Maker

SERGIO PONE, SOFIA COLABELLA
Se fai qualcosa, gira un video. Se registri un video, postalo. Se lo posti, diffondilo tra i tuoi amici. I progetti condivisi online diventano ispirazione per altri e opportunità di collaborazione.

I singoli maker, connessi globalmente in questo modo, diventano un movimento. Milioni di appassionati del fai-da-te, che una volta lavoravano da soli, improvvisamente cominciano a lavorare insieme. Le idee, una volta condivise, si trasformano in idee più grandi.
I progetti condivisi diventano di gruppo e … possono dare origine a prodotti, movimenti e persino settori economici. Il semplice fatto di “fare le cose in pubblico” può diventare il motore dell’innovazione, persino quando ciò non era voluto. Si tratta semplicemente di ciò che fanno le idee: quando vengono condivise si diffondono.
Chris Anderson, tra i primi studiosi del movimento dei Maker, definisce così questo nuovo e affascinante fenomeno; ma per comprenderne appieno la portata bisogna interrogarsi sulla natura del terreno in cui pianta solidamente le sue radici: il Web.
La natura del Web
La grande ragnatela mondiale (World Wide Web) vive e prospera nella dicotomia tra il vecchio principio del copyright (in italiano diritto d’autore) e quello più nuovo dal nome, ironico ma denso di significati, di copyleft. Richard Stallman, fondatore della Free Software Foundation e creatore del termine, lo contrappone al copyright (right in inglese oltre a “diritto” significa anche “destra”) usando il suffisso left, ovviamente come “sinistra”, ma anche con il secondo significato di “lasciato”.
E infatti il web è il teatro delle più grandi battaglie del secolo per i diritti di sfruttamento commerciale di idee molto remunerative, ma è anche il luogo della libera circolazione di idee altrettanto interessanti e potenzialmente fruttifere, “lasciate” a disposizione di tutti.
Per esempio la storia del sito più visitato del mondo dal 2009 al 2012, il motore di ricerca Google, è un intreccio
tra la volontà di rendere la rete migliore e più fruibile e l’aspirazione al guadagno di rispettabilissime somme di denaro.
Google nasce nel 1998 da un’idea dell’americano Larry Page e del russo (naturalizzato Usa) Sergey Brin che partono dal presupposto che a metà degli anni Novanta il web era una sorta di Far West virtuale: senza regole, senza divieti, senza governo. Milioni di persone si collegavano e comunicavano via e-mail, ma i ricercatori seri erano sempre più frustrati dal ginepraio dei siti Internet. I primi tentativi di aiutare gli utenti a trovare informazioni su Internet … erano inadeguati … ti ritrovavi con una massa di risultati completamente privi di significato.
Il metodo su cui erano impostati quei rudimentali motori di ricerca era quello di evidenziare i siti in cui la parola oggetto della richiesta era citata il maggior numero di volte. Ispirandosi ad alcuni elementi nel funzionamento di Alta Vista (altro motore di ricerca) fu Page a intuire per primo che un metodo diverso per gerarchizzare le risposte da offrire all’utente potesse essere fondato sull’analisi dei link (collegamenti) contenuti nei siti cioè di quelle parole, pulsanti, immagini che trasportano istantaneamente l’utente su un altro sito collegato.
E, in particolare, che si potesse definire la reputazione (rank) di un sito in funzione di quante fossero le pagine (page) che a quel sito “puntavano” con i loro link, cioè valutare i siti come le pubblicazioni scientifiche attraverso l’analogia tra il link e la citazione testuale.
Come sostiene lo stesso Page: le citazioni sono importanti; viene fuori che chi vince un Nobel è citato in diecimila paper differenti; vuol dire che il tuo lavoro è significativo, visto che altra gente ha pensato che valesse la pena citarlo.
Con un gioco di parole sul suo cognome, Page creò “Page Rank” con il quale allestì un rudimentale motore di ricerca (BackRub) e il progetto diventò la tesi di dottorato sua e di Brin. Il prototipo si trasforma presto in Google (errore di trascrizione di Googol il numero composto da 1 seguito da 100 zeri) e diventa il motore di ricerca preferito del campus di Stanford (California).
I due studenti capiscono che esiste la possibilità di migliorare di molto le ricerche in rete con Google ma il loro intento è quello di continuare a studiare e quindi tentano di vendere il software ad Alta Vista e agli altri motori di ricerca. La richiesta di un milione di dollari scoraggerà prima il capo di Alta Vista, Paul Flaherty, poi i leader degli altri competitors e di conseguenza Larry e Sergey si vedono costretti a fondare una loro azienda e diventare rapidamente multi-miliardari.
Ma la fortuna economica dei creatori di Google non si costruisce semplicemente trasformando l’oggetto dello studio in impresa. La ricerca su Google resta libera e gratuita ma il risultato della query (richiesta) è affiancato da una piccola inserzione pubblicitaria, selezionata in accordo con l’interesse che l’utente ha manifestato. Inoltre, se la query riguarda un oggetto commerciale, la risposta del motore di ricerca porta ai primi posti ed evidenzia, con un fondo colorato, i siti che hanno “acquistato” quella parola (sistema Google AdWords) per promuoversi in Google. In questi casi l’inserzionista paga solo se l’utente si connette con il sito pubblicizzato.
Page e Brin conservano ancora lo spirito originario dell’azienda in cui bisogna fare ciò che è giusto e ciò che è meglio, il profitto viene dopo: il motto “don’t be evil” riassume questo atteggiamento e fa capire come, anche nella storia di una delle invenzioni più redditizie del secolo, lo spirito democratico e libertario del Web permane e ispira la filosofia di gestione dell’azienda.
La battaglia per il file sharing
Proprio lo spirito libertario, e anche un po’ ribelle, della rete è alla base della controversa vicenda iniziata da Shawn Fanning e Sean Parker nel 1999 che ha portato alla creazione di Napster, poi chiuso, per mano giudiziaria, nel 2002. I creatori avevano l’obiettivo di condividere brani musicali attraverso la rete utilizzando un meccanismo detto peer to peer (letteralmente da pari a pari): lo scambio dei documenti avveniva direttamente tra gli utenti il cui contatto era stabilito da un server centralizzato.
Napster, con la sua attività, sollevò quasi subito le ire delle case discografiche americane che contestavano la reiterata violazione delle leggi sul copyright. Alla fine un giudice americano riconobbe la ragione dei discografici e Napster fu individuato e costretto alla chiusura. Nacque quasi subito Gnutella, il peer to peer puro in cui non esistono server centralizzati ma il passaggio della richiesta avviene “saltando” da un punto all’altro della rete (con un numero limitato di salti).
Questo protocollo, che prevedeva l’istallazione di un apposito software su tutti i computer appartenenti alla rete, era molto più difficile da colpire da parte dell’industria discografica, data la mancanza di un ordinatore centralizzato: per questo ha costituito, al pari di Napster, un modello da imitare.
A partire dai due capostipiti si sono succeduti vari protocolli in una sorta di gioco a “guardie e ladri” con le major discografiche e, in un secondo momento, cinematografiche, senza che le loro offensive giudiziarie riuscissero mai a spegnere definitivamente questa attività: l’epoca del file sharing era iniziata.
Lo sviluppo di Google ha consentito agli utenti della rete di formarsi la convinzione che nel web sia contenuta tutta la conoscenza e che chi vuole possa facilmente trovarla e liberamente disporne; l’affermazione del file sharing trasforma l’utente passivo in interlocutore attivo ed estende il contenuto della rete dal campo dell’informazione a quello di oggetti informatici più complessi che sono condivisi e si possono “scaricare”, quindi possedere, e possibilmente ancora condividere.
Con il prossimo passaggio questi oggetti lasceranno il virtuale per diventare reali.
La stampa 3d
La storia dei Maker, innervata nelle logiche immateriali della grande ragnatela mondiale, trae la sua seconda importante ispirazione da un’altra parallela vicenda sempre interna all’informatica ma, questa volta, con un contenuto fortemente “materiale”: la prototipazione rapida eseguita con le stampanti 3d.
Queste macchine – sostiene l’Economist in un suo editoriale del 2011 – sono un altro modo di connettere il “regno” digitale con quello fisico: esse prendono un modello digitale di un oggetto e lo stampano attraverso l’addizione di uno strato alla volta, usando materia plastica.
La storia inizia nel 1986 quando Charles W. (Chuck) Hull deposita il primo brevetto per un “Apparato per la produzione di oggetti tridimensionali tramite la stereolitografia” (in inglese Sla) basato sulla polimerizzazione (solidificazione) di un fluido contenuto in una vasca, investito da un raggio laser orientato per strati successivi da una testa mobile. Sempre a Hull si deve il software che trasforma il modello solido tridimensionale in standard Stl (Standard Triangulation Language To Layer) ancora oggi utilizzato da tutti i procedimenti che stampano per strati successivi sovrapposti.
Al metodo Sla seguiranno in rapida sequenza altri sistemi di prototipazione rapida quasi tutti organizzati con una testa che si muove secondo due assi orizzontali e un piano d’appoggio che si muove lungo l’asse verticale.
E quasi tutti fondati su un materiale (liquido o in polvere) “depositato” in posizione, che poi si indurisce per essiccazione, perché colpito da un raggio laser o ultra-violetto o per l’innesco di una particolare reazione chimica. In particolare si devono a S. Scott Crump invenzione e brevetto (1989) del metodo Fdm (fused deposition modelling) basato sull’utilizzo di vari possibili materiali, portati allo stato viscoso dal riscaldamento effettuato da un ugello metallico mobile e depositati a strati sovrapposti su un piatto, spesso anch’esso mobile.
I vari metodi avranno uno sviluppo lento ma costante, tutto connesso alle necessità delle industrie manifatturiere di realizzare rapidamente prototipi per la produzione e utilizzeranno stampanti di costo notevole e quasi tutte con software molto specifici e dedicati.
Sarà l’Fdm la tecnologia che aprirà al grande pubblico il mondo del 3d printing ma bisognerà aspettare gli anni tra il 2005 e il 2006 per assistere al quasi contemporaneo inizio del progetto Fab@home negli Stati Uniti e del progetto RepRap in Inghilterra.
Il primo nasce ancora una volta all’interno di un campus americano e ancora una volta a opera di due studenti, Evan Malone e Hod Lipson del Dipartimento di Ingegneria Meccanica della Cornell University di New York, con l’intento esplicito di produrre una stampante low cost per diffondere la cultura della stampa 3d.
Dopo il primo prototipo, Malone e Lipson estesero il loro progetto ad altri studenti e il secondo modello sarà “firmato” da 14 persone che ne miglioreranno le caratteristiche con una logica di condivisione della fase progettuale.
Il progetto RepRap, concepito da Adrian Bowyer docente all’Università di Bath, aggiunge alla volontà di diffusione, l’aspirazione a essere auto-ri-producibile.
In sostanza l’idea dell’ingegnere-matematico inglese era quella di immaginare, oltre alla diffusione capillare del 3d printing fondata sul basso costo dell’hardware, anche lo strumento e le modalità di questa diffusione incarnate nella stessa stampante RepRap, abbreviazione, appunto, di Replicating Rapid Prototyper.
Il progetto è libero e disponibile sia nell’hardware che nel software e chi possiede una 3d printer può regalarne, con una spesa molto contenuta, una uguale a un amico: il metodo di diffusione è quello del virus.
E, come un virus, la cultura della fabbricazione digitale rapidamente “infetterà” la tradizione del “fai da te” – il francese bricolage o l’anglosassone do it yourself (Diy) – e infetterà la (o sarà infettata dalla?) ormai consolidata pratica del file sharing, costruita a partire da Napster e Gnutella. Da questa contaminazione nasce il fenomeno dei Maker.
Meglio certo di buttare, riparare (Fix it first)
Ma la cultura Maker è anche ecologica. È profondamente radicata in un’idea di responsabilità, solidarietà, collaborazione e condivisione. Nel suo Dna non c’è solo la spinta verso l’innovazione di processo ai limiti delle più avanzate tecnologie, ma un impulso a mettere l’uso corretto delle risorse al centro del processo creativo. Quando si riescono a comprare a pochissimo centinaia di altoparlanti, alla fine inevitabilmente viene fuori un’idea. Prima di cominciare a costruire qualcosa da zero, vi consiglio di cominciare ad accumulare rifiuti.
Riparare per riusare è il miglior modo per proteggere l’ambiente risparmiando: questo l’approccio della comunità iFixit che fa del Fix it first uno slogan che si riferisce a un’idea di lotta per la salvaguardia dell’ambiente molto concreta. Un’economia ciclica si basa sulla premessa che ogni cosa è preziosa, ogni risorsa che estraiamo dovrebbe avere una vita oltre il primo utilizzo e ogni prodotto che creiamo deve poter essere riparato e riutilizzato prima di essere considerato per il riciclo.
Questa comunità, oltre a condividere video e manuali di istruzione per riparare o smontare o convertire in nuovi prodotti ogni cosa, propone una lettura approfondita dell’e-waste quel particolare tipo di rifiuto speciale derivante da beni elettronici, contenente molti tipi di sostanze chimiche nocive, dal piombo al mercurio, che non può essere smaltito semplicemente in discarica perché contamina i terreni e le falde acquifere.
Riparare è meglio che riciclare. Riparare salva il pianeta. Riparare ti fa risparmiare. Riparare insegna l’ingegneria. Se non lo puoi aggiustare, non è tuo. I principi del manifesto Self-Repair sono chiari (e oggi questa politica è potenziata dalla possibilità di integrare pezzi di sostituzione prodotti autonomamente con la stampante 3d) ma non sempre condivisi dalle aziende produttrici, troppo occupate ad apporre marchi e brevetti e a vendere i pezzi di ricambio “originali”.
Riparare è un diritto: il copyright sui manuali di riparazione non protegge il lavoro creativo e non impedisce di copiare il design. Tutto ciò che fa è impedire alle persone di riparare le loro cose. Essere responsabili è facile: Vendi o dona le cose di cui non hai più bisogno a persone che possono riusarle. Ripara le cose che puoi ancora usare e ricicla solo quando non è possibile più alcun altro uso.
La rete solidale
I computer amplificano il potenziale umano. Non solo danno alle persone il potere di creare, ma possono anche diffondere le loro idee rapidamente, creare comunità, mercati e persino movimenti.
La rete, secondo Chris Anderson, direttore della rivista Wired Usa, non consente solo di risparmiare energia in ogni fase del processo produttivo ma di amplificare le risorse dei singoli.
Compone quella che già molti anni prima Lévy aveva definito intelligenza collettiva e quasi subito Derrick De Kerckhove trasformato in intelligenza connettiva: Ma è vero che quando prendiamo grandi quantità di oggetti qualitativamente mediocri e li connettiamo tra di loro succede qualche cosa di molto misterioso: emerge un valore che è superiore alla somma delle parti, c’è un incremento della performance che non è solo basato su un’addizione.
Raggruppando i nostri neuroni “stupidi” in una mente cosciente, il nostro cervello sfrutta il loro potere, allo stesso modo internet si appoggia su stupide macchine, stupidi personal computer; un pc è come un singolo neurone; quando sono collegati a migliaia tra di loro in una rete, questi semplici stupidi nodi generano un valore aggiunto che è di molto superiore alla semplice somma delle parti.
La rivoluzione digitale, spiegava Anderson nel 2010, si è spostata verso il mondo fisico, quello degli atomi: gli atomi sono i nuovi bit. Internet ha incluso sistematicamente il “mondo delle cose” nei suoi meccanismi di funzionamento fondati su processi virtuali; questa trasformazione ha avuto negli ultimi anni la forza di cambiare le regole e il senso stesso del fare, con l’obiettivo comune di non sprecare (intelligenza, tempo, denaro), non inquinare (con processi produttivi basati sul consumo di energia, dalle materie prime al trasporto), riusare, riciclare, ma meglio ancora, riparare, attraverso un’azione precisa: condividere.
Mettere in contatto milioni di compratori e di venditori nello spazio virtuale presenta costi quasi nulli. Questo significa che, come spiega Jeremy Rifkin, è possibile eliminare i costi di transazione sostituendo tutti gli intermediari: grazie alla “rete tra pari” si genera una nuova forma di mercato globale che agisce collaborativamente; la rete dei piccoli artigiani, quindi, può oggi avere accesso al mercato globale con costi di ingresso praticamente nulli, e avere un vantaggio competitivo rispetto ai grandi soggetti centralizzati.
I FabLab (Fabrication Laboratories o Fabulos Laboratories?)

I FabLab sono i luoghi fisici in cui questi nuovi modelli di processo e di prodotto si concretizzano, sono i posti dove si rivoluzionano dalle fondamenta i principi di scambio di beni e di idee per incontrare la sostenibilità globale e la solidarietà. L’inventore dei FabLab, Neil Gershenfeld, sostiene che questa rivoluzione non è un processo sottrattivo nell’ambito della produzione ma l’abilità di trasformare i dati in cose e le cose in dati.
È un flusso tra farsi fisicamente delle cose e dati immateriali, un complesso mutamento di prospettiva nel processo produttivo a livello globale. Sta modificando profondamente il nostro modo di percepire il design, la produzione di oggetti d’uso comune e quindi il mercato, il senso di appartenere a una collettività che vive nel web.
Si tratta di un principio di co-progettazione di prodotto e di processo, di appropriazione dell’Interaction Design stesso: la progettazione delle interfacce hardware e software, fino alle librerie di prodotti, è disponibile e modificabile dalla collettività; sono gli utenti stessi a usare, progettare e modificare macchine, servizi e sistemi.
Come nota Vincenzo Cristallo: il principio dell’open si misura concretamente nello scambio dei progetti nella rete da cui ‘pesca’ la partecipazione di chi intende migliorare e implementare il progetto di altri attraverso il proprio, perché incuriosito e sollecitato da interessi culturali e competenze tecniche di vario genere.
I FabLab definiscono nel loro insieme una comunità internazionale, il cui obiettivo è condividere “conoscenza da dotazioni” e capacità a loro volta condivise. Nascono nel 2001 al Massachusetts Institute of Technology (Mit), nel corso dal titolo How to Make (almost) Anything coordinato da Neil Gershenfeld del Center for Bits and Atoms (Cba). Nel 2003, dopo il successo del primo anno, il progetto si amplia con l’inaugurazione di un laboratorio finanziato con il supporto della National Science Foundation. Nasce il primo FabLab della storia come diminutivo di Fabrication Labs, o meglio ancora di Fabulous Labs. Nel 2004 s’inaugura un secondo FabLab a Sekondi-Takoradi, in Ghana.
In pochi anni il fenomeno dilaga in tutto il mondo e diventa oggi un universo di connessioni e condivisioni di soluzioni tecnologiche e progetti digitali. È una rete di proprietà intellettuale per lo scambio e la libera circolazione di idee.
I FabLab forniscono accesso diffuso ai moderni mezzi di invenzione. Sono partiti da un progetto di solidarietà nato nel Mit’s Center for Bits and Atoms; qui vengono investiti milioni di dollari per la ricerca sulla fabbricazione digitale, ultimamente con l’aspirazione a sviluppare assemblatori molecolari programmabili che saranno in grado di fare quasi tutto
Le attività dei FabLab spaziano dal potenziamento tecnologico alla formazione tecnica per progetti peer-to-peer dal problem-solving per le piccole aziende locali all’high-tech per la ricerca di base. I progetti in fase di sviluppo e prodotti nei laboratori Fab includono turbine solari e eoliche, prototipazione rapida di macchine per la prototipazione rapida.
Makers made in Italy: Arduino
Nel 2005 gli studenti dell’Istituto di Interaction Design di Ivrea posero, al loro docente, l’ingegnere Massimo Banzi, il problema di realizzare piccole automazioni in breve tempo. Con la discesa in campo del più classico “genio italiano” nasce “Arduino”, una scheda elettronica come quelle dei computer ma più semplice e molto più economica, capace di governare elettronicamente dispositivi elementari, corredata da un software open source gratuitamente scaricabile dal sito.
L’hardware, nato dalla scintilla di Banzi per rendere semplice l’avvicinamento dei non esperti al mondo dell’elettronica e della programmazione, fu progettato in team da un gruppo di studenti e insegnanti di Ivrea. Il loro obiettivo era costruire oggetti in grado di stabilire interazioni con altri oggetti, persone, reti, e di farlo in modo semplice.
Per questo lo stesso Banzi sostiene che moltissimi principianti che si avvicinano all’elettronica per la prima volta pensano di dover imparare a costruire tutto a partire da zero. Ma questa sarebbe una perdita di energia: l’obiettivo deve essere vedere subito qualcosa che funziona, in modo da sentirci motivati a eseguire il passo successivo o magari motivare qualcun altro a fornirci il denaro per farlo.
Ecco perché abbiamo sviluppato una “prototipazione opportunistica”: perché perdere tempo ed energia a costruire qualcosa da zero, un processo che richiede tempo e profonde conoscenze tecniche, quando possiamo prendere dispositivi già pronti e modificarli in modo da trovare il grosso del lavoro già fatto da grandi società e ottimi ingegneri? II nostro eroe è James Dyson, che, prima di sentirsi soddisfatto, ha creato 5.127 prototipi del suo aspirapolvere.
Banzi immagina di “sdoganare” l’elettronica partendo da dispositivi molto più semplici di un computer; semplicità e disponibilità a un pubblico di non esperti, questo l’obiettivo di fondo: quasi nessun ingegnere è capace di spiegare quello che fa a un altro ingegnere, figuriamoci a un essere umano normale. Quindi ora è il momento di immergerci nella “banalità”.
E, a partire da questa banalità, gli inventori di Arduino hanno deciso di costituire una società, ma con una particolarità: i progetti sarebbero rimasti open source. Poiché la legge sul copyright, che regola il software open source, non è applicabile all’hardware, hanno deciso di utilizzare una licenza Creative Commons chiamata Attribution Share Alike.
Chiunque è autorizzato a produrre copie della scheda, a riprogettarla, o addirittura a vendere schede che ne copiano il progetto. Non è necessario pagare nessun diritto al gruppo Arduino e nemmeno chiedere il permesso. Tuttavia, se il progetto di riferimento viene ripubblicato, occorre dare il riconoscimento al gruppo Arduino originale.
Banzi intuisce che in questo modo la sua azienda potrà beneficiare del contributo gratuito ed entusiasta di tanti “sviluppatori” dilettanti attivi in rete: in sostanza se Arduino fosse stato aperto, poteva ispirare più interesse e ricevere più pubblicità gratuita di quanta ne avrebbe potuto ottenere un pezzo di hardware chiuso e proprietario.
Ancor di più, i geek entusiasti lo avrebbero hackerato e … avrebbero cercato il gruppo Arduino per offrire dei miglioramenti. Loro avrebbero tratto vantaggio da tutto questo lavoro gratuito, e ogni generazione della scheda sarebbe migliorata.
Con il consolidarsi del nuovo prodotto nacquero le Officine Arduino con l’obiettivo, tra l’altro, di fare da incubatore per il nuovo FabLab di Torino; ci piaceva il nome “Officine” per richiamare il sapore delle vecchie piccole aziende italiane che dal nulla si sono inventate di tutto. Un’azienda nuova, una combinazione di Azienda, FabLab e Makerspace unica nel mondo per credere nei giovani talenti torinesi.
L’aspirazione dei creatori di Officine e del FabLab è quella di portare la Digital Fabrication e la cultura Open Source in un luogo fisico, dove macchine idee persone e approcci nuovi si possano mescolare liberamente.
Se dunque idee, conoscenze e materie prime si svincolano dalla geografia, nei FabLab si cercano sistemi e strumenti per valorizzare e promuovere i metodi di produzione locale. Come scritto nello statuto, il Laboratorio Torinese promuove anche la condivisione tra strutture simili presenti sul territorio nazionale ed estero, divulga la cultura Open Source e gli strumenti su di essa basati, utilizza lo scambio di conoscenze come mezzo di crescita e valorizza metodi produttivi non massificati e attenti all’impatto ambientale. Idee perfettamente riassunte nel think globally, produce locally i Neil Gershenfeld.
Conclusioni
Se è vero, come ha raccontato Barack Obama nell’ultimo Discorso sullo stato dell’Unione, che: un ex magazzino abbandonato diventa un laboratorio di ultima generazione dove nuovi “operai” padroneggiano la stampa 3d e questo può rivoluzionare il nostro modo di fare quasi tutto, se è quindi vero che la cultura dei Maker potenzialmente può stravolgere i vigenti equilibri nella produzione dei beni materiali, potremmo davvero trovarci di fronte a una terza rivoluzione industriale.
Dopo la macchina a vapore e dopo il computer, la stampante 3d consente di immaginare un orizzonte diverso che, senza costringerci a rinunciare a nulla dei benefici prodotti con i primi due grandi passaggi e proponendo un’ulteriore notevole espansione delle nostre possibilità, potrebbe restituirci, ricorsivamente, qualcosa che abbiamo perso.
In un importante saggio del 1989, Guido Nardi sostiene che nel mondo delle costruzioni (ma anche quello della produzione dell’oggetto d’uso ha seguito lo stesso destino) la rivoluzione industriale ha interrotto un legame esistente tra il sapere diffuso e il sapere tecnico: fino all’affermarsi della rivoluzione industriale, quando le innovazioni tecnologiche sono venute a cambiare completamente il modo di produrre, modificando l’equilibrio tra natura e cultura e il rapporto tra individuo e società, il nesso fra cultura materiale e costruzione era chiaro e inequivocabile.
Anche il ruolo dei costruttori era più semplice: essi erano i portatori di una tradizione tecnica limitata ma integrata, già definita dalle generazioni precedenti, che non poteva essere messa in discussione, se non trasformandosi subito in contestazione della comunità stessa.
I Maker sono portatori di una cultura tecnica più “limitata” rispetto all’onnipotenza tecnologica dell’industria, ma che nasce e si sostanzia solo alla condizione di essere completamente condivisa, “integrata”. Il soggetto che produce si identifica culturalmente con quello che usa, una parte del suo sforzo creativo è finalizzata a rendere l’oggetto amichevole, magari a rinunciare ad alcune prestazioni ma a tenere sempre in primo piano la comprensibilità, l’affidabilità del meccanismo e del suo funzionamento, a pubblicizzare le logiche di produzione e a migliorarne l’uso attraverso un continuo lavoro collettivo di iterazione e di ottimizzazione.
Questo nuovo rapporto produzione/uso somiglia a quello tipico della cultura pre-industriale ma, invece di nascere da una comunità locale che lo instaura, tende a formare esso stesso una comunità, anche globale, che si raccoglie intorno al singolo oggetto. Tende a ridurre, com’era per l’artigianato, i passaggi di mano del prodotto finito e, minimizzando il costo finale, tende a configurare un’economia molto adatta ai nostri “tempi di crisi”.
E tende ad affiancare alle diffuse capacità fabbrili, proprie delle società fondate sull’economia agricolo-artigianale, una diffusa conoscenza dell’informatica che, grazie ad Arduino, è uscita dai laboratori industriali e, attraverso la filiera internet/stampa 3d, si è “materializzata” per aprire un’epoca che forse potremmo già definire post-virtuale.
tratto dal numero 149