Piercing, tatuaggi, graffittismo: nuove frontiere dell’arte?

FRANCESCA RINALDI
Il tema è sfuggente e finisce con l’imbattersi, inevitabilmente, in quello ampio e irrisolvibile della natura dell’arte genericamente intesa. L’atteggiamento diffuso della cosiddetta adiaforizzazione dell’arte, ovvero della sua estensione illimitata ad ogni forma d’espressione, tende infatti a includere nelle fila dell’arte qualsiasi azione creativa del nuovo o modificatrice dell’esistente.

Con inevitabili implicazioni critiche e operative, ovviamente. Nel caso di fenomeni ibridi come questi, in più, la ricerca viene contaminata dalle forti aderenze con il carattere effimero del fenomeno di costume che trasferisce velocemente certe ricorrenze imitative da un ambito dell’immagine all’altro senza interporvi alcun filtro discriminante.
Lo stesso accomunare nel discorso pratiche decorative tecnicamente disomogenee come piercing, tatuaggio e graffito urbano compromette la chiarezza dell’analisi che rischia di trascurare una necessaria cornice euristica unitaria.
Evitando allora l’inutile sforzo di formulare qui una definizione onnicomprensiva dell’arte o una sua classificazione di rigore ci limiteremo a sondarne le declinazioni nei casi particolari di cui ci stiamo occupando, procedendo per individuazione e scomposizione delle dinamiche e degli elementi connotativi, esibiti o latenti.
Affrontando in apertura la galassia del decoro corporale, una prima osservazione riguarda l’accidentalità del fenomeno ovvero la sua riapparizione improvvisa dai tempi della Marina storica e delle galere: rimasti come animali in letargo ai margini dell’Occidente, da poco più di vent’anni il piercing e il tatuaggio hanno conosciuto un successo macroscopico che verosimilmente può attribuirsi a un’esigenza di differenza rispetto alla omologazione estetica della massa.
Di fatto, da marcatore di una differenza, essi sono rapidamente slittati in una moda deprivata di referenti culturali che finisce con l’innescare altre forme di appiattimento, quando non di esplicita acriticità. È fin troppo nota (e spesso malintesa) la posizione di Loos che, a inizio secolo, annota come il Papua copre di
tatuaggi la propria pelle, la sua barca, il suo remo, in breve ogni cosa che trovi a portata di mano.

Non è un delinquente. Ma l’uomo moderno che si tatua è un delinquente o un degenerato.
E se anche fosse vero che l’impulso a decorare il proprio volto e tutto quanto è a portata di mano è la prima origine dell’arte figurativa, […] il balbettio della pittura, prioritario resta il fatto che l’evoluzione della civiltà è sinonimo dell’eliminazione dell’ornamento dall’oggetto d’uso.
Semplicisticamente liquidata come funzionalista, la sentenza loosiana subordina qualsiasi azione di modifica estetica dell’esistente al suo potenziale di ottimizzazione nella fruizione della realtà stessa (l’ornamento è forza di lavoro sprecata e perciò è spreco di salute) in modo che questa equivalenza tra comodità d’uso e valore qualificante dell’oggetto, maturata in un clima di esaltazione dello sviluppo industriale, escluda in via definitiva dall’apprezzamento estetico ogni esternazione superflua di horror vacui.
Ma prima di assumere il teorema loosiano come scardinatore attendibile di arte falsa, per un’indagine sull’eventuale status artistico della decorazione corporale vanno anzitutto riconosciuti alcuni criteri d’analisi: motivazionale, storico-antropologico, semiologico.
Nello specifico, in relazione all’aspetto motivazionale del fenomeno di massa, mentre alcuni si appellano semplicisticamente all’intenzione (cosciente e conformista) di confezionarsi un look o memorizzare un evento significativo della propria vita, va rilevata, in tutti, una certa irrazionale pulsione all’abbellimento arcaicizzante che virtualmente restituisce una identità mancante all’individuo in formazione.
Che si tratti di post-hippy, grunge o no-global, i ragazzi che oggi si fanno dipingere o forare il corpo non sono semplicemente il prodotto di una subcultura; non sono neppure vittime di una violenta regressione psichica, di un tribalismo di ritorno che ne cancellerebbe la soggettività. Sono piuttosto individui che attraverso la decorazione cercano di esibire una differenza.
Per ciò che riguarda invece il quadro antropologico della questione, la differenza di valore tra il piercing/tatuaggio nelle culture primitive e in quelle cosiddette civilizzate sta nel loro grado di necessità. E qui si ritorna al tema del superfluo stigmatizzato da Loos.
Presso popoli privi di scrittura e linguaggio verbale codificato, il decoro del corpo assume il ruolo essenziale, non surrogabile e pertanto autentico, della comunicazione, esprimendo appartenenza totemico-sociale e garantendo, quindi, la sopravvivenza all’interno del gruppo.
Ecco perché il Papua non è un delinquente: egli rende la nudità originariamente neutra del suo corpo un supporto idoneo all’integrazione socio-culturale con i suoi simili.
L’atto decorativo che comporti dolore sul corpo diventato superficie di prova e di sfida dimostra altresì la forza d’animo di questo individuo al cospetto della comunità, potenziandone, oltre a una presunta bellezza, anche un carisma magico: la tecnica di forare il corpo in determinate parti per modificarne l’aspetto in modo permanente (e spesso irreversibile) è legata ad una concezione magica del corpo e più in generale della natura, in cui la paura e l’attrazione verso il dolore hanno un significato rituale e non vengono affatto dominate razionalmente; […] la sofferenza fa parte del processo di identificazione dell’individuo perché produce in un colpo solo identità e differenza; se sopportare il dolore senza lamentarsi è segno di forza,il piercing, come il tatuaggio o la circoncisione, fa parte dei riti di appartenenza alla tribù.
Non è irrilevante il tempo di ri-emersione di questa ritualizzazione perché appare lampante come il modello, ora, non sia più quello della produzione-accrescimento razionale del sé e della collettività, ma quello postmoderno della deformazione-intensificazione dell’esperienza, dove si compie l’ibridazione dell’Occidente con culture una volta considerate inferiori.
In altri termini, il postmoderno, arcaicizzando il corpo nudo, lo sacralizza, lo riveste, ma assolutamente non in senso cattolico: tende a produrne una visione primitiva, rituale appunto, cioè sacrificale e metamorfica, che rende sempre più inservibile quella «individualistica», soggettiva, cartesiana, del corpo come oggetto di dominio, ma anche quella cristiana della santità-peccaminosità della carne: stiamo attraversando la metamorfosi estetica della forma-soggetto, la sua contaminazione con ciò che Baudrillard chiamava la «circolazione simbolica delle cose».
Infine, rispetto all’approccio, più squisitamente artistico, della semiologia, il dato basilare del fenomeno è rappresentato dal fatto che si è di fronte a un segno ambiguo perché in grado di mentire sul suo proprio significato: tribali, floreali, ideogrammatici che siano, i tatuaggi (così come le forature da piercing) raccontano del corpo che li ospita una storia inautentica, sostanzialmente convenzionale perché scelta entro un repertorio di matrici figurative consolidate altrove, spesso del tutto estranea all’originale (individuo come realtà-sorgente).
Un segno ancora isomorfo – cioè somigliante al referente di cui dice il nome – ma polivalente perché devitalizzato della sua aura originaria.Incoscienza del significato che si aggiunge a una incoscienza della contraddizione quando si consideri il carattere di irreversibilità di piercing e tatuaggi che volontariamente ignorano qualsiasi potenziale evoluzione critica dell’individuo, della sua facoltà di ripensare il reale e se stesso nel tempo futuro.
Nata dal rabbioso nichilismo degli anni Settanta, la decorazione corporale permanente può essere intesa come ancoraggio visuale a una pseudo-convinzione, proiezione del momento presente nel per sempre futuro.
Non solo: il carattere di irreversibilità consegna pure la contestazione ribellione a una forma pura di astanza nella quale, dopo epoche di parole e simulazioni concettuali, arte e vita (finalmente!) si identificano nella materia corporea senza mediazioni interpretative e/o strumentali.
Al di là di una ricognizione sociologica vanno tuttavia ipotizzati possibili punti di confluenza del gesto tattoo con il circuito dell’arte propriamente intesa (ammesso se ne possa davvero dire in questi termini): dall’insistenza sull’aspetto di polemica sociale, sul concetto di differenza, sull’autoreferenzialità del gesto, sull’agito corporeo e sull’etica della sofferenza come verità arcaica si profila una indubbia affinità modale, se non motivazionale, con la Body Art la quale, mentre agisce il corpo come un supporto qualsiasi, ne rivela al contempo la vita densa di espressione latente.
In entrambi i casi si tratterebbe di quel senso di lutto e mutilazione che per alcuni è identità specifica dell’arte moderna, esprimendo il cordoglio per quanto vi è di mutilato, umiliato ed offeso nella vita di tutti. In questo senso l’aspetto di sofferenza corporale che sottende necessariamente la pratica di tatuaggi e piercing trasferisce in visibilità il tabù sensoriale del godimento, il divieto, cioè, di gioire, per decenza, di fronte al dolore del mondo. […]
Esso colpisce nel Novecento tanto gli artisti che il pubblico, obbligati a sottostare alle esigenze di quest’arte triste, che persegue un’ardua e sempre incompiuta catarsi attraverso la via crucis del brutto crudamente esibito.
Così inteso, il dolore (dell’ago) produce un piccolo buco nero: sorta di microscopico nihil negativum, che resiste ad ogni sforzo di comprensione`. E d’altra parte, ancora come la Body Art, l’ostentazione del gesto autolesivo (la trafittura, la scarnificazione, etc…) vogliono darsi come coraggio della rappresentazione non addomesticata e non asservita alle ideologie dominanti, atteggiamento estetico che coinciderebbe con la capacità di rabbrividire in un qualche modo.
Questo vale almeno in teoria; nell’ottica, cioè, di una «indifferentizzazione» dell’oggetto artistico che renda tutto «degno di attenzione estetica». In merito, può chiamarsi in causa la posizione del filosofo Stephen Davies (poi ripresa dall’americano George Dickie) che, postulando una teoria procedurale dell’arte in opposizione a quelle strettamente funzionali o estetico-morali rintraccia la discriminante tra arte e non-aste di un oggetto (o di un’azione) facendo riferimento a pratiche sociali che modificano il suo status, piuttosto che a caratteristiche intrinseche dell’opera in questione: una simile angolazione interpretativa trasferisce in via diretta tatuaggi, piercing e graffitismo su un piano di artisticità per la loro stessa qualità di esposizione visiva all’apprezzamento di un pubblico.
Poco importa il giudizio di merito di questa qualità, che è di fatto rinviato a un momento successivo ciò che realmente fa la differenza è che chiunque pensi a se stesso come a un artista appartiene per questo stesso fatto al mondo dell’arte e, diremmo, a maggior ragione se a costituirne il supporto e la materia prima è il corpo stesso dell’artefice.
Antipolare a queste affermazioni, e dunque scettica sulla valenza artistica del tattoo, è la teoria intenzionale di Levinsonls che richiede invece all’opera d’arte una intenzione dichiarata: un decoro individuale realizzato, come già visto, per moventi autobiografici modaioli o addirittura psico-patologici si sottrae radicalmente a questi requisiti perché non possiede nulla dell’arte intesa come occasione di conoscenza né di quella che è piacere sensoriale allo stato puro e immediato.
Ulteriore spunto d’analisi sta poi in due binomi caratteristici che si delineano all’interno del fenomeno tattoo: il primo è costituito dal rapporto tra committente ed esecutore che, se in un’opera d’arte tradizionalmente intesa è sbilanciato in favore dell’abilità del secondo (spesso anonimo), nella pratica del tatuaggio sposta invece l’attenzione sul ruolo del committente che è, in questo caso, promotore di una certa «volontà d’arte» e supporto stesso dell’opera; il secondo binomio è dato dal rimando reciproco tra il livello esclusivamente formale dell’opera (tratto del disegno, soggetto scelto, efficacia cromatica, etc…) e la tecnica con cui è stata prodotta, la modalità singolare scelta per veicolarla.
Questi binomi introducono altri gradi di complessità nella questione: per un tatuaggio, infatti, assumendo che il supporto epidermico sia equiparabile a un qualunque altro supporto, si potrebbe isolare il valore artistico dell’esecuzione rispetto alla (discutibile) volontà d’arte del committente.
Ma in genere, per quanto eccezionale sotto il profilo formale, cioè eseguito «a regola d’arte», si può concludere che il tatuaggio non rientri propriamente nella sfera dell’arte se non altro per il suo esaurirsi completamente nell’individualità generatrice: in altri termini, esso non viene messo al mondo dell’arte e di tutti, ma alla sola vita del singolo che se ne adorna; solo attraverso di lui si giustifica e muore.
Non c’è, insomma, storia di questa opera che si evolva disgiunta dal suo committente; non c’è autonomia del prodotto artistico rispetto alle contingenze che l’hanno maturata. Siamo al di fuori dello stimolo conoscitivo della cosiddetta «opera aperta».
Ciononostante, se anche concordiamo sull’inconsistenza artistica della pratica tatuativa, interessante resta invece la lettura del fenomeno in termini di ricaduta culturale: col piercing – concepito, insieme al tatuaggio, e più in generale alla body art, come esperienza profondamente relazionale, estetica della fisicità e della nudità – stanno cadendo almeno tre categorie «forti» della cultura occidentale in relazione al modo di concepire il corpo […]:
1) il corpo non è più un’unità chiusa, compatta e intoccabile (statuaria o velata) […]; e, proprio perché non è una macchina inerte (la cartesiana res extensa), viene sottoposto […] a perforazioni, lacerazioni e penetrazioni simboliche che, invece di minacciarne la vita, finiscono coll’esaltarla
2) il corpo forato dal piercing o decorato dal tatuaggio […] è il teatro di una sfida al dolore che in Occidente non trovava adepti da molto tempo;
3) infine, il corpo non viene più considerato «bello» se non quando è dotato di ornamenti sia interni che esterni; il corpo nudo, in altre parole, dev’essere completato con l’orecchino (o con il tatuaggio), e così modificato, il che vuoi dire che non vi è alcuna bellezza naturale, in sé, del corpo, ma che essa è frutto dell’artificio, o meglio dell’arte con cui l’uomo lo adorna: non vi è bellezza semplice, naturalmente perfetta quanto piuttosto la tendenza verso una nuova idea barocca di bellezza come deformazione grottesca, sovraccarico, scrittura cifrata o riproduzione dell’arcaico.
Sospesa tra sfida, costume e un rigenerato senso del sublime, qui la bellezza coincide con l’eccezionalità aggressiva […] della metamorfosi, che è anche un «intervento» sul nudo.
Altra frontiera pseudo-artistica ubbidiente però a una logica diversa, il graffitismo si configura come un fenomeno tentacolare che rivendica creatività libera e originale tramite interventi (obiettivamente invasivi) sul tessuto urbano sconfinando spesso nella tipografia, nel design, nell’abbigliamento: la sua trasversalità si manifesta con una fitta rete di scambi, collaborazioni e contaminazioni a livello internazionale con un pubblico eterogeneo. […]
I muri di New York sono decorati con un linguaggio grafico fatto di immagini e parole, che conquistano i turisti europei tanto da importarlo nel vecchio continente.
In molte capitali europee, prime delle quali Parigi e Berlino, i graffiti arrivano grazie alla musica rap e hip-hop e diventano sinonimo di libertà espressiva e trasgressione. Questa è l’evoluzione che ha portato il moto di rivolta del sottoproletariato nero delle grandi metropoli, nato per contestare i finti valori dell’opulenta società dei consumi, a diventare uno tra i più grandi movimenti mondiali degli ultimi decenni.
Resta da chiarire se sia legittimo considerare la pratica del graffitismo e del writing come corrente artistica a pieno titolo dal momento che i sedicenti «artisti di strada» sono per loro stessa natura refrattari alle convenzioni e alle etichette. La difesa d’ufficio ricorrente, almeno quanto banale, è che l’arte c’entra ma non quella delle gallerie o dei musei. È saper portare il mondo che vedi dentro di te e renderlo visibile a tutti.
Ora, se pure volessimo appellarci alla teoria post-crociana di Collingwood secondo cui il valore dell’arte risiede nella sua capacità di chiarire ed esprimere emozioni personali in modo immaginativo, quella dell’iconografia murale, in quanto volta a suscitare emozioni nel pubblico piuttosto che a chiarirne di proprie, andrebbe comunque ad afferire alla categoria della cosiddetta «arte di intrattenimento» che Collingwood stesso stigmatizza come legittima ma non autentica, sintomo di decadenza morale di una società.
D’altra parte, quella dell’espressione personale esternata in strada non tiene neppure conto di alcuni aspetti convenzionali cui persino l’arte è soggetta, primo tra tutti la facoltà di NON fruirne: l’inchiostro sul muro pubblico si presenta come imposizione unilaterale, non più opzione del fruitore ma arroganza narcisista d’un aspirante autore che utilizza la dimensione del pubblico ad uso privatissimo.
Considerato quanto detto finora, infatti, rispetto alla pratica della decorazione corporale l’elemento connotativo primario dei fenomeni di graflìtismo e writing sembra risiedere nella sfera del pubblico cui essi si relazionano per vocazione: ogni artista che pratica Street Art ha le proprie motivazioni personali, che possono essere molto varie.
Alcuni la praticano come forma di sovversione, di critica o come tentativo di abolire la proprietà privata, rivendicando le strade e le piazze; altri più semplicemente vedono le città come un posto in cui poter esporre le proprie creazioni e in cui esprimere la propria arte.
La Street Art offre infatti la possibilità di un pubblico certo più ampio di quello di una tradizionale galleria d’arte per mettere in circolo una originale idea di plasticità e decoro: l’arte del graffito risponde ad un’autentica esigenza espressiva, alla rivendicazione di un proprio diritto alla parola. Il graffito contrappone all’impersonalità e all’oggettività dello stile adottato dai “bianchi” una modalità espressiva cromaticamente aggressiva.
A una valenza di tipo decorativo viene qui anteposto un intento polemico che si nutre dell’illegalità come suo fattore costitutivo e prima ragion d’essere: come a dire che in assenza di un acclarato divieto di imbrattare muri nessun cosiddetto «artista di strada» avvertirebbe la pulsione estetizzante (ma non estetica) di imporsi in presenza nello spazio della collettività.
C’è in questa violazione, così come nell’arbitrarietà spesso in-significante dei segni tracciati, una memoria di animale da territorio nell’atto di marcare i confini della sua pertinenza; in questo scrivere lettere armate sulle proprietà comuni della città egli compie due operazioni simultanee: rivendica la propria estraneità al sistema di norme che regolano la comunicazione sociale e veicola un sottotesto non accessibile ai gruppi dai quali è stato escluso (o si è auto-escluso).
Nel graffitismo è tangibile cioè una componente di arroganza sociale che manca nel tatuaggio o nella body art; è il frutto di una diversa psicologia, aggressiva verso l’esterno piuttosto che verso la dimensione dell’io perché è il contesto guscio che viene percepito come nemico da demolire.
Quando nell’America della tarda Pop Art un ragazzo di New York in meno di un anno gira tutto lo Stato lasciando, con il nome d’arte «Taki 183», circa 300 mila firme sui muri, nessuno intuisce ancora che Keith Haring ha già inventato qualcosa di inclassificabile.
Per la prima volta in via ufficiale qualcuno ha infatti concentrato tutta la pulsione creativa del writing nella rappresentazione dell’alfabeto e da questo esordio in avanti l’atto dello scrivere il proprio nome d’arte (tag) diffondendolo come un logo sottenderà sempre una partecipazione narcisista alle vicende urbane secondo una modalità semi-autistica che, pur nella pretesa di elaborare un codice comunicativo inedito e articolato, si limiterà in fondo a trasfigurare l’elementarietà della scrittura in una protesta tanto visibile quanto superficiale e priva di un progetto organico.
E neppure la pretesa conclamata di una assoluta libertà nella espressione d’arte sta in piedi fino in fondo se solo si pensa a come lo strumento di questa tecnica condizioni pesantemente la forma della scrittura dove prevale uno stile arrotondante che meglio si adatta all’uso del getto vaporizzato di vernice.
In merito poi alla portata innovativa di queste esperienze, la forza dei cosiddetti «guerriglieri della parola» si regge su di un’istintualità disordinata che raramente riesce ad elaborare una teoria generativo-trasformazionale delle lettere che ci costringa a rivedere i nostri rapporti visivi, percettivi e di comodo. Per qualche critico il risultato sarebbe piuttosto associabile al «balbettamento infantile» del primo Dadaismo di Hugo Ball o ai gorgoglii infrasillabici degli Ultraletteristi francesi.
Nonostante sussista un richiamo alla tradizione storica della pittura murale, il fenomeno congiunto della Street Art, del graffitismo e del writing resta associato ad un wishful thinking che sconfina nel vandalismo e ignora deliberatamente la responsabilità e la consapevolezza di un muralista come Orozco, persuaso che la pittura murale è la forma più alta, logica, pura e forte di pittura.! Anche la piu disinteressata perché non può essere convertita in oggetto di lucro personale né nascosta a beneficio di alcuni privilegiati. Essa è per il popolo, è per tutti.
Altra radice possibile va pure vista nelle Avanguardie di primo Novecento e negli happenings degli anni Settanta, tuttavia movimenti del genere non avevano mai raggiunto una scala globale.
Il confine fra Arte e Vandalismo e tra Fascino e Illegalità contiene quindi una vasta gamma di sfumature, e ad illuminare il pubblico, spesso capace di interpretare correttamente gli stilemi ed i concetti proposti, ci hanno pensato artisti e designer ormai di fama internazionale come il tedesco Mirko Daim Reissier, l’inglese Banksy, i francesi 123 Klan, lo spagnolo La Mano, l’olandese Neck, l’italiano Eron, volutamente evitando la scena americana, totalmente diversa da quella europea.
Eccezion fatta per episodi alla Haring che presto passano lo schermo dello spontaneismo alfabetico per strutturare un sistema più organico di relazioni significante-significato, in linea di massima dal punto di vista semantico il writing lascia completamente decantare il livello testuale della scrittura, svuotandolo di qualsiasi consistenza referenziale, per amplificarne l’aspetto puramente formale, in un’astrazione solo lontanamente simile a quella propria della cultura islamica che, per note ragioni dottrinali, ricorre alla grafia ornamentale in sostituzione della rappresentazione figurativa.
Il fenomeno dell’altra arte merita tuttavia attenzione critica se non altro per la globalità di cui è saturo e la straordinaria rapidità con cui colonizza da anni ogni tipo di tessuto urbano, ritagliandosi iniziative dedicate, eventi transfrontalieri, festival e convegni di studio impegnati nel traghettarlo dallo status vago di aspirazione artistica (forma di Kunstwollen su scala metropolitana) a quello di corrente d’avanguardia contemporanea.
In sintesi, al di là di qualsiasi riconosciuto virtuosismo tecnico, di un impatto cromatico violento che possa riscattare in alcuni casi il grigiore squallido dei sobborghi metropolitani o di una indiscutibile vena immaginativa degli street artists, ciò che può realmente considerarsi costruttivo in queste nuove modalità creative è l’aver sottratto la comunicazione alla tirannide mistificatoria del mercato da galleria: il carattere spiccatamente popolare dell’arte di strada, infatti, così come quello spiccatamente privato e inalienabile del tatuaggio, solleva entusiasmo perché si illude di democratizzare finalmente il binomio espressione! fruizione.
Ma ogni avanguardia, vera o presunta che sia, ha il destino di collassare al contatto con quello stesso sistema di cui ai suoi inizi intende farsi antagonista: così, quando Basquiat, Haring, Rammelzee o Clark varcano la soglia della prima tela venduta in galleria ogni promessa di arte di frontiera è già rientrata nei ranghi.
tratto dal numero 136