Note per una semiologia figurativa

DE FUSCO-PALMIERI-PASCA
La diffusa esigenza d’un metodo per lo studio delle esperienze figurative intese come linguaggi viene qui proposta quale estensione ai settori della linguistica strutturale. Tale estensione non va considerata come un meccanico parallelo fra due diverse categorie di fenomeni, ma come tentativo di adottare un modello metodologico. Limiteremo il nostro esame ad alcuni campi dell’arte: architettura, urbanistica, arti visive, design e determinati aspetti dei mass media, intesi non come espressioni artistiche, ma nella lor dimensione culturale; e ciò perché riteniamo che la problematica estetica esorbiti da un primo approccio semiologico-figurativo.

Per linguistica strutturale, dice Hjelmslev, s’intende un insieme di ricerche basate su un’ipotesi secondo cui è scientificamente legittimo descrivere il linguaggio come una entità essenzialmente autonoma di dipendenze interne, o, in una parola: una struttura… L’analisi di questa entità permette di enucleare costantemente delle parti che si condizionano reciprocamente, di cui ciascuna dipende da certe altre e non sarebbe concepibile né definibile senza di queste. Essa riduce il suo oggetto a una rete di dipendenze, considerando i fatti linguistici uno in ragione dell’altro.
La semiologia veniva definita da Saussure come una scienza che studia la vita dei segni in seno alla vita sociale; essa formerebbe una parte della psicologia sociale, e per conseguenza della psicologia generale; noi la chiameremmo semiologia (dal greco semeion, «segno»). «Essa ci insegnerebbe in che cosa consistono i segni, quali leggi li reggono… La linguistica non è che una parte di questa scienza generale.
Le leggi che scoprirà la semiologia saranno applicabili alla linguistica e questa si troverà così collegata ad un campo ben definito nell’insieme dei fatti umani. Tuttavia, per quanto de Saussure consideri la linguistica solo una parte della semiologia, rapporteremo, come s’è detto, i nostri segni figurativi alla linguistica che, come il sistema più evoluto, rimane l’insuperato riferimento per ogni altra ricerca semiologica. […]
La prima nozione semiologica è quella di
segno. Per Saussure esso viene definito come l’unione di un significante e di un significato inseparabili come le due facce d’un foglio di carta. Tale definizione vale soprattutto a superare l’accezione corrente per cui il segno «sta per» o «rappresenta» una cosa diversa da se stesso, ossia che vale solo come significante. La natura specifica del segno linguistico è di essere arbitrario, ossia di non presentare analogia tra le sue componenti, il significante e il significato.
La parola arbitrario richiede ancora una precisazione. Non si deve dare l’idea che il significante dipenda dalla libera scelta del soggetto parlante…; vogliamo dire che esso è immotivato, vale a dire arbitrario in rapporto al significato con il quale esso non ha alcun legame naturale nella realtà. Viceversa per i segni figurativi si ha generalmente un rapporto analogico.
Dice Barthes i significanti sono degli analoga riferendosi al caso delle immagini e altrove nella pittura (figurativa) c’è analogia fra gli elementi del segno (significante e significato). Con specifico riferimento all’arte, Lévi-Strauss afferma che la caratteristica del suo linguaggio risiede nel fatto che esiste sempre una omologia molto profonda fra la struttura del significato e la struttura del significante.
Molti sistemi semiologici, specie quelli visivi, presentano una caratteristica diversa dal segno linguistico dovuta alla loro funzionalità. Essi sono costituiti da oggetti d’uso, smistati dalla società a fini di significazione: il vestito serve per proteggersi, il cibo per nutrissi, quantunque servano anche a significare. Proporremo di chiamare questi segni semiologici di origine utilitaria e funzionale, funzioni-segno .
La nozione di funzione-segno risulta assai utile per tutti quei processi dall’architettura ad alcune correnti figurative e al design che, pur assolvendo ad un ruolo utilitario, costituiscono anche dei sistemi di significazione (intesa come il processo che lega significanti e significati, connessi alla materia e alla funzione degli oggetti). Grazie alla funzione-segno è possibile recuperare anche per questi settori prettamente utilitari un valore semantico generalmente attribuito al solo linguaggio articolato.
Infatti come scrive Barthes: la funzione si compenetra di senso; questa semantizzazione è fatale: per il solo fatto che c’è società ogni uso è convertito in segno di questo uso… Questa semantizzazione degli usi è capitale: essa rivela infatti che non c’è nulla di reale che non sia intelligibile.
Cosicché il problema, legittimo in sede estetica, sulla semanticità o meno, delle arti non ha molto senso in campo semiologico dove queste vanno considerate come equivalenti del linguaggio, ossia come sistemi di significazione che, pur avendo una loro peculiarità, hanno come linguaggi una semanticità e un codice che ne assicura il carattere comunicativo e la possibilità di analisi.
Se vogliamo capire quello che è l’arte, la religione, il diritto, forse anche la cucina e le regole della buona educazione, bisogna concepire tutto ciò come altrettanti codici formati mediante l’articolazione di segni sul modello della comunicazione linguistica.
Un’altra caratteristica del segno visivo è data dalla sua maggiore immediatezza rispetto al segno linguistico, dovuto alla simultaneità con la quale viene percepito.
Come scrive Saussure contrariamente ai significanti visivi (segnali marittimi ecc.) che possono offrire delle complicazioni simultanee su più dimensioni, i significanti acustici non si dispongono che secondo la linea del tempo; i loro elementi si presentano l’uno dopo l’altro; essi formano una catena.
Tale differenza vale, però, per segni visivi elementari come quelli offerti dalle esperienze gestaltiche; appena il segno visivo raggiunge un certo grado di complessità, pur conservando la proprietà d’essere percepito in maniera simultanea e globale, la sua lettura propriamente significativa necessita, analogamente alla lingua, di un particolare verso e di una dimensione temporale che peraltro è una delle caratteristiche predominanti nell’esperienza dell’arte moderna.
Si pensi alla continuità spazio-temporale cubista, neo-plastica, futurista, cinetica e al verso di lettura imposto da molti organismi architettonici. Negli infiniti, complessi rapporti di sequenze visive che la città offre ai suoi abitanti – scrive Kepes – i significati sono trasmessi secondo l’itinerario sequenziale che noi seguiamo».
I rapporti tra i segni linguistici si realizzano su due piani fondamentali quello del sintagma e quello associativo o del paradigma. Nel discorso le parole contraggono tra loro, in virtù del loro legame, dei rapporti fondati sul carattere lineare della lingua, che esclude la possibilità di pronunciare due elementi alla volta… Queste combinazioni che hanno per supporto l’estensione possono essere chiamate sintagmi.
Il piano associativo è dato dall’insieme delle parole stabilito non nel contesto lineare del discorso, ma in un atto mentale del soggetto. Saussure continua: nel discorso le parole che presentano qualcosa di comune si associano nella memoria, e si formano così dei gruppi all’interno dei quali esistono rapporti molto diversi… Esse (le parole) non hanno per supporto l’estensione; la loro sede è nel cervello; fanno parte di quel tesoro interiore che costituisce la lingua in ciascun individuo. Le chiameremo rapporti associativi.
Il rapporto sintagmatico è in praesentia; esso si basa su due o più termini egualmente presenti in una serie effettiva. Al contrario il rapporto associativo unisce dei termini in absentia in una serie mnemonica virtuale.
L’attività analitica che si applica al sintagma – dice Barthes – è la scomposizione; in una semiologia figurativa un esempio di insieme sintagmatico potrebbe trovarsi nella pittura tonale dove ogni elemento esplica un ruolo coloristico condizionato dall’intonazione generale; oppure in composizioni basate sul rapporto fra colori complementari, sull’equilibrio statico o dinamico delle parti; in oggetti plastico-cinetici dove ogni elemento subisce ed è causa, linearmente, del dinamismo generale; infine in architettura i sintagmi possono trovarsi, evidentemente, in ogni elemento costitutivo della struttura architettonica.
Tant’è vero che Saussure afferma: «un’unità linguistica è paragonabile ad una parte determinata d’un edificio, per esempio una colonna; questa si trova da una parte in un certo rapporto con l’architrave che essa sostiene; questa disposizione di due unità ugualmente presenti nello spazio fa pensare al rapporto sintagmatico; d’altra parte, se questa colonna è di ordine dorico, essa evoca il confronto mentale con gli altri ordini (ionico, corinzio, ecc.) che sono elementi presenti nello spazio: il rapporto è associativo. L’attività analitica riguardante l’associazione è la classificazione.
Relativamente al nostro campo semiologico la più immediata relazione associativa è quella che si stabilisce fra ciascuna opera e un determinato stile, o un determinato insieme tipologico.
Il rapporto sintagma-paradigma ha un precedente nell’altro fra langue e parole. La langue, dice Saussure, è un sistema di cui tutti i termini sono solidali e in cui il valore dell’uno non risulta che dalla presenza simultanea degli altri.
Essa è la parte sociale del linguaggio, esterna all’individuo, che da solo non può ne crearla né modificarla; non esiste che in virtù d’una sorta di contratto stipulato dai membri della comunità. La parole è al contrario un atto individuale di volontà e d’intelligenza, nel quale conviene distinguere: 1) le combinazioni attraverso le quali il soggetto parlante utilizza il codice della langue al fine d’esprimere il suo pensiero personale; 2) il meccanismo psico-fisico che gli permette di esteriorizzare queste combinazioni.
Il fatto che la lingua sia una istituzione sociale esterna all’individuo comporta che il segno linguistico, se da un lato è arbitrario per l’assenza d’un rapporto naturale-oggettivo fra il significante e il significato, dall’altro non lo è del tutto per l’individuo che lo usa, esercitando su di lui la coercizione derivante dalla sua natura pre-individuale. (Perciò, come si è detto, de Saussure specifica l’arbitrarietà del seguo come immotivazione).
Ciononostante, le innovazioni linguistiche nascono proprio dalla pratica della parola; è questa in definitiva ad assicurare il dinamismo della lingua e a rompere la sua rigidità anche se le modificazioni non sono immediate, né sempre percepibili. Tuttavia se questa dialettica vale in campo linguistico, non si verifica in altri settori semiologici dove si osserva invece la prevalenza dei fatti di lingua su quelli di parola. Si pensi ai procedimenti tettonici tanto radicati nelle tradizioni e nelle possibilità tecnologiche che i modelli non sono suscettibili di esecuzioni differenziate e ai sistemi di produzione di massa dove l’elemento parola è o sembra essere del tutto scomparso.
In questi settori semiologici il carattere distintivo è dato dalla loro maggiore arbitrarietà; essi infatti non sono concordati dalla «massa parlante» ma fanno capo, unilateralmente, a più ristretti gruppi di decisione. Se nel linguaggio articolato l’attività combinatoria della parola precede cronologicamente la lingua, questi sistemi nati da un atto decisionale presentano un fenomeno inverso. La lingua, precedendo la parola, ne limita anche le virtualità combinatorie: l’atto di parola, come scarto nell’esecuzione del modello, è povero se non inesistente.
Ciò dovrebbe comportare la maggiore staticità del sistema, se è vero che la lingua trova il suo ricambio proprio nella parola. Viceversa tali sistemi, definiti da Barthes logotecniche, se risultano più coercitivi nei riguardi dell’utente, non lo sono altrettanto per i gruppi di decisione, che, in quanto creatori, sono arbitri di un intervento diretto sul sistema. Il contributo individuale, quindi, non si ritroverebbe unicamente al livello delle variazioni d’uso dell’oggetto che – come dice Barthes – solitamente costituiscono il piano della parola, ma al livello dello stesso sistema.
L’utente segue questi linguaggi, preleva in essi dei messaggi (delle «parole»), ma non partecipa alla loro elaborazione; il gruppo di decisione che è all’origine del sistema (e dei suoi mutamenti) può essere più o meno ristretto; può essere una tecnocrazia altamente qualificata… può essere anche un gruppo più esteso, più anonimo… Se però questo carattere artificiale non altera la natura istituzionale della comunicazione e preserva una certa dialettica tra il sistema e l’uso, è perché, da un lato, pur essendo subito, «il contratto» significante è nondimeno osservato dalla massa degli utenti… e perché, d’altro lato, le lingue elaborate «per decisione» non sono interamente libere («arbitrarie»).
Esse subiscono infatti la determinazione della collettività… In una prospettiva più ampia, si può affermare che le elaborazioni stesse del gruppo di decisione, cioè le logotecniche, non sono se non i termini di una funzione sempre più generale, che è l’immaginario collettivo dell’epoca».
Nel brano citato si ammette, in altri termini, che le logotecniche, che possiamo considerare i linguaggi dei mass media, in cui sono inclusi o tendono ad includersi l’architettura, le arti figurative e il design, se da un lato impongono una lingua, questa è reciprocamente condizionata dal basso in un equilibrio di domanda e offerta tipico in ogni forma di scambio. Questo non smentirebbe che il fatto di parola si limiti all’azione dell’utente, ma afferma tuttavia il potere di esso, la forza di questo «immaginario collettivo».
L’intervento individuale quindi non va tanto inteso al livello di questo utente-massa, le cui variazioni sul prodotto ch’egli ha contribuito a produrre sono scarsamente significative, quanto sull’influenza che l’utente massa esercita sull’attività dell’autore (designer) o del gruppo di decisione.
Ma l’applicazione della nozione di logotecnica ai campi di cui ci occupiamo consente ulteriori considerazioni.
Il settore più tipicamente definibile logotecnica è quello del design. Qui siamo in presenza d’un linguaggio, artificiale, non concordato dalla massa parlante; d’un idioma in cui i fatti di lingua prevalgono sui fatti di parola e dove il margine d’intervento dell’utente è ridotto al minimo nei confronti della grande libertà d’azione avocata a sé dal gruppo decisionale.
Tuttavia come abbiamo visto sopra, se accantoniamo la concezione sociologico-morale per cui il gruppo decisionale va inteso come gruppo di potere coercizzante la massa ai propri fini, notiamo che esso è meno libero di quanto sembra, condizionato, a sua volta, dalla esigenza del mercato, della domanda della massa. Condizionanti e condizionati sono reciprocamente ciascuno dei due protagonisti di tale processo. L’analisi di questo fenomeno prevalentemente sociologico potrebbe avere non pochi contributi dal metodo linguistico.
La dialettica fra il gruppo-autore e la massa utente può specificarsi anche per motivi intrinseci. La prevalenza dell’uno sull’altro termine può spiegarsi infatti non solo con la dicotomia lingua-parola, ma con quella di funzione-segno, di sincronia-diacronia, con la nozione di modello, di materia, in una parola con tutto l’apparato degli strumenti del metodo strutturale.
Non possiamo soffermarci, nei nostri limiti, su una siffatta analisi e rimanderemo alla generale nozione applicativa dello strutturalismo linguistico alla fine del nostro studio. Tuttavia un’ipotetica analisi semiologica del design, campo che abbiamo visto più vicino alla nozione di logotecnica, può derivarsi dal confronto con gli altri settori di nostra pertinenza considerati appunto secondo tale nozione.
In che modo l’architettura può studiarsi come logotecnica? Anche qui assistiamo al prevalere della lingua sulla parola e quest’ultima ridursi alla semplice variazione d’uso da parte dell’utente. Ma il suo potere decisionale ci sembra notevolmente più ridotto rispetto al fruitore di un qualsiasi altro oggetto di design, specie di quelli di largo consumo e di basso costo. Per essi la massa può anche decretare l’insuccesso del prodotto, il suo rapido invecchiamento, o quanto meno una riduzione di valore sul piano contrattuale; per l’architettura ciò non sembra verificarsi: l’oggetto-edilizio non consente all’utente qualsiasi forma di critico rifiuto.
I casi d’una produzione edilizia non consumata sono rarissimi. Ciò dipende indubbiamente da prevalenti ragioni economico-sociali, ma vi sono anche questioni di significazione. Infatti se nell’oggetto industriale, l’automobile, l’elettrodomestico, il secchio di plastica, le possibilità nelle variazioni d’uso da parte del fruitore sono ridottissime, egli però può ancora operare una scelta: o quell’oggetto in qualche modo «lo rappresenta», esprime cioè il suo gusto e le sue esigenze e allora lo compera, oppure quell’oggetto è insignificante e allora lo rifiuta e si rivolge alla concorrenza.
Viceversa, in campo edilizio la scelta dell’utente non si basa sulla globalità dell’oggetto, ma su caratteristiche particolari di tipo economico, grazie al fatto che la funzione «significativa-rappresentativa» si risolverà essenzialmente all’interno della sua casa, nel modo di arredare l’appartamento. Ovviamente è una illusione, il suo atto di parola resterà totalmente condizionato da quanto ha predisposto il gruppo decisionale. Ma la diversa realtà dell’elettrodomestico rispetto all’alloggio d’abitazione non è solo un fatto semantico.
La diversa significazione è dovuta alla struttura stessa dei due oggetti e alla struttura dei due sistemi cui appartengono. Più evoluto tecnicamente, più pianificato fino a contenere quella osmosi autore-fruitore (che è stata definita «immaginario collettivo»), il primo; più equivoco industrialmente, più ambiguo nel consentire un fittizio intervento dell’utente, il secondo. Se nell’un caso ci troviamo di fronte ad una struttura, con tutti i suoi limiti, globale, nell’altro ad una struttura contraddittoria e piena di soluzioni di continuità.
Le considerazioni svolte precedentemente per le logotecniche si possono estendere ad un particolare settore della contemporanea esperienza artistica, ci riferiamo a quella tendenza visiva che va dai costruttivisti alla Bauhaus fino ai più recenti gruppi di arte programmata. Questa tendenza, prescindendo ancora da valutazioni d’ordine estetico unitamente a quelle d’ordine sociologico, che come si dirà più oltre, vengono considerate non pertinenti, sembra di fatto assimilabile ai linguaggi artificiali.
Anzitutto perché si tratta anche in questo caso d’una lingua elaborata da un gruppo di decisione; in secondo luogo perché anche qui l’atto di parola viene ridotto all’uso. L’intervento dell’utente, infatti, spesso realizza le possibili combinazioni dell’oggetto il quale da solo non può esplicitare tutte le sue possibilità figurative, cinetiche, ecc. Inoltre tali oggetti intenzionano proprio attraverso l’uso una funzione didattica, chiarificatrice dello scopo cui sono destinati, realizzando così un tangibile modello di funzione-segno, ritrovabile in altri sistemi di significazione.
Infine come le altre logotecniche, che nonostante la loro arbitrarietà non interrompono una comunicazione tra gruppo decisionale ed utente, anche nel caso dell’arte programmata si verifica ciò su quel terreno d’incontro che è stato definito «immaginario collettivo», come dimensione culturale che riflette una condizione storico-sociale.
Questa stessa nozione di «immaginario collettivo» ci consente, fuori del problema delle logotecniche, di cogliere il senso di recupero comunicativo operato dalla cosiddetta arte di reportage. Infatti questa, intenzionalmente, utilizza quei termini iconici fino ai più banali, già istituzionalizzati come elementi significativi al livello della massa parlante. In tal modo l’arte di reportage o pop art esemplifica un sistema semiologico di tipo connotativo in quanto si edifica sulla base di una catena semiologica preesistente; è un cisterna semiologico secondo.
Ciò che è segno (cioè totale associativo d’un concetto e d’una immagine) nel primo sistema, nel secondo diventa semplice significante.
A completamento della nostra esposizione dei termini linguistico-semiologici ci occuperemo ora della nozione di materia che, per le sue connessioni col concetto di segno, ci permette una ulteriore estensione di quest’ultimo.
Secondo Barthes si sarebbe indotti a riconoscere nei sistemi semiologici (non linguistici) tre piani (e non due): il piano della materia, quello della lingua e quello dell’uso. Evidentemente ciò permette di render conto dei sistemi senza «esecuzione», giacché il primo elemento assicura la materialità della lingua; assetto tanto più plausibile in quanto è spiegabile geneticamente: in questi sistemi la «lingua» ha bisogno di «materia» (e non più di «parola») proprio perché essi hanno generalmente una origine utilitaria e non significante, contrariamente al linguaggio umano.
Questa nozione di materia connessa a quella di funzione-segno, ha una notevole importanza per l’iconologia delle arti figurative in quanto ogni segno diverso dalla parola implica una presenza di materia il cui ruolo incide sulla sua funzione semantica. Focillon, nella tradizione puro-visibilistica, parla d’una vocazione formale della materia già prima di costituirsi in oggetto figurativo. Inoltre è comune esperienza il rilievo che alcune poetiche figurative ed alcune tendenze architettoniche hanno attribuito al ruolo della materia nei loro processi di significazione.
Mai come nella nostra epoca s’è assistito all’impiego di una gamma di materiali in funzione visiva tanto vasta; nelle esperienze figurative attuali la materia si carica d’una intenzione semantica che supera di gran lunga la funzione di supporto del veicolo segnico. Inoltre la materia s’insinua tra le due componenti del segno semiologico tanto da caratterizzare il significante.
Esso è un mediatore: la materia gli è necessaria; essa non gli è però sufficiente… Questa materialità del significante costringe, ancora una volta, a distinguere materia e sostanza: la sostanza può essere immateriale (nel caso della sostanza del contenuto); si può quindi dire soltanto che la sostanza del significante è sempre materiale (suoni, oggetti, immagini).
Nella semiologia, ove si ha a che fare con sistemi misti che comportano materie diverse (suono e immagine, oggetto e scrittura, ecc.), sarebbe opportuno riunire tutti i segni, in quanto si fondono su un’unica e medesima materia, sotto il concetto di segno tipico: il segno verbale, il segno grafico, il segno iconico, il segno gestuale formerebbero ciascuno un segno tipico.
Riconosciuta la intima connessione di significante e significato e la necessità del supporto materiale che determinerebbe la tipicità del segno, caratteristica fondamentale di ogni settore semiologico sarebbe in sostanza proprio la materia. Questa, però, perde la sua inerzia nel farsi parte del segno, rendendosi così partecipe d’un rapporto semantico.
Un’analisi semiologica, all’interno di ciascun settore dei quali ci occupiamo, di questa tipicità del segno secondo la materia consentirebbe delle specificazioni assai più utili e pertinenti di molti schemi astratti tuttora in uso; si pensi alla ancor vaga nozione di spazio in architettura e in particolare alla dicotomia fra spazio interno ed esterno. Ci sembra infatti legittima l’equivalenza del rapporto tra significante-significato con quello tra struttura muraria, ossia il contenente, e lo spazio interno, ossia il contenuto.
La legittimità dell’analogia è data dalla reciprocità ed indissolubilità dei due elementi. Il parallelo diventa più calzante se la nostra struttura muraria e il relativo spazio interno s’interpretano secondo i termini proposti da Rosiello che parla di un piano del significante (organizzazione formale della sostanza fisica) e d’un piano del significato (organizzazione formale della sostanza psichica).
Come si vede oggetto della semiologia è l’organizzazione formale del piano dei segni. L’insistenza sull’attributo formale è ricca di implicazioni che ci consentono di concludere queste note accennando allo spirito della ricerca semiologica, ai caratteri e all’utilità del metodo.
L’accento formale dello studio di ciascun settore semiologico deriva dal carattere sistematico proprio del modello linguistico. In un capitolo del Cours, Saussure fornisce due nozioni, quella di sistematicità e quella di interiorità della lingua che sono alla base del suo particolare formalismo.
Nel capitolo dedicato agli «Elementi interni ed esterni alla lingua» egli scrive: La nostra definizione di lingua presuppone che scartiamo tutto quello che è estraneo al suo organismo, al suo sistema, in una parola a tutto quello che si designa col termine di «linguistica esterna». Egli annette grande importanza alle caratteristiche di quest’ultima, consistenti in fenomeni etnologici, storici, politici, ecc. ma raccomanda di tenerla distinta dalla linguistica interna.
La linguistica esterna può accumulare dettaglio su dettaglio senza sentirsi stretta nella morsa d’un sistema. Per esempio ciascun autore raggrupperà come vuole i fatti relativi all’espansione d’una lingua al di fuori del suo campo… Per la linguistica interna, si procede diversamente: essa non ammette una qualsiasi disposizione; la lingua è un sistema che non conosce altro ordine diverso dal proprio.
La nozione citata richiama direttamente l’altra di pertinenza, per la quale siamo in grado di definire con maggior vigore il campo della ricerca; delimitazione indispensabile per qualsiasi disciplina che voglia darsi un fondamento scientifico.
Ogni descrizione – scrive Martinet – presuppone una scelta. Ogni oggetto, per quanto semplice possa apparire a prima vista, si può rivelare infinitamente complesso. Ma una descrizione è necessariamente finita e quindi deve limitarsi a mettere in luce solo certi tratti dell’oggetto da descrivere…
Qualunque descrizione sarà accettabile se è coerente, cioè fatta da un punto di vista determinato. Una volta adottato questo punto di vista bisognerà tener presenti solo certi tratti, che chiameremo pertinenti, e tutti gli altri tratti che non sono pertinenti dovranno essere messi da parte senza esitazioni.
Nella ricerca semiologica la pertinenza implica che: si interrogano certi oggetti unicamente sotto il rapporto del senso che essi detengono, senza chiamare in causa.., le altre determinanti (psicologiche, sociologiche, fisiche) di tali oggetti. Queste determinanti, ciascuna delle quali appartiene a un’altra pertinenza, non vanno certo negate, ma vanno trattate anch’esse in termini semiologici: si deve cioè situare il loro posto e la loro funzione nel sistema del senso.
Nel parlare di formalizzazione di ciascun sistema semiologico e di non pertinenza di alcune determinanti, va chiarito che non s’intende parlare del vecchio dualismo tra forma e contenuto. A questo proposito, estendendo alla semiologia la proposta di Wellek e Warren, avanzata in sede estetica, chiameremmo «materiali» gli elementi semiologici indifferenti e «struttura» il modo in cui essi sono organizzati in un sistema di significazione.
I «materiali» infatti comprendono elementi che per il passato si consideravano parte del contenuto e altri che si consideravano formali; la «struttura» è un concetto che comprende sia il contenuto, sia la forma, nella misura in cui sono organizzati per fini estetici.
Dal punto di vista operativo la linguistica strutturale propone come utile strumento di analisi il ricorso a un modello. Questo si fonda sull’istituzione di un’analogia fra il modello ed alcuni aspetti del fenomeno da descrivere, e quindi sull’astrazione di tali aspetti (che vengono considerati pertinenti) da altri (che vengono considerati non pertinenti). Questi aspetti pertinenti sono sempre scelti fra quelli che sono comuni a intere categorie di fatti linguistici; qualsiasi aspetto sia inanalizzabile e proprio a un solo atto linguistico è, per ciò stesso, non pertinente.
La descrizione linguistica strutturale è dunque caratterizzata dalla sua astrazione e dalla sua generalità, e si oppone alla ricerca del concreto e del particolare che gran parte della linguistica tradizionale pone come il proprio scopo. In campo semiologico, Barthes ripropone la nozione di modello come simulacro dell’oggetto da analizzare.
Lo scopo d’ogni attività strutturalista… è di ricostruire un «oggetto», in modo da manifestare in questa ricostruzione le regole di funzionamento (le «funzioni») di questo oggetto. La struttura è dunque in realtà un simulacro dell’oggetto, ma un simulacro orientato, interessato poiché l’oggetto imitato fa apparire qualcosa che restava invisibile, o, se si preferisce, inintelligibile nell’oggetto naturale.
Un esempio degli aspetti operativi derivabili dal metodo strutturale può ritenersi l’analisi proposta da Kepes per la lettura del paesaggio urbano. La struttura simbolica dell’ambiente urbano viene resa leggibile secondo questa successione di fasi: «1. Scomponiamo il campo visibile dell’ambiente urbano in elementi: case, strade, piazze, quartieri, settori – secondo la nostra percezione dell’individualità dei loro caratteri». (Operazione che possiamo identificare come definizione degli elementi pertinenti)
2. «Leggiamo i confini – fiumi, mura, stacchi, mutamenti di forma o di espressione che definiscono tali elementi. Identificano le parti della struttura urbana!. (Ulteriore definizione del campo).
3. «Leggiamo i rapporti fra le parti in base ai loro legami e ai loro nessi: da un lato le arterie di traffico e le linee ferroviarie e di trasporto che raccolgono e distribuiscono il flusso vitale della città; dall’altro le porte, finestre, ponti, gallerie e « visuali» panoramiche. (Analisi di tipo sintagmatico)
4. «Leggiamo tutti gli elementi insieme nella loro connessione, come un’unica struttura – la forma simbolica, il simbolo intrinseco del “tutto“ urbano» (Costruzione del modello).
Il complesso di considerazioni su esposte trova la sua giustificazione epistemologica nel rapporto che lo strutturalismo fissa tra i diversi contesti sistematici. Lo strutturalismo – scrive Rosiello – opponendo al causalismo estrinseco rivelatosi inadatto alla spiegazione razionale dei fenomeni, in quanto pone in rapporto fatti emergenti da sistemi eterogenei, sostituisce al concetto di “causa” quello di “condizione” e distingue tra condizioni interne e condizioni esterne all’assetto sistematico.
In tal modo un sistema non può causare una trasformazione nell’ambito di un altro sistema ma può creare solo delle condizioni esterne atte alla realizzazione di un mutamento o di un uso, avvenuta in base a regole di condizionamento interno ammesse e stabilite della struttura formale del secondo sistema. Cosicché il metodo strutturale, oltre a garantire l’autonomia di ciascun settore semiologico, pone fra i propri programmi quello di esaminare le interrelazioni fra sistemi che mutano o variano in rapporto ai reciproci condizionamenti.
L’autonomia della ricerca specialistica si basa sullo studio delle condizioni interne, l’eteronomia della ricerca interdisciplinare si fonda sulle condizioni esterne purché a livello teorico si sia unificato l’apparato dei concetti e delle categorie metodologiche.

Pertanto, come in molti altri settori, la duplice esigenza della cultura figurativa d’una ricerca autonoma e d’una apertura interdisciplinare, che rifiuti le suggestioni «dell’unità del sapere» o dell’ «interezza rinascimentale», ritrova nel metodo strutturale la difficile bellezza e la serietà della specializzazione. L’operare sulle forme, nel modo sistematico indicato da tale metodo, costituisce attualmente il programma di ricerca più attendibile e indica il nuovo e forse unico senso per intendere oggi l’impegno della cultura.
tratto dal numero 7