Abduzione e valutazione

ROBERTA AMIRANTE
Come si spiega che un insieme di soggetti che non condividono paradigmi scientifici (i docenti/ricercatori dei settori della progettazione architettonica) insegni una disciplina dallo statuto «incerto» nell’Università (e non più nelle Accademie)?

L’ipotesi, solo apparentemente banale, che potrebbe spiegare il fatto sorprendente è questa: quei soggetti possono essere considerati un esempio di comunità scientifica; e il prodotto tipico di quella disciplina, il progetto di architettura, può essere considerato un esempio di attività scientifica.
Ma come si fa a portare il progetto di architettura, se non dentro, almeno accosto alle pratiche della ricerca scientifica e della sua valutabilità? Piuttosto che continuare a domandarci in astratto se il progetto di architettura ha valore di ricerca scientifica, possiamo, più pragmaticamente, chiederci se può valere come ricerca scientifica.
Non si tratta di aderire passivamente alle logiche, certamente discutibili, dei meccanismi recentemente applicati dalla nostra Agenzia di Valutazione o dalle commissioni di abilitazione, ma di cogliere opportunamente (e, visto come sono andate le cose, perfino «opportunisticamente») un segnale dei tempi. È tempo di trovare i modi per esibire il progetto come prodotto di una ricerca, magari non proprio scientifica ma almeno scientificamente disciplinata: «senza se e senza ma» rispetto alla sua origine (pura, applicata, professionale, didattica …) ma con svariati (e concordati) «se» rispetto alla sua potenziale «traduzione» in materiale valutabile da una comunità scientifica in grado di riconoscerne il valore.
Compiti difficili: il rischio di ripercorrere sentieri interrotti è altissimo. Ma proviamo a metterla in un altro modo: immaginiamo che i membri della virtuale comunità scientifica composta da tutti quelli che insegnano la (e fanno ricerca sulla) progettazione architettonica nei Dipartimenti (Scuole, Facoltà, qui i nomi non contano: a oggi sono 475 tra ordinari, associati e ricercatori, quelli che hanno dovuto sottoporsi alla valutazione dell’ANVUR), delle Università italiane (tanto per cominciare, ma poi, prima possibile, di tante altre Università)
si mettano d’accordo per inventare (nel senso latino di invenire) i linguaggi convenzionali utili a tradurre il progetto di architettura in una forma testuale comune, capace di raccontarlo attestandone il valore come elemento di avanzamento della conoscenza.
E che questo/questi linguaggi convenzionali siano fondati su un «codice multiplo» capace di comunicare convenzionalmente con le altre comunità scientifiche (che, non da oggi, guardano con sospetto al suo potenziale accreditamento) … beh, forse così si potrebbe cominciare a ragionare.
È qui che entra in gioco l’abduzione: l’inferenza «di terzo tipo» che tra qualche rigo vedremo definita – accanto alla certa deduzione e alla fideistica induzione – come la spiegazione «incerta» (ma credibile e soprattutto in qualche modo utile) di un fatto che colpisce l’attenzione di un osservatore (perché è sorprendente o anche perché l’osservatore ha occhi per vedere).
Che il progetto, o almeno il «racconto del progetto», possa essere ricondotto a una forma di inferenza, fa sì che si possa accostarlo al linguaggio codificato delle pratiche scientifiche (sfruttando l’evidente crisi di un’interpretazione troppo rigida del problema della demarcazione); e, in più, la costruzione di questi racconti abduttivi, «scritti» con parole e immagini dai singoli progettisti/docenti/ricercatori, potrebbe essere utile a dare progressivamente identità alla loro comunità, dotandola di un linguaggio comune in cui tradurre le tante lingue singolari.
Solo a partire da questo primo risultato si potrebbe cominciare a parlare di verifica, parola cara alla scienza sperimentale.
Ma, per tornare alla domanda iniziale: è possibile accostare l’incerto statuto del progetto a una forma di inferenza, seppure «di terzo tipo»? Ed è possibile dare status di comunità scientifica a un insieme di soggetti apparentemente disinteressati a riconoscere metodi, tecniche e valori comuni alla disciplina che praticano e insegnano? Anche questa è una tipica «ipotesi creativa», un’abduzione, da verificare. Di seguito proverò a mettere qualche segnale sul percorso di questa verifica, consapevole che le incursioni degli architetti in ambiti filosofici non sempre sono foriere di buone notizie (e, del resto, recenti esperienze consentono di sostenere anche l’inverso).
Consapevole che a decidere di tracciare questo percorso può essere solo la comunità scientifica di cui il progetto è prodotto. E consapevole che – paradossalmente – se nel tentare questa verifica ci dovessimo imbattere in una serie di considerazioni e di passaggi banali, scontati, già condivisi e magari già ampiamente praticati, questo sarebbe un ottimo risultato: significherebbe che manca veramente poco perché l’ipotesi di poter valutare convenzionalmente il progetto di architettura come prodotto di ricerca scientifica non sia più considerata stupefacente, non richieda spiegazioni complicate, possa dare origine a una prassi.
Abduzione e progetto
L’abduzione, come sappiamo, è quella modalità logica per cui, a partire da un oggetto o evento, visto e inteso come effetto, la mente è in grado di risalire alla sua causa possibile.
Questa inferenza non avviene però meccanicamente, dalla regola alla sua applicazione, come nella deduzione, né procede per progressivi accostamenti, mettendo insieme i dati sparsi osservati nell’esperienza, come nell’induzione: l’abduzione muove per salti e per azzardi immaginosi e incerti.
Si è detto anche che l’abduzione è un «pensiero laterale», ragionamento ipotetico che si sposta e discosta dal mondo conosciuto e che si spinge, per necessità o per avventura, per le vie del nuovo. È il pensiero teso verso la ricerca … l’abduzione permette anche di guardare in avanti, non si limita solo a svelare ciò che è stato. Permette di rappresentare ciò che può essere, interpretando un senso futuro.
L’abduzione può essere allora considerata come un atto di prefigurazione: scorge l’assente possibile, fa vedere ciò che ancora non c’è. O che è lontano e fuori dal nostro orizzonte.
Vale sottolineare che, comunque intesa, per molti – e non solo per Charles Saunders Peirce che l’ha «inventata» – l’inferenza abduttiva è il primo passo di qualsiasi ragionamento scientifico non è una componente come le altre dell’inquiry, ma ne costituisce il vero e proprio motore propulsivo; nel suo partire dall’osservazione della realtà è l’unico tipo di argomento che origina una nuova idea, che produce l’elemento sensuoso del pensieri.
Importante è la differenza tra induzione e abduzione: l’induzione si fonda su una procedura comparativa: essa paragona fatti omogenei, campioni di una certa classe; a partire da tale confronto, enuncia proprietà generali.
L’abduzione si fonda invece su un fatto singolo, che talora si presenta enigmatico, inspiegabile: l’osservatore lancia allora un’ipotesi, getta azzardatamente sulla realtà un’idea … non mera supposizione su un oggetto osservato … ma proposizione aggiunta ai fatti osservati: solo a partire da essa, dal suo carattere di «ipotesi» (un altro dei nomi che le dà Peirce, insieme a quello di retro-duzione), il ragionamento scientifico può procedere per successive induzioni e deduzioni alla ricerca della sua verità.
Nota anche come «inferenza verso la soluzione semplice», costituisce l’ipotesi migliore … la più semplice e naturale, la più facile ed economica da verificare, e tuttavia quella che contribuirà alla comprensione della maggior gamma possibile di fatti.
L’abduzione non solo pretende – senza rinunciare alla sua appartenenza a un universo «logico» – di abbandonare il mondo della deduzione per dire qualcosa di nuovo, ma sfida il pensiero logico-deduttivo su altri due punti: mentre i cartesiani … danno rilevanza al carattere cosciente del pensiero, nell’abduzione è essenziale il carattere temporale-sequenziale del pensiero, inteso come insieme di cognizioni-segni che si determinano l’un l’altro; e, in più, l’abduzione azzera lo spirito del cartesianesimo nella sua sostanza, perché essa afferma che non si può pensare da soli (perché dobbiamo partire da quello che altri hanno pensato prima di noi e perché quello che pensiamo avrà valore solo se tutti potranno accettarlo).
Si tratta di un punto molto rilevante: è qui che il «to guess» (tirare a indovinare) che guida l’incerta inferenza abduttiva può trasformarsi nel «to guess right» (azzeccarci) che fa la fortuna del ricercatore: non si tratta solo di attrezzarsi individualmente per fare la scelta giusta, come Conan Doyle fa dire a Sherlock Holmes (lo studioso accorto seleziona accuratamente ciò che immagazzina nella soffitta del suo cervello.
Ci mette soltanto gli strumenti che possono aiutarlo nel lavoro, ma di quelli tiene un vasto assortimento, e si sforza di sistemarli nell’ordine più perfetto) ma di usare quello che Galilei (e Peirce con lui) chiamava «lume naturale», magari contaminato anche con la sua versione «culturale» (qualcuno, dalle nostre parti, la chiamerebbe appartenenza): quando è necessario «tirare a indovinare» gli uomini si trovano a essere guidati da visioni sistematiche e complessive della realtà, concezioni filosofiche, di cui essi sono più o meno distintamente consapevoli, ma che comunque stabiliscono degli abiti profondi, che determinano gli orientamenti del giudizio.
Queste filosofie sintetizzano e organizzano, in base a procedimenti di generalizzazione, di analogia e di gerarchizzazione, le conoscenze e le acquisizioni culturali, sedimentate nel corso dei secoli, provenienti da estesissime pratiche sociali. Perciò non c’è da stupirsi che queste filosofie posseggano (ovviamente in vario grado) una loro forza di verità: tra l’altro la capacità di ispirare ipotesi scientifiche nuove e valide.
Solo così, parola di Pierce, il ragionamento filosofico può smettere di formare una catena che non è più forte del suo anello più debole e diventare una fune le cui fibre possono essere intrecciate tra loro.
Per usare un’espressione cara al direttore di questa rivista, «non è chi non veda» quanto questa definizione dell’abduzione possa avere delle risonanze molto forti con le caratteristiche del pensiero progettante, o almeno con molte delle sue formulazioni.
Quasi tutte, direi, soprattutto se di questa inferenza si colgono le multiformi potenzialità: aderendo all’ipotesi di Pierce che vede nell’abduzione (la costruzione dell’ipotesi) solo il primo passo dell’inquiry (dell’avventura scientifica) che può poi tranquillamente procedere con logiche più lineari di carattere deduttivo o induttivo.
O invece esaltando le sue potenzialità non lineari, ricorsive, analogiche. E ancora avventurandosi sulle strade che Umberto Eco (nel fortunato volume collettivo che accosta al nome di Peirce quello di due famosi eroi della crime story – Holmes e Dupin – sotto il titolo de Il segno dei tre) chiama meta-abduzioni: le inferenze creative che non procedono da fatto a legge ma da fatto a fatto, nella costruzione del «procedimento» (che meglio traduce il senso del metà-odòs – la strada verso il fine, che è percorso da seguire molto più che metodo sistematico).
O perfino – dotati dell’anima bi-partita del poeta-matematico di cui parla Edgar Allan Poe – costruendo abduttivamente catene associative del pensiero preconscio e analogie metaforiche, con un tipo più alto di raziocinio che non è schiavo delle proprie premesse e si traduce in un’operatività in grado di tagliare i vari livelli di realtà, una rêverie creativa che trascende ragione positivistica e assunzioni: qualcosa di molto simile al Play of Musement di cui parla Peirce: ad occhi aperti, attenti a tutto ciò che accade attorno, in aperta conversazione con voi stessi; perché questa è tutta meditazione, o anche il libero gioco del pensiero: un vivace esercizio dei propri poteri, privo di regole eccetto la legge della libertà stessa.
In questa accezione, il procedimento per abduzioni successive somiglia molto al gioco wittgensteiniano in cui si possono fare (e addirittura cambiare) le regole mentre si gioca. Queste morbide catene, o meglio funi, logiche, per attestare il loro carattere di inferenze conoscitive, per essere accostate all’universo scientifico, devono rispondere a una sola condizione: essere narrativamente tracciabili ed essere riconosciute da una comunità scientifico-disciplinare (e, in molti casi, anche da altre comunità, talvolta molto più ampie, a cui potrebbero essere affidate le ulteriori verifiche del prodotto della ricerca … ma qui non conta parlarne, così come non possiamo aprire la riflessione sulla relazione tra il progetto come prodotto scientifico da valutare e tutte le altre forme in cui il progetto si dà, la costruzione in cui si invera, la critica esterna che lo commenta ecc. ecc.).
Ho detto in apertura dell’obiettivo assai limitato, e perfino «opportunistico», di questo scritto. Confermo questa intenzione: non mi importa (e non mi sentirei) qui di affermare che qualunque azione progettuale, anche la più radical, anche la più anarchica, potrebbe essere ricondotta a una serie di inferenze abduttive: voglio solo sottolineare la possibilità e l’opportunità, al mero fine della valutabilità (e, prima ancora, della autovalutabilità) del prodotto/progetto (absit iniuria verbis), di accordarci su qualche forma di «protocollo» (per usare un termine scientifico, ma queste forme possono essere anche moltissime, e comunque andrebbero costruite dal basso) che ci consenta di presentare i nostri progetti, alla nostra comunità scientifica, come prodotti di ricerca in sé (anche indipendentemente dalla pubblicazione su riviste più o meno patinate e dal piazzamento in concorsi internazionali: cose che vanno benissimo, tutt’e due, ma sono dubbia garanzia della qualità di una ricerca progettuale).
Piaccia o non piaccia, in ambito universitario, la verifica di questa qualità spetta in prima battuta a una comunità scientifica che riconosca alcuni «paradigmi». Una necessità che è stata messa in evidenza perfino nell’ambito della formazione in campo «artistico»: valga per tutti il proliferante dibattito – sostanzialmente di matrice anglosassone (ma con echi significativi anche in Italia) – sul tema della research by design (e anche on, for, through) che, a partire più o meno dalla metà degli anni Novanta, ha visto tra i suoi protagonisti, per esempio, il londinese Royal College of Arts e ha provocato la nascita di un folto numero di riviste e collane editoriali.
Comunità scientifica e paradigma
Come si viene eletti a membri di una particolare comunità scientifica? Qual è il processo e quali sono gli stadi di associazione al gruppo? Quali sono gli scopi che il gruppo si prefigge collettivamente? Quali deviazioni, individuali o collettive è disposto a tollerare? E come controlla le aberrazioni inammissibili?. A lasciare aperte queste domande (nell’ultima pagina del Poscritto aggiunto nel ‘69 al suo testo del 1962) non è proprio uno qualsiasi, ma il Thomas S. Kuhn che si è occupato della struttura delle rivoluzioni scientifiche individuando nella nozione di paradigma il loro motore.
Nel tentare di sciogliere l’ambiguità del termine (un insieme di credenze condiviso dai membri di una comunità scientifica; e, inversamente, l’elemento che la identifica) rilevata da alcuni dei suoi commentatori, Kuhn introduce il tema della struttura comunitaria della scienza e, per specificare il senso di «quell’insieme di credenze» che aveva chiamato paradigma, parla di matrice disciplinaria: «disciplinaria» poiché si riferisce al possesso, comune a coloro che sono impegnati nella ricerca, di una particolare disciplina; «matrice» poiché è composta di elementi ordinati di vario genere, ciascuno dei quali esige una ulteriore specificazione.
Componenti di questa disciplinaria sono: le generalizzazioni simboliche (espressioni usate senza discussione o dissenso dai membri del gruppo, spesso formulate in forma logica): io ho oggi il sospetto – commenta Kuhn – che tutte le rivoluzioni comportino, tra l’altro, l’abbandono di generalizzazioni la cui forza era stata precedentemente in parte quella delle tautologie; i paradigmi metafisici: se dovessi riscrivere il mio libro, descriverei ora tali dogmi condivisi dai membri di una comunità come credenze in particolari modelli, ed amplierei la categoria dei modelli per includervi anche quelli di genere relativamente euristico;
i valori, in cui dovrebbe essere compresa l’utilità sociale e che possono essere condivisi da persone che differiscono tra loro nella loro applicazione: sebbene essi agiscano sempre, la loro importanza particolare si manifesta soprattutto allorché i membri di una particolare comunità si trovano di fronte a una crisi, o, più tardi, devono scegliere tra maniere diverse e incompatibili di praticare la loro disciplina; gli esemplari con cui si intendono: le concrete soluzioni di problemi che gli studenti incontrano fin dall’inizio della loro educazione scientifica, ma anche alcune delle soluzioni tecniche di problemi presentate nella letteratura periodica.
Dovendo scegliere tra quelli elencati, è proprio agli esemplari che Kuhn riconoscerebbe un privilegio: più di qualsiasi altro genere di componenti della matrice disciplinaria, le differenze tra insiemi di esemplari forniscono la sottile struttura comunitaria della scienza.
Generalizzazioni simboliche, paradigmi metafisici, valori, esemplari: non sarebbe difficile – ma un approfondimento anche parziale richiederebbe uno spazio incompatibile con la dimensione di questo scritto – classificare sotto questa terminologia i paradigmi, anche quelli più «sottili», che ciascuno dei 475 di cui ho accennato all’inizio (e probabilmente tutti quelli che nell’Università si occupano di progettazione architettonica) considerano tipici della propria ricerca progettuale.
Il modello «rivoluzionario» di Kuhn prevede che di fronte alla crisi del precedente paradigma e prima che il seguente venga accettato dalla comunità scientifica (applicata fino a quel momento allo sviluppo di quella che definisce scienza normale), ci sia una fase di confronto di punti di vista incommensurabili: lo stesso linguaggio comincia a dire cose differenti ai «due gruppi» che vivono la crisi: coloro che fanno esperienza di tali interruzioni di comunicazione devono, tuttavia, potere fare ricorso a qualcosa … per dirla brevemente, quello che possono fare coloro che si trovano coinvolti in una interruzione di comunicazione è di riconoscersi l’un l’altro come membri di comunità linguistiche differenti e di diventare quindi dei traduttori …
…..ciascuno può cercare di scoprire che cosa vedrebbe e direbbe l’altro quando si trovi di fronte a uno stimolo al quale la propria risposta verbale sarebbe differente … ciascuno avrà imparato a tradurre nel proprio linguaggio la teoria dell’altro e le sue conseguenze e simultaneamente a descrivere nel proprio linguaggio il mondo cui si applica quella teoria …
….la traduzione … è un potente elemento di persuasione e di conversione. Ma non è detto che il tentativo di persuasione debba necessariamente riuscire, e anche se riuscisse, non è detto che sia necessariamente accompagnato o seguito da una conversione.
Qui, apparentemente, è più difficile riconoscersi … a meno che al modello di Kuhn – che ragiona su una netta sequenza temporale: vecchio paradigma/nuovo paradigma e che postula su questa base l’esistenza di due gruppi contrapposti – non si sostituisca quello di Lakatos che legge l’evoluzione scientifica come un processo più complesso e sincronico e anche più articolato … a meno che non si faccia spazio all’idea di una comunità più destrutturata (molto più destrutturata) di quella a cui pensano gli scienziati «duri e puri» … a meno che non si adotti, esplicitamente o implicitamente, una logica convenzionalmente finzionistica nell‘apparentare tra loro cose non identiche e non identitarie.
E allora, a proposito di comunità, sentiamo cosa racconta Agamben: all’inizio degli anni settanta si poteva vedere nelle sale cinematografiche parigine uno spot pubblicitario che reclamizzava una nota marca di collants. Esso presentava di fronte un gruppo di ragazze che danzavano insieme.
Chi ne ha osservato, anche distrattamente, qualche immagine, difficilmente avrà dimenticato la speciale impressione di sincronia e di dissonanza, di confusione e di singolarità, di comunicazione e di estraneità che emanava dai corpi delle danzatrici sorridenti.
Quest’impressione riposava su un trucco: ogni ragazza era filmata da sola, e, successivamente, i singoli pezzi venivano composti insieme sullo sfondo dell’unica colonna sonora.
Ma da quel facile trucco, dalla calcolata asimmetria nei movimenti delle lunghe gambe guainate nella stessa merce a buon mercato, da un minimo scarto nei gesti, alitava verso gli spettatori una promessa di felicità che concerneva inequivocabilmente il corpo umano.
E sentiamo cosa dice Agamben anche a proposito di apparentamenti: un concetto che sfugge all’antinomia dell’universale e del particolare ci è da sempre familiare: è l’esempio. In qualsiasi ambito faccia valere la sua forza, ciò che caratterizza l’esempio è che esso vale per tutti i casi dello stesso genere e, insieme, è incluso fra di essi.
Esso è una singolarità tra le altre, che sta però in luogo di ciascuna di esse, vale per tutte … Né particolare, né universale, l’esempio è un oggetto singolare che, per così dire, si dà a vedere come tale, mostra la sua singolarità.
Di qui la pregnanza del termine che in greco esprime l’esempio: para-deigma, ciò che si mostra accanto (come il tedesco Bei-spiel, ciò che gioca accanto) … L’essere esemplare è l’essere puramente linguistico … non l’esser-rosso ma l’esser-detto rosso … di qui la sua ambiguità, non appena si decida di prenderlo veramente sul serio. L’esser-detto – la proprietà che fonda tutte le possibili appartenenze – è, infatti, anche ciò che può revocarle tutte radicalmente in questione … Non si tratta né di apatia né di promiscuità o rassegnazione.
Queste singolarità pure comunicano solo nello spazio vuoto dell’esempio, senza essere legate da alcuna proprietà comune, da alcuna identità … sono gli esemplari della comunità che viene.
Sembra poco, ma lo spazio vuoto occupato da questa comunità fatta di singolarità e nominata come esempio/paradigma è già qualcosa, e la sua labilità potrebbe essere addirittura promettente, viste le derive potenzialmente pericolose della ricerca dell’identità:
tra un’idea di uguaglianza astratta e l’erezione di barriere culturali che si presumono insormontabili non c’è il nulla: c’è quella vasta striscia di terra di nessuno che, proprio perché è «di nessuno», consente il dialogo tra gli individui. Invece di esaltare le diversità o di condannarle – oppure di tentare, a fin di bene, di renderle tutte uguali – sarebbe forse meglio spostarsi tutti, più frequentemente, in questa terra di nessuno, accostandosi gli uni agli altri.
Esser-detti comunità: sembra un obiettivo possibile, alla luce degli elementi richiamati. Cominciare a comporre le danze solitarie dei progettisti/ricercatori non dentro uno spot ma dentro lo spazio dell’Università, attraverso un paziente e continuo esercizio di traduzione (anche se nel nostro caso, considerata la relativa ristrettezza degli spazi «di nessuno» che le posizioni dei singoli individui disegnano, si tratterebbe di considerare la traduzione, come fa Benjamin, un virtuoso esercizio interlineare): questo il compito della comunità che potrebbe venire dalla ri-composizione dei compositivi italiani.
Una ricomposizione che non neghi ma si fondi sulle differenze (anzi in questo caso, più propriamente sulle différances à la Derrida), individuando dall’interno spazi di tolleranza, di condivisione e di avanzamento, potrebbe essere un modo esemplare di vivere la continua crisi del progetto architettonico postmoderno e dei suoi infiniti mutevoli esempi. Del resto, per dirla ancora con Derrida, gli amici della verità sono senza la verità, benché non vadano senza verità. Con qualche sforzo, a partire da questa «comunità debole» si potrebbe provare a rispondere alle domande lasciate aperte da Kuhn … e non è affatto detto che le risposte sarebbero meno convincenti di quelle delle scienze che sono dette «dure».
tratto dal numero 150