per cogliere la portata di questa interpretazione del significato bisogna, a nostro avviso, notare in che cosa essa si differenzia dall’idea di funzione, che taluni autori, come si è detto, fanno coincidere con quella di significato. È indubbio che lo spazio della rotonda avesse una sua destinazione: luogo di riunione, ambiente per la musica, per recitazioni e dotte conversazioni umanistiche. Tuttavia, non è tale destinazione ad avere determinato la conformazione spaziale della rotonda (peraltro non priva di difetti da un punto di vista strettamente funzionale), bensì i simboli, i valori, le intenzioni legati al processo di trasposizione semantica che va dalla divinità pagana alla profanità rinascimentale attraverso il tramite dell’arte.
Nello spazio della rotonda anzi si condensa un massimo di significato con un minimo relativo di funzionalità pratica. Infatti, ad eccezione di questo ruolo semantico-spaziale, la rotonda non si presta ad alcuna pratica utilizzazione specifica connessa alla abitabilità della villa (o al limite non ne esclude quasi alcuna), e inoltre, tranne clic per le scale che danno accesso agli altri piani, tutto il resto dell’impianto distributivo è svincolato da questo suo nucleo centrale.
Passando all’analisi dei settori angolari, l’interpretazione semiologica, sopra accennata, di essi come quattro distinti elementi monolitici, è confermata dalla presenza delle quattro scalette (a pianta triangolare nel progetto originario), il cui lato curvo coincide con la parete della rotonda centrale, mentre i due rettilinei, essendo paralleli ed equivalenti rispetto ai lati del perimetro quadrangolare esterno, ne costituiscono una proiezione traslata in una figura simile. In altre parole, ai fini della significazione, i quattro settori angolari, per ciò che attiene al legame tra la rotonda e i pronai, potrebbero indifferentemente essere pieni, occupati da un unico grande ambiente triangolare curvo, o ancora articolati diversamente da come di fatto sono.
Se è vera questa ipotesi di lettura, risulta confermato che la rotonda è uno spazio fortemente segnato, così come, e per i motivi che vedremo, lo sono i pronai; mentre gli ambienti contenuti nei settori angolari sono più debolmente segnati. Anzitutto, rispetto all’articolazione rotonda-pronai, gli spazi interni degli ambienti perimetrali e delle scale risultano esterni e non visibili, così come da essi non è visibile lo spazio della rotonda centrale. Anche per ciò, ha scarsa rilevanza il fatto che essi contraddicano al programma della centralità (è infatti rispetto ad essi che si verifica la disuguaglianza dei due assi di simmetria).
Ancora, la loro indipendenza dalla articolazione rotonda-pronai è ribadita dal fatto che i quattro settori angolari sono tra loro intercomunicanti attraverso gli anditi e non attraverso la rotonda. Infine, il carattere di spazi debolmente segnati degli ambienti perimetrali è confermato dal loro significato in rapporto a quello complessivo della fabbrica e della rotonda in particolare.
Beninteso, parlare di spazi debolmente segnati per quanto concerne i settori angolari non implica né, come si è detto, un giudizio di valore architettonico, né in particolare l’affermazione che questi spazi siano scarsamente significativi. Al contrario, nel loro ruolo subordinato, gli ambienti dei settori angolari contribuiscono in maniera determinante alla struttura della intera fabbrica.
Se si accetta infatti la identificazione altrove proposta, tra la struttura e il concetto vitruviano di symmetria (non inteso come eguaglianza speculare rispetto ad un asse, ma come rapporto matematico fisso delle parti fra loro e fra le parti ed il tutto), risulta evidente che il ruolo di questi spazi non segnati, e di conseguenza il loro significato, sta nella proporzione, ossia nel fattore modulare di tale symmetria. Si noti che questa non va intesa in termini puramente gestaltici, perché, come osserva Wittkower, il Palladio, «erede di una lunga tradizione, considerava la symmetria una relazione significativa di numeri, corrispondente a quell’ordine cosmico che Pitagora e Platone avevano rivelato».
Diamo un cenno sui rapporti dimensionali che presenta lo schema del piano nobile, nel quale le proporzioni degli ambienti dei settori angolari hanno un posto determinante. Si noti che il diametro della rotonda centrale (trenta piedi) è uguale alla larghezza dei pronai; il lato del volume quadrato è doppio di tale misura; le stanze grandi hanno il lato minore (quindici piedi) uguale al maggiore delle piccole e il lato maggiore pari alla somma dei due lati delle piccole (quindici più undici piedi); e infine, che la somma dei due lati brevi degli ambienti piccoli e della larghezza dell’andito interposto, è pari alla larghezza del pronao e quindi al diametro della rotonda centrale.
Passando alla sezione, notiamo che l’altezza degli ambienti perimetrali maggiori è pari alla somma delle altezze degli ambienti minori e degli ammezzati ad essi sovrastanti, con ciò rispettando il principio di far corrispondere una maggiore altezza alle camere più vaste, e utilizzando il divario di altezza tra stanze piccole e grandi con l’interposizione di un piano ridotto.
Questa compensazione altimetrica degli spazi interni si conclude alla quota di imposta del frontone del pronao, con il ripristino della continuità planimetrica del piano attico, che nel suo aspetto distributivo attuale è frutto di una più recente sistemazione.
Mentre il piano nobile con i relativi ammezzati riflette quella proporzione tra dimensioni planimetriche e altezza che è al centro di tutta la composizione spaziale interna dell’architettura rinascimentale (ripresa da A. Loos col termine di Raumplan), il piano terreno, destinato ai servizi, pur riflettendo l’impianto planimetrico del piano nobile, contravviene a tale regola di proporzionamento presentando ambienti tutti della stessa altezza anche se differentemente voltati. E se questi ambienti del piano terra, per la loro funzionalità e per il loro carattere strutturale e rustico, risultano più congeniali al gusto attuale, vanno tuttavia riconosciuti come semanticamente meno ricchi rispetto al codice culturale dell’epoca, forse soprattutto proprio per la non rispondenza dell’andamento altimetrico a quello planimetrico.
Le precedenti considerazioni sul proporzionamento rimarrebbero tuttavia puramente descrittive se non le rapportassimo al valore semantico che ad esso veniva attribuito nella cultura rinascimentale. Nei Quattro Libri Palladio indica, oltre alle regole di proporzionamento planimetrico, tre modi per ricavare l’altezza degli ambienti rettangolari coperti a volta, che indica come primo, secondo e terzo, mentre agli stessi si riferisce, in un «frammento» definendoli rispettivamente aritmetico, geometrico ed armonico.
Ma al di là della concisione e del carattere pragmatico di tali precetti, che si presentano come degli invarianti lungo tutta la descrizione delle sue opere, appare evidente che essi fanno capo alla vasta problematica relativa alla concezione pitagorico-platonica della struttura matematica ed armonica dell’universo, e quindi alla necessità, per le arti, di riprodurre questa armonia universale.
La scoperta pitagorica della relazione tra la lunghezza di una corda e la sua vibrazione aveva infatti originato una intima connessione tra serie numeriche e armonie musicali, fondate le une e le altre su relazioni tra numeri piccoli ed interi. In particolare, l’aver trovato che la serie dei primi quattro numeri (1:2:3:4) conteneva tanto gli intervalli quando i due accordi compositivi noti ai greci, indusse a credere di aver scoperto la legge armonica universale. «Su ciò fu dunque di gran parte costruito il simbolismo e il misticismo numerico che ebbe un’influenza incommensurabile sul pensiero umano dei due millenni successivi.
Sulla scia dei Pitagorici, Platone nel Timeo spiegò che l’ordine e l’armonia cosmici sono interamente contenuti in alcuni numeri. Egli ritrovava quest’armonia nei quadrati e nei cubi del rapporto doppio e triplo, partendo dall’unità, ciò che lo condusse alla due progressioni geometriche 1, 2, 4, 8 e 1, 3, 9, 27. Rappresentata tradizionalmente nella forma di un lambda

1
2 3
4     9
8          27

l’armonia del mondo si esprime nella serie di sette numeri 1, 2, 3, 4, 8, 9, 27, che contiene in sé il ritmo segreto del macrocosmo e del microcosmo: poiché i rapporti fra questi numeri racchiudono non soltanto tutte le armonie musicali, ma anche la musica inaudibile dei cieli e la struttura dell’anima umana».

Assai pertinente alla simbologia architettonica è quanto Francesco Giorgi nel De Harmonia Mundi riporta della teoria pitagorico-platonica dei numeri: «secondo gli scritti di Pitagora si riteneva che in questi numeri e proporzioni fosse stata composta e resa perfetta la struttura dell’anima e del mondo intero. E dal dispari come dal maschile, e dal pari come dal femminile, da questi poteri uniti tutto è generato. Ma nel cubo dell’uno e dell’altro, essi dicevano, l’opera si compiva. Poiché nessuno può procedere al di là di una terza dimensione, né in lunghezza, né in altezza, né in profondità.

E perciò ogni potere di attività e di passività è contenuto in questi numeri e proporzioni, e tutte le armonie si raccolgono in essi». Nella cultura rinascimentale la concezione pitagorico-platonica dell’armonia universale costituisce, attraverso la base numerica comune alla matematica e ad alcune arti come l’architettura, il tramite fra il concetto del «vero necessario», che era proprio alla scienza ed all’intelletto, e quello del «vero contingente», proprio alla sfera delle arti.

Inoltre, a parte il simbolismo di alcuni numeri e di alcuni rapporti musicali, l’introduzione della struttura matematico-armonica, fornendo un preciso fondamento teorico, permetteva all’architettura di passare dal livello delle «arti meccaniche» a quello delle «arti liberali» (aritmetica, geometria, astronomia, musica).
Bastano queste poche note sul significato dei rapporti proporzionali – sui quali peraltro esiste una vasta letteratura – per dare un’idea di quante e quali questioni costituiscano il rinvio referenziale, la logica interna, e la latente intenzionalità dei concisi cenni sul proporzionamento forniti da Palladio.

Ed è probabile che la concisione del Maestro in proposito si debba al fatto che tali «significati» e rimandi erano pienamente acquisiti e codificati nella cerchia dei Barbaro e dei Trissino, e in genere nella cultura rinascimentale. Ma, dell’intera questione, l’aspetto di maggiore interesse in termini semiologici, ossia ai fini della assenta equivalenza tra spazio interno e significato, consiste in ciò che Palladio – come del resto prima di lui Leon Battista Alberti e Francesco di Giorgio – insistendo sul proporzionamento degli spazi interni, associa di fatto questi ai significati cui sopra abbiamo accennato.

In che senso dunque gli ambienti dei settori angolari possono definirsi debolmente segnati, se come abbiamo visto possono connettersi ad una tale somma di rinvii referenziali anche complessi? Anzitutto, per il loro ruolo evidentemente subordinato nel contesto di tutta la villa; in secondo luogo, perché i loro spazi interni-significati risultano, per il loro proporzionamento, rispondenti ad una norma permanente del codice architettonico mentre la rotonda centrale costituisce un segno emergente, una invenzione rispetto al codice; e infine, perché la loro più esplicita ed univoca valenza funzionale ne sminuisce l’accento nella scala della significazione.

Viene così ad essere confermata la corrispondenza dei massimi di valore e di ricchezza semantica ai minimi relativi di determinazione funzionale, e viceversa. Questa nostra tesi, per cui la funzione pratica, quando diviene determinante di una conformazione spaziale, ne riduce le valenze semantiche, porta ad una convergenza dell’analisi semiologica con quella critico-estetica.

Infatti, pur non essendo questo il caso della villa Capra, dove la qualità estetica di ciascun ambiente è fuori discussione, in generale possiamo affermare che il maggior grado di polisemia corrisponde al più alto risultato estetico, e reciprocamente, che il massimo di univocità semantica corrisponde al risultato esteticamente più scontato.

Viceversa, come si è detto, fortemente segnati sono gli spazi dei pronai. Questi, oltre a sviluppare il tema della villa-tempio, su cui si articola tutta la struttura dello spazio esterno-significante della Rotonda, si caratterizzano anche per una loro interna spazialità. La loro funzione mediatrice tra interno ed esterno è evidente, ed è posta in risalto dalla continuità muraria del basamento che accompagna l’ascesa della gradinata, e che consente sin dal primo gradino di conoscere il livello del pronao e del piano nobile.

Merita inoltre di essere sottolineata la peculiare internità dei pronai, dovuta anzitutto alla loro profondità, cui va idealmente aggiunta quella della proiezione planimetrica della scala (si noti che la pianta del pronao con la relativa scala forma un quadrato), e soprattutto alla chiusura laterale dei pronai stessi. Tale chiusura, com’è noto, è costituita da un setto murario in continuità con il perimetro quadrangolare della fabbrica, avente al centro una apertura ad arco.

Notiamo che una analoga soluzione si trova nel palazzo Chiericati e nella villa Piovene a Lonedo, mentre nella Malcontenta il colonnato del pronao si prolunga sui fianchi, conferendo in tal modo a questo spazio un carattere, se non di sovrapposizione architettonica, quanto meno di maggiore esternità.

E paragonato al pronao della Malcontenta, così tipologicamente classicistico, e direttamente mutuato dalla morfologia del tempio, quello della Rotonda, proprio per la sua soluzione laterale ad arco, si lega maggiormente al significato civile della fabbrica. Come osserva Wittkower, Palladio « fu il primo ad innestare coerentemente il fronte del tempio classico sul muro di una casa». Ancora, le chiusure laterali dei pronai, oltre a costituire elemento di continuità fra questi e la parete esterna delle stanze, rendono il fronte esastilo l’unica grande apertura della loggia.

Per quanto concerne i pronai, non è agevole fare un discorso distinto per il significato e per il significante con le relative facce, termini nei quali abbiamo analizzato la rotonda e i settori angolari. Anzitutto, come si è già osservato, i pronai costituiscono un elemento di mediazione, di filtro tra interno della villa ed esterno; in secondo luogo – pur riaffermando che le logge hanno una loro interna spazialità – se si eccettua la parete di fondo, per i setti laterali e per il colonnato antistante è legittimo parlare di una peculiare «equivalenza» delle facce interna ed esterna.

A ben riflettere, tanto il ruolo di mediazione giuocato dal pronao, quanto l’equivalenza tra le facce di alcuni elementi costitutivi di esso, presentano una gradualità e diversità di accenti nel procedere dall’interno verso l’esterno. Infatti, mentre la parete di fondo costituisce senz’altro una componente dello spazio interno del pronao, i setti laterali da un lato partecipano della internità del pronao stesso, e dall’altro ne delimitano una conformazione esterna che comprende il legame con il terreno; ed infine, il colonnato partecipa in misura equivalente, proprio per la forma circolare dei suoi elementi, sia dell’interno che dell’esterno.

A rendere più complessa l’analisi semiologica del pronao, interviene la presenza determinante di elementi codificati in un tradizionale ordine architettonico. Come abbiamo affermato nella introduzione teorica, il ruolo comunicativo degli ordini non si attua al livello del segno architettonico, ossia della terza articolazione (che comporta una spazialità interna), bensì ad un livello – paragonabile a quello dei fonemi – che è prevalentemente simbolico. Cosicché, il colonnato esastilo con il frontone che lo corona svolge sia il ruolo di involucro-significante dello spazio interno del pronao, sia quello che conferisce una valenza simbolica all’intera fabbrica.

Grazie a questa duplice natura segnica e simbolica, è legittimo parlare di significazione anche per questo elemento che partecipa del significante esterno e non del significato-spazio interno. Va notato qui per inciso che, com’è noto, l’ordine jonico ha tra le sue principali connotazioni simboliche la apollineità, il che conferma il carattere di «dimora delle muse» di questa villa-tempio.

Ma più interessante ci sembra qui, a conferma del ruolo della Rotonda nel processo di trasposizione della morfologia simbolica del tempio alla architettura civile, notare che tale trasposizione non ha affatto, in Palladio, intenti imitativi, bensì di «citazione», di allusione; e il suo valore puramente virtuale è confermato dal carattere talvolta eterodosso degli elementi costruttivi di questa e di altre opere, si pensi alle colonne realizzate in mattoni ricoperti di stucco. E legittimo pertanto asserire che il fine ultimo di tale trasposizione morfologica va ragionevolmente inteso in termini di significazione simbolica.

La nostra analisi potrebbe agevolmente spingersi oltre, ma in questa sede ci sembra più utile limitarla alle osservazioni svolte, proprio per rendere più incisivo e sintetico questo primo saggio di applicazione semiologica, e poter già individuare quegli aspetti riassuntivi che ci auguriamo utili al di là della lettura del monumento esaminato.

La nostra esperienza ci sembra abbia anzitutto dimostrato la possibilità, la legittimità e la utilità dell’interpretazione semiologica ai tini di una migliore «comprensione» storico-critica. In tal senso, una ricerca di semiologia applicata presenta delle analogie con quella che i metodologi della storia chiamano «spiegazione causale», la quale, in ultima istanza, si riduce ad approfondire l’indagine, a tener conto di più eventi, e quindi «a fare più storia». Al limite, quel significato che abbiamo definito come la «ragion d’essere» di una fabbrica, coincide appunto con la nozione di «causa».

In secondo luogo, ci sembra aver confermato la nostra ipotesi teorica di base, ossia l’assenta equivalenza tra le due dicotomie spazio interno-esterno e significato-significante, qualora si associ, nell’esame di una fabbrica, una lettura morfologica di tipo puro-visibilista con una ricognizione degli aspetti iconologici e intenzionali relativi alla cultura dell’epoca. Ancora, quanto ai livelli di significazione, ci sembra confermato dall’analisi svolta che sussiste una duplice valenza semantica, quella del segno e quella del simbolo, la prima inerente alla dicotomia spazio interno-esterno, la seconda inerente alla morfologia delle due facce del significante.

Si pensi infatti alla capacità di significazione dei pronai, clic mentre da un lato rappresentano la componente significante dello spazio che configurano, dall’altro costituiscono un significante che significa simbolicamente. Abbiamo inoltre notato che i valori semantici di un’opera non coincidono affatto con il suo grado di determinazione funzionale, e che anzi talvolta gli uni e l’altro sono tra loro in rapporto inverso. Un’ultima considerazione suggerita dalla nostra indagine è che, contrariamente a quanto si è fatto finora, l’analisi semiologica non può condursi per astratti tipi o elementi edilizi, ma va invece riferita ad opere o «stili» assunti nella loro concreta storicità.

tratto dal numero 16