Questioni di estetica empirica

VITALIANO CORBI
Ci domanderemo innanzitutto se davvero, come molti ritengono, teorie diverse di interpretazione dei fatti artistici siano sempre necessariamente tra di loro incompatibili, nel senso che la verità di una di esse escluda in ogni caso quella delle altre, o se piuttosto non si debba ammettere che un’ipotesi, per quanto generalizzata o ricondotta a un contesto teorico ampio e rigoroso, non può esaurire la totalità e la complessità del fenomeno artistico e che, per questo, almeno in via di principio, tra differenti proposte di interpretazione si possano stabilire rapporti non solo di reciproca esclusione ma anche di concordanza e di integrazione.

Del resto, mentre la varietà degli approcci che un’opera d’arte può tollerare è un fatto emergente sia storicamente che all’interno di una medesima situazione culturale, è abbastanza evidente che la convinzione dell’incompatibilità tra teorie estetiche differenti deriva soprattutto dal concepire l’estetica speculativamente, come filosofia dell’arte, partecipe, in quanto tale, di quella pretesa di compiutezza e di universalità tipica dei sistemi filosofici dei quali l’estetica, al pari dell’etica e della logica, ad esempio, costituirebbe un momento.
In tal caso, infatti, trattandosi di teorie il cui campo di riferimento e di applicazione non è delimitabile né empiricamente né operativamente (in rapporto, cioè, ai metodi e alle tecniche di indagine), poiché vuole identificarsi, quel campo, con la totalità assoluta ed incondizionata del fenomeno artistico, la loro reciproca incompatibilità, prima ancora d’essere constatata sul fatto, si dichiara come un caso di contraddizione logica.
Ma, se dal cielo delle filosofie speculative si discende sul più modesto terreno della conoscenza empirica, è lecito ammettere che ipotesi differenti possono illuminare momenti distinti del fenomeno artistico, ovvero descrivere un medesimo momento in modi differenti, per il fatto di servirsi di concetti e di tecniche diversi.
Sarà opportuno, a questo punto, precisare che, per quanto tra i vari tipi di rapporti in cui possono venire a trovarsi due ipotesi sull’arte debba essere incluso anche quello della complementarità (qualora il fenomeno
artistico sia alternativamente interpretabile in base a due ipotesi opposte), non si vuole qui in alcun modo proporre una generalizzazione metodologica del «principio di complementarità».
Infatti, questo principio, almeno nella formulazione datane da V. Tonini, stabilisce che «è indispensabile per la descrizione degli eventi fisici l’impiego simultaneo di due modelli teorici «complementari» (corpuscolare e ondulatorio, macroscopico e microscopico, determinista e indeterminista) nel senso che si devono porre dei limiti all’impiego dei concetti di ciascun modello e questi limiti devono essere tratti dal modello complementare: il punto di “convergenza” dei due modelli è dato dalla osservazione di un evento reale»; il concetto di compatibilità di cui invece ci siamo serviti noi, estremamente più comprensivo e generico, richiede solo che nella formulazione di due ipotesi sia rispettata la condizione formale di non-contraddittorietà e rinvia per ogni questione di fatto (che riguardi, cioè, la effettiva compatibilità delle ipotesi che si vogliono considerare) alle normali procedure di controllo delle conoscenze empiriche.
Ad esempio, un’adeguata interpretazione semiotica non contrasterà necessariamente con il riconoscimento del momento percettivo dell’arte, quando il conflitto di competenze tra le due ipotesi possa essere evitato, riferendole a due momenti distinguibili del fenomeno artistico. In tal caso anzi non essendovi alternativa, sarà possibile procedere a una riformulazione unificata delle due ipotesi.
E il risultato sarà qualcosa di molto diverso dalla semplice riduzione di un’ipotesi all’altra: che è invece la strada quasi sempre seguita dagli studiosi di estetica; i quali, una volta che abbiano abbracciata una posizione, anche quando sia stata constatata l’impossibilità di spiegare adeguatamente alcuni caratteri rilevanti dell’arte entro lo schema inizialmente proposto, cercano, per una sorta di male intesa coerenza, di tener fermo questo, introducendo surrettiziamente significati ed usi sempre più larghi dei termini adoperati.
Qualora si parta dalla ipotesi che l’arte sia linguaggio e se ne voglia controllare la validità ricercando nelle opere d’arte ogni genere di procedimento linguistico, l’aspetto residuo, per così dire, quello che un’analisi siffatta non avrà potuto investire, costituisce, appunto, il momento percettivo o, per adoperare un’espressione equivalente, fenomenicità irriducibile dell’arte.
Si potrà osservare che, come il linguaggio possiede, anch’esso, una sua concretezza sensibile, una sua struttura percettiva (che non è costituita soltanto della materialità dei singoli «veicoli segnici», bensì anche dei rapporti di prima e dopo, di destra e sinistra, ad esempio, che tra questi si stabiliscono), così la percezione non può essere intesa come mera e irrelata immediatezza, e riportata al vecchio concetto di sensazione atomistica: la percezione ha una sua dimensione, un suo spessore spaziale e temporale, ma soprattutto appare dotata d’una struttura intenzionale, per la quale essa è vissuta non come il luogo di una neutra oggettività ma come forma o campo variamente organizzato e fornito di senso.
Ciò vuol dire che non c’è frattura ma continuità tra il momento percettivo e quello linguistico dell’arte. Del resto a rendere più evidente questa continuità c’è il fatto che il contesto nel quale sono inseriti gli elementi propriamente linguistici è il risultato di varie operazioni, che vanno dal semplice «prelievo d’oggetto» alle più complesse strutturazioni e manipolazioni percettive.
Bisogna, infatti, notare che proprio nel caso dell’arte, anche negli esempi offerti da quella cosiddetta «oggettuale», il momento percettivo meno che mai può essere considerato indipendentemente dall’attività del soggetto; vogliamo dire, cioè, che la configurazione di un campo percettivo non deve essere immaginata a simiglianza delle strutture fisiche.
Senza avere ora minimamente la pretesa di avanzare una teoria generale della percezione, possiamo dire che vi sono molte ragioni per sostenere che in un’opera d’arte il momento percettivo non può essere ristretto a mera «presenzialità»; infatti, già la presenza di forme organizzatrici dell’attività sensorio-motoria, in funzione di schemi riassuntivi o anticipatori dell’esperienza rivela la struttura intenzionale della percezione, e la possibilità di un’assunzione simbolica, di rappresentazione di quelle forme nel momento stesso in cui l’artista non le registra passivamente, ma le isola, le innova, le tematizza.
Una questione nella quale è facile rendersi conto della profonda continuità con cui in un’opera d’arte si attua il passaggio dal livello percettivo a quello simbolico e propriamente linguistico è quella della «spazialità prospettica» per la quale spesso si propone oggi un’interpretazione esclusivamente simbolica (sulla scorta forse di una unilaterale lettura del Panofsky), trascurando il carattere fenomenico, che per quanto non riconducibile al tradizionale concetto di mimesi, appare tuttavia ineliminabile.
La prospettiva, quando non sia identificata per comodità polemica con un particolare «sistema», ma sia indagata nelle sue manifestazioni concrete e più recenti, non si presenta infatti altrimenti che come un possibile schema d’organizzazione percettiva, e più generalmente come una strutturazione intenzionale del campo fenomenico.
Ma sul carattere fenomenico, appunto, della prospettiva vogliamo citare alcune acute osservazioni di Renato Barilli: «se infatti taluni andamenti e nessi prospettici si riaffacciano così di frequente nel lavoro di molti giovani artisti, ciò avviene per consentire alle cose di essere più compiutamente «fenomeni», per agevolarne cioè il loro manifestarsi nella concretezza di una situazione, di un esserci, cioè di una presenza radicalmente diversa da quella «in idea», e quindi impalpabile, non situata, che competerebbe all’essenze di tipo platonico.
La più forte e violenta bestemmia che sia stata pronunciata nei nostri tempi è molto probabilmente quella che viene da un filosofo, da Husserl, allorché egli asserisce che neppure Dio potrebbe riuscire a contemplare e ad abbracciare un cubo tutto in una volta, affrancandosi dall’obbligo di passare attraverso la visione successiva delle sue varie facce».
Livello linguistico e livello percettivo, anche se sempre distinguibili, non si riproducono nell’opera d’arte, dunque, come polarità antitetiche, ma il primo si presenta quasi come la naturale conclusione della organizzazione intenzionale del campo percettivo da cui emerge.
Al di là delle difficoltà del concetto morrissiano di segno iconico, la saldatura tra segno e percezione, tra linguaggio e immagine, in arte, deve essere ricercata nella direzione della loro contestualità organica; la quale, si badi, non è tautologica coincidenza tra segno e percezione e neppure mette capo al monstrum del segno autosignificante; essa va intesa piuttosto nel senso di un reciproco condizionamento, ché mentre la presenza degli elementi linguistici interviene nella configurazione del campo percettivo, arricchendone la struttura fenomenica (aggiungendo alle relazioni di spazio e di tempo esistenziali, esibite in presenza, per così dire, uno spazio ed un tempo ideali, richiamati, cioè, per via di rappresentazione) dall’altra parte il campo percettivo interferisce nell’insieme degli elementi linguistici e ne condiziona variamente il significato.
È possibile, allora, costruire una teoria dell’arte la quale, senza pretendere di attingere le vette di un assoluto sapere, colleghi organicamente quelle ipotesi parziali di cui sia stato accertato un certo grado di validità? Certo oggi un’estetica empirica unificata è solo una possibilità o, se si preferisce, un’esigenza, fornita, però, di una sua portata metodologica e di qualche apprezzabile conseguenza, potendo essa stimolare e orientare la riflessione sull’arte.
Inoltre, come abbiamo già prima accennato, quando di due o più ipotesi sia stata accertata la fondatezza e se ne siano chiariti i rispettivi campi di riferimento, non c’è ragione perché non si debba procedere alla formulazione di una nuova e più comprensiva ipotesi.
Ammessa, dunque, la compatibilità di ipotesi differenti, in virtù del riconoscimento della complessità costitutiva del fenomeno artistico, ci si può domandare ancora se nel prevalere dell’uno o dell’altro tipo di approccio all’arte e, particolarmente, nel promuoverne la legittimità in sede teoretica si possa scorgere anche una manifestazione di volontà, ovvero il risultato di una scelta culturale e latamente politica.
Ed effettivamente si può dire che se oggi prevalgono le ipotesi semiotiche e linguistiche nell’interpretazione dell’arte è anche perché dell’arte ci interessa, più degli altri, appunto il momento linguistico, e, si potrebbe addirittura aggiungere, perché si vuole un’arte-linguaggio.
Con questo non intendiamo affatto parificare tutte le ipotesi sull’arte, attribuendo loro una mera strumentalità pragmatica, o ricondurre il loro valore di verità all’accertamento delle motivazioni sociologiche, o d’altro genere, che vi stanno alla base. Solo che ci parrebbe oltremodo ingenuo supporre che le ragioni per le quali il pensiero e le indagini estetiche si dirigono su un aspetto dell’arte piuttosto che su un altro si debbano ricercare esclusivamente in un ambito teoretico e «scientifico».
Ma in che modo la tesi da noi sostenuta non ripropone un «relativismo» vicino a quello di C. B. Heyl? Certo vi sono alcuni punti nell’opera dello Heyl sui quali molti oggi, anche in Italia, possono convenire facilmente specialmente su quella che egli chiama la «rilevanza dei criteri» e che esprime una esigenza largamente penetrata nella cultura contemporanea per merito soprattutto delle correnti neopositivistiche.
Ma se il rendere espliciti i presupposti di ogni ordine che entrano nel discorso sull’arte conferisce a questo rigore e chiarezza, eliminando molti falsi problemi e rilevando la natura puramente verbale di altri, non pare che ciò possa sostituire interamente il concetto di verità, che se può essere legittimamente liberato da ogni pretesa di assolutezza, non può essere privato del riferimento ad una realtà esterna al discorso linguistico.
Del resto lo stesso Heyl introduce un criterio che va oltre l’analisi linguistica quando afferma che «esistono importanti differenze tra le esperienze estetiche a causa di costituzioni psicologiche differenti nelle qualità innate, o che il relativista comprende che le sue convinzioni non possono né dovrebbero avere una validità generale, ma che esse valgono soltanto per coloro che sono simili a lui in certi modi fondamentali».
Ma portando coerentemente avanti questa posizione che fa dipendere la varietà delle concezioni estetiche e delle esperienze artistiche dal «temperamento dell’individuo» si arriverebbe a null’altro che ad una classificazione delle teorie in base ai diversi tipi psicologici; e, in vero, lo stesso Heyl definisce spesso la propria posizione come «relativismo psicologico».
Al contrario le nostre precedenti considerazioni vogliono collocarsi sullo sfondo di un realismo problematico, consapevole, cioè, della sua natura ipotetica e delle difficoltà ed aporie che gli sono connesse.
Se volessimo tentare di precisare il senso di questa consapevolezza potremmo largamente rifarci all’opera di B. Russell; sarà, tuttavia, sufficiente riportare come indicazione un passo di un suo scritto del 1950, nel quale egli riassume con grande chiarezza le ragioni del suo dissenso dai positivisti logici sulla questione della conoscenza empirica. «Chiaro e generalmente ammesso è: 1) che l’illazione scientifica, in quanto contrapposta all’illazione deduttiva, può portare a una conclusione soltanto probabile; 2) che non può portare neppure a una conclusione probabile, se non presupponendo un postulato o più postulati per i quali non vi sia, né possa esservi, alcuna prova empirica.
È una constatazione assai sgradevole per un empirista, ma sembra assolutamente inevitabile. Onde la conclusione che un empirismo intransigente è insostenibile. Da un numero finito di osservazioni non si può giungere, per illazione, a un enunciato generale che sia appena probabile, a meno di postulare qualche principio generale riguardante le illazioni che non può essere stabilito empiricamente… Quanto a me, suppongo che, in linea generale, la scienza sia nel vero e possa giungere per via d’analisi ai necessari postulati.
Ma agli scettici integrali non sono in grado di contrapporre alcun argomento, se non questo: che non li credo sinceri». Se ciò è vero, dobbiamo aggiungere, per quel che ci riguarda, che il rifiuto delle estetiche speculative e il conseguente tentativo di costruire empiricamente una teoria dell’arte non possono accompagnarsi alla illusione di una rinnovata e inattaccabile certezza che si sostituisca, con pari dignità o presunzione d’assoluto, a certe decadute verità filosofiche.
La conoscenza empirica, fattuale, rivela ad un attento e spregiudicato esame più di un punto di difficile comprensione, e se ciò non ci autorizza a rinnovare i vecchi sogni metafisici, deve almeno valere come invito a evitare quegli atteggiamenti di incauto ottimismo estranei proprio allo spirito della ricerca scientifica, dalla quale essi tuttavia traggono spesso pretesto.
Di fronte alle difficoltà che tanto frequentemente insorgono nel campo dell’estetica e della critica d’arte, investendo i presupposti, i metodi e le finalità stesse di queste discipline, si può essere sollecitati a ricercare una soluzione radicale in una loro completa e immediata scientifizzazione, attuata trasferendo di colpo in esse i procedimenti logico-linguistici e i metodi di indagine delle scienze. E infatti quanto più si accresce la consapevolezza della precarietà e della incertezza che caratterizzano la riflessione sull’arte, tanto più è inevitabile che si guardi al mondo della scienza come al luogo felice della certezza e del rigore.
Né, d’altra parte, il riconoscimento di una condizione intimamente problematica comune alla intera area del sapere umano può togliere valore alla constatazione che mentre la problematicità della scienza è quella stessa di ogni procedimento di ricerca e si risolve perciò nella riaffermazione della sua natura ipotetica ed euristica, l’estetica si trova di fronte ad alcune aporie che toccano la legittimità della sua esistenza, non solo in sede teoretica, di analisi delle sue basi concettuali, ma anche in rapporto alla validità, e diremmo quasi alla utilizzabilità, dei suoi risultati particolari.
Che si tratti di due forme sostanzialmente diverse di problematicità, non riassumibili sotto un unico e generico concetto di «crisi», conseguente alla rinuncia, propria della cultura contemporanea, al possesso di «verità» assolute e definitive, è dimostrato dal fatto che la consapevolezza della «non-scientificità» delle indagini e del discorso sull’arte, nel senso più elementare di un notevole margine di arbitrarietà che neppure le astuzie postume della dialettica riescono a smascherare, è paradossalmente testimoniata proprio dalla costante aspirazione a conferire rigore e certezza alla riflessione sull’arte, modellandola sui metodi e le tecniche di altre discipline.
Ma non crediamo che la metodologia scientifica possa essere considerata come un miracoloso toccasana dei problemi dell’estetica, anche se essa può svolgere una importante funzione di stimolo e di orientamento. Innanzi tutto bisogna osservare che un discorso generalizzato sui metodi delle scienze coinvolge di necessità problemi che vanno oltre le singole scienze e l’idea stessa di un metodo scientifico unico — verso la quale anche noi, per quello che valgono le nostre opinioni al riguardo, siamo orientati — appare alquanto controversa.
Qualora si restituisca la metodologia alla dimensione problematica che le compete nell’ambito del pensiero contemporaneo, e si dimetta una fiducia eccessiva ed ingenua nelle sue presunte virtù taumaturgiche, sarà possibile valutare più giustamente il contributo che dalla riflessione metodologica, appunto, può venire all’estetica e alla critica d’arte.
Per ora, e concludendo queste brevi note, diremo che è opportuno prima di ogni altra cosa, mettere da parte l’idea che debba essere la metodologia ad introdurre nella critica e nell’estetica metodi e tecniche di indagine, quasi che il discorso sull’arte sia stato sinora niente altro che un insensato e inconcludente vaniloquio.
Una discussione sui metodi di queste discipline deve ragionevolmente partire dalla ricognizione e dall’esame dei procedimenti effettivamente adoperati, non limitandosi, cioè, a prendere atto della sola trattazione esplicita delle questioni metodologiche, che eventualmente accompagni la critica o l’estetica, ma ricercando criteri e metodi operativi nel vivo delle ricerche sull’arte.
tratto dal numero 12