Abitare la razionalità

FRANCO PURINI
L’architettura vive oggi una condizione critica caratterizzata da una molteplicità di problematiche contrastanti, segnata dalla compresenza di più direzioni di ricerca in conflitto tra di loro,sottoposta dall’arte a una pressione che si sta facendo insostenibile, resa difficile da una diffusa indeterminazione dei rapporti che essa intrattiene con gli ambiti che la definiscono come un sistema.

Superando ampiamente, ma anche deformando in modo sostanziale gli orizzonti, tendenti a una risemantizzazione dell’architettura, che Renato De Fusco aveva individuato nel 1967 nel suo Architettura come mass media, gli edifici si sono trasformati in misura sempre maggiore in veicoli pubblicitari a servizio della logica astratta e atopica delle real estate; parallelamente l’architettura ha rinunciato a prefigurare nuove prospettive per la città, limitandosi a registrare a posteriori ciò che in essa avviene.
Al contempo la stessa idea di architettura si è fatta così plurale, relativa e metamorfica da rendersi indefinibile e di fatto inoperante, con il risultato che la ricerca teorica e la riflessione critica stanno subendo un eclisse crescente mentre ogni ipotesi disciplinare appare confusa, intercambiabile e incidentale.
Questa situazione babelica la quale, specialmente in Italia, dove esiste un’abnorme sproporzione tra il numero degli architetti e le opportunità di cui essi dispongono, una situazione che per inciso qualcuno potrebbe anche ritenere, a ragione, endemica, è pervenuta recentemente ad un livello per più di un verso patologico.
In questo contesto così impervio e complesso, pur se, per altro verso, proprio per questi suoi caratteri suggestivo e avventuroso, l’unica possibilità di costruirsi un punto di vista dotato di una qualche oggettività, dal quale dedurre una serie di conseguenze provviste anch’esse di una certa solidità concettuale, consiste nel chiedersi a che cosa serva l’architettura.
In effetti, solo una risposta motivata alla domanda su quale sia il suo ruolo dell’architettura sembra in grado di chiarire le finalità e le priorità dell’atto costruttivo. Su questo interrogativo si è svolto recentemente un convegno alla’Accademia Normale di San Luca,
che ha visto confrontarsi opinioni diverse alla ricerca di punti di vista teorici e di strategie progettuali confrontabili.
Spogliata di ogni sovrastruttura discorsiva, delle numerose false coscienze che notoriamente l’accompagnano, nonché di quelle tendenze, oggi così presenti e condivise, che la considerano un derivato della sociologia, dell’economia e della psicologia, l’architettura si rivela, molto semplicemente, come lo strumento per migliorare l’abitare. Il suo compito è solo questo.
Migliorare l’abitare è un obbiettivo e insieme il modo di essere dell’architettura, il luogo concettuale che polarizza ogni suo aspetto facendo convergere le aspettative individuali e collettive in un preciso ambito teorico, tecnico e linguistico nel quale esse possono essere ascoltate e realizzate. Migliorarlo, tra l’altro facendo sì che il suo incremento funzionale, rappresentativo ed estetico sia compreso e condiviso dalla comunità.
Tale plusvalore non deve proporsi infatti come un’accelerazione improvvisa dei processi vitali e dell’abitare delle sue forme, ma con l’esito graduale di tendenze in esso presenti. Affermare che l’architetto deve migliorare l’abitare comporta il fatto che la sua disciplina deve dar luogo a una attività – che è un’arte e insieme una scienza – essenzialmente positiva.
Ciò significa che, a differenza della letteratura, dell’arte pittorica e plastica, del cinema, della musica, della danza e della poesia l’architettura non ha la possibilità di descrivere la sofferenza, il disagio, lo spaesamento, l’insensatezza del vivere, la perdita di sé, la tragedia.
L’architettura non dovrebbe costruire spazi angoscianti, oppressivi, claustrofobici o agorà fobici, come è avvenuto negli ultimi anni in molte opere de costruttive che hanno recuperato, come nel caso di Daniel Libeskind, le atmosfere allunate e distorte dell’espressionismo, essa compete definire gli spazi della socialità in quanto spazi destinati, come sosteneva Le Corbusier, alla felicità degli esseri umani.
Se questo è vero è allora anche vero che l’arte del costruire ha a che fare con la sfera della solidità, dell’utilità e di una bellezza armoniosa e accogliente. Come in Vitruvio, dato per finito qualche anno fa da Kurt Forster, curatore di Metamorph, la 9 Mostra Internazionale di Architettura alla Biennale di Venezia del 2004.
Prima di continuare il discorso iniziato è utile a questo punto mettere in evidenza alcune contraddizioni che attraversano l’architettura in questo inizio del Ventunesimo Secolo.
La prima di queste contraddizioni consiste nel fatto che, se nella cultura contemporanea e nel sentire comune la città è vista come un sistema di flussi, di relazioni contestuali, di segnali in incessante progressione, se è vissuta come luogo di una pluralità di fenomeni in continua evoluzione immersi in un dinamismo totale, capace di evocare un’infinità cosmica, questa stessa fluidità non è traducibile in quanto tale nell’architettura. Questa, infatti, non è mai mobile e metamorfica.
La facciata romana di San Carlino di Francesco Borromini è una superficie curva che evoca senz’altro un movimento ma solo perché chi la osserva effettua un trasferimento empatico da se stesso all’oggetto architettonico, attribuendo a tale oggetto una sensazione provata dallo stesso osservatore.
In realtà quell’edificio, ma la stessa cosa si può dire per le opere di Frank O. Ghery, di Zaha Hadid o di Peter Eisenman, sta fermo sulle sue fondamenta, esattamente come un volume statico di Oswald Mathias Ungers. Sia esso plasticamente articolato, spazialmente compenetrato ed in qualche punto dissolto nell’atmosfera o, al contrario, raccolto oltre a se stesso come un blocco unitario, un edificio è sempre una presenza solida che occupa un punto preciso ed unico dello spazio urbano, indipendentemente dalle impressioni che esso può suggerire, e dalle metafore che è in grado di attivare.
Il senso della fluidità è allora qualcosa che non può appartenere per davvero all’architettura, configurandosi come una sua aggettivazione secondaria, in qualche modo aggiuntiva, un mezzo accidente descrittivo.
In altre parole il senso della fluidità rappresenta un elemento che genera equivoci piuttosto che offrire nuove chiavi interpretative. Quanto detto è valido anche per altri trasferimenti empatici quali quello relativo alla pluralità inteso in architettura come moltiplicazione semantica del manufatto o alla presenza di segnali visti come autoproduzione di messaggi da parte dell’edificio.
Una seconda contraddizione riguarda sempre la città, di cui si considera in questo caso la condizione strutturale. Nella modernità la città la scelta di essere discontinua, illimitata, dispersa, disordinata, frammentaria, disorganica, smisurata. Questi caratteri si sono talmente radicati da aver prodotto un vero e proprio immaginario.
La città dal Novecento si è rappresentata nel cinema, nell’arte pittorica e plastica, nella musica, nella danza, ma soprattutto nel cinema, come un insieme governato dal caos. Un insieme entropico capace di provocare sorpresa e meraviglia, accompagnata dall’entusiasmo e dal piacere benjaminiano del perdersi.
Tuttavia questa essenza energetica della città, così forte da provocare stordimento e perdita del controllo su di se in chi la vive, travolto dai suoi rimi accelerati, pur iscrivendosi in una vera e propria estetica, è in profonda opposizione rispetto alle qualità che si richiedono all’abitare.
Questo dovrebbe infatti essere limitato, misurato, riconoscibile, armonico, gerarchico, in grado di garantire sicurezza, accoglienza, possibilità di coltivare nel migliore dei modi i rapporti sociali.
Deve essere limitato ovvero dotato di ben definiti elementi di margine perché occorre sempre poter individuare i confini reali e virtuali degli spazi, se si vuole evitare di causare senso di disorientamento; deve sostenersi su un sistema di misure di agevole lettura chiamato a contribuire alla sua riconoscibilità, vale a dire alla possibilità di possederlo mentalmente e di decifrarlo nel suo insieme e nelle sue parti.
Sul fatto che l’abitare debba essere armonico non ci possono essere dubbi, nonostante l’architetto possa subire il fascino della disarmonia, un carattere che egli sarebbe costretto comunque a escludere dall’architettura che disegna e costruisce.
Anche la necessità che l’abitare possieda una gerarchia, ovvero una gradazione in esso di valori differenziati, non ha bisogno di essere argomentata, essendo un requisito che assicura all’abitare stesso una giusta relazione tra le sue componenti.
Garantire sicurezza, accoglienza, possibilità di coltivare rapporti sociali sono tre requisiti indiscutibili dell’abitare alla pari del carattere armonico che esso deve presentare. In sintesi, la città del Novecento e fatta di spazi destabilizzanti e perturbanti, spesso ostili e pericolosi e ciò è in conflitto con l’abitare, che dovrebbe essere protetto, selettivo, disponibile a essere memorizzato e per questo dotato di punti singolari, carichi di significati topologici e architettonici.
Un’altra contraddizione concerne una questione temporale. La cultura moderna e contemporanea ha scelto la dimensione dell’effimero e dell’istantaneo, esautorando tutto ciò che è duraturo.
In accordo con questa, molti, anche tra gli architetti, ritengono che ciò che ha una vita brevissima sia portatore di un senso di disponibilità al cambiamento, di una libertà di configurazioni in altre forme, di non inverarsi in soluzioni così persistenti da risultare alla fine con convenzionali e per questo, autoritarie.
In realtà l’architettura contrariamente a quanto affermavano gli architetti futuristi, non può essere istantanea ed effimera. Anche quando essa dura poco, come avviene per gli stand di una esposizione – si pensi ai bellissimi padiglioni di Lucio Baldessari – essa appartiene al novero delle cose durevoli, di cui possiede le proprietà strutturali nonché i modi attraverso i quali queste vengono decodificate.
Gli allestimenti di Franco Albini, ad esempio, sono contraddistinti da un impianto talmente rigoroso, così scandito in sequenze musicali e correlato nelle sue parti da assumere nella memoria quella permanenza con la quale si ricordano i momenti. All’architettura si deve quindi chiedere di farsi solido antemurale nei confronti del tempo, rappresentando ciò a cui si può si può sempre tornare.
Un’ultima contraddizione si riconosce nella prevalenza nella città moderna di ciò che è aperto rispetto al chiuso. Anche in questo caso si crede che l’apertura sia il segno di una maggiore libertà, della capacità di lasciare spazio all’attraversamento degli spazi urbani da parte di fenomeni e di cose che portano elementi nuovi.
Si pensi a questo proposito alla mitologia del nomadismo, considerato come il massimo emblema di una città che è capace di ospitare culture diverse e di convivere con esse. Ciò che è chiuso è simmetricamente visto come un rifiuto nei confronti dell’incontro con l’altro. È evidente come questa contrapposizione non debba essere meccanica ed esclusiva ma a sua volta inclusiva e dialettica.
L’abitare non può essere o aperto o chiuso, ma aperto e chiuso allo stesso tempo. Esso ospita una comunità identificandola con un perimetro nel momento stesso in cui questo perimetro è interrotto da porte per consentire ad esso di accogliere persone e cose in una continua interrelazione di ciò che permane con ciò che cambia.
Alla dimensione chiusa dell’abitare si richiede quindi di trattenere una serie di suoi contenuti, a quella aperta di riformularli incessantemente alla ricerca i equilibri temporanei, destinati dopo un certo tempo ad essere anche essi modificati.
Le contraddizioni descritte nei paragrafi precedenti, che impegnano il progetto in mediazioni tanto incessanti quanto, quasi sempre, inadeguate, si iscrivono nel loro insieme in una convinzione estesa e radicata, consistente nel credere che la realtà sia troppo complessa per essere governata. Si ritiene che non sia possibile intervenire su di essa per cambiarla, ma che sia consentito solo rappresentarne i processi.
Ma non basta. Soggiacendo alla complessità spesso mitizzata, ci si sottrae a uno dei compiti principali dell’architetto, quello di trasformare la complessità stessa in semplicità scegliendo, all’intero di chiare priorità, soluzioni che possono essere comprese da tutti nelle loro finalità e nelle modalità con le quali esse saranno messe in atto.
In questo modo, rinunciando a quella distanza critica di cui parla da tempo Vittorio Gregotti, ci si limita ad assecondare i fenomeni osservati, individuando nei risultati dell’analisi la finalità stessa dell’operazione progettuale.
Si afferma così un’ottica che si potrebbe definire superrealista per la quale il progetto è il calco di una condizione esistente ritenuta, con un certo compiacimento, estetizzante, immodificabile, soggetta soltanto ad essere trascritta negli interventi urbani ed architettonici negli stessi termini con i quali essa è stata rilevata.
Le posizioni di coloro che si riconoscono nella teoria della città generica e dello junkspace di Rem Koolhaas, rappresentano un modo sofisticato almeno quanto ambiguo di lavorare all’interno dell’equivalenza tra ciò che si osserva e ciò che si propone.
Se fosse vero che la città contemporanea non ha più identità, e che lo spazio pubblico sia solo uno scarto – un rottame come quelli di cui parla Zygmunt Baumann quando descrive le metropoli globali come altrettante discariche – l’unica cosa da fare sarebbe quella di restituire alla città stessa e ai suoi spazi riconoscibilità e senso comunitario.
Al contrario, chi condivide le prospettive koolhaasiane ritiene opportuno confermare l’omologazione della città contemporanea e il proscioglimento dello spazio pubblico in quello del consumo, di cui diventa una semplice appendice funzionale.
La stessa cosa si può dire per coloro che trasferiscono l’ipotesi di Marc Augé, relativa all’esistenza dei non luoghi, nel progetto urbano. Il compito dell’architetto non è quello di celebrare l’atopia, ma quello di trasformare i non luoghi in luoghi, ovvero spazi nei quali sia possibile, da parte di chi abita, stratificare usi, memorie e valori collettivi, in una parola quelle narrazioni senza le quali la città non avrebbe senso.
Quanto detto riguarda anche i sostenitori dell’architettura della comunicazione, materializzata dai media building. Sovrapponendo ai volumi e agli spazi che essi contengono, entrambi ritenuti semplici supporti per l’involucro inteso come una pelle iridescente e cangiante nella quale si concentrano tutti i significati dell’edificio, si sovrappone alla città dei flussi una sua replica esasperata, sovente sottilmente parodistica.
L’architettura non è più fatta di ambienti dove si vive. Essa si riduce alla bidimensionalità di schermi e di griglie e di transenne che veicolano segnali o motivi decorativi. Simili a televisori o a opere di arte plastica – le archisculture teorizzate da Germano Celant- gli edifici fanno a gara nel dissimulare la loro vera natura rinunciando a esprimere quei contenuti architettonici attraverso i quali si passa gradualmente dal suolo al cielo dando una forma compiuta a ogni fase del processo costruttivo.
Un processo che è analogo a quello con il quale gli esseri umani edificano la loro comunità. Tuttavia, le architetture decostruttiviste, i media building, le archisculture o le sofisticate almeno quanto ingenuamente futuribili macchine performative dell’high tech, cariche di una hybris ammonitrice e moralizzante non sono le sole a non corrispondere al loro ruolo esagerandolo, mistificandolo o diminuendolo.
Non si può infatti dimenticare l’assessione descrittiva e paligenetica del paesaggismo, uno spazio problematico per certi versi nuovo che sta cercando di sostituire, e in fondo di negare, gli ambiti propri del territorio e della città a favore di una totalizzazione estetica del mondo fisico nutrita di un ecologismo idealizzante.
Sostituendosi ai codici del linguaggio urbano e architettonico, e di conseguenza alla loro storicità, i segni del paesaggismo pretendono di trasformare ogni area del pianeta in un’opera d’arte dalla pervasiva e insidiosa ridondanza retorica insidiosa perché fa leva sull’etica in una captatio benevolentiae venata di opportunismo e di mitologia ambientalista sospesa tra efficientismo e spiritualismo.
Negli ultimi anni sono emerse una serie di critiche motivate alla dissipazione superrealista che è stata appena sintetizzata. Alcune voci di diversa provenienza, oggi non più scarse e isolate ma numerose e per così dire, messe in rete, stanno procedendo a una profonda revisione della condizione attuale dell’architettura. Franco La Cecla, con il suo Contro l’architettura vuole richiamare questa disciplina alle sue responsabilità, tendendo però a ridurla a una espressione socio- antropologica.
Vittorio Gregotti, in polemica con lo stesso La Cecla e con un forte interesse per le tesi di Arthur Danto sulla fine dell’arte, ripropone la già richiamata distanza critica come ambito per una ridefinizione del ruolo dell’architettura interna ai suoi strumenti specifici.
Camillo Langone, ne Il collezionista di città mette in evidenza gli eccessi autoreferenziali e il carattere anticontestuale dell’architettura contemporanea. Nikos A. Salingaros svolge in Architettura e demolizione – la fine dell’architettura modernista, una accurata requisitoria contro il nichilismo decostruttivista, mentre in Principles of Urban Structure espone una teoria completa e convincente sul disegno di insediamenti urbani compiuti e organici in opposizione al dilagare della città diffusa e alla scomparsa dello spazio pubblico.
Accenni altrettanto critici nei confronti del meccanicismo atopico e della deriva mediatica dell’architettura contemporanea si trovano negli interventi di Roger Scruton e nell’attività teorica di Claudio D’Amato, curatore del concorso Città di Pietra, una delle manifestazioni interne alla 10 Mostra Internazionale di Architettura della Biennale di Venezia del 2006.
Il concorso promuoveva la ricerca di modalità costruttive legate all’uso di materiali lapidei in opposizione sia alla tettonica discontinua del cemento armato e dell’acciaio, sia al declino della tipologia, in quanto principio in grado di conferire omogeneità e riconoscibilità al tessuto edilizio, un principio erroneamente ritenuto oggi, dalla maggior parte degli architetti, del tutto superato.
Diverso per molti aspetti dalle posizioni esposte quella di un altro importante protagonista del dibattito architettonico contemporaneo, Paolo Portoghesi.
Facendo proprie alcune riflessioni di Gregory Bateson egli sostiene da tempo la necessità di un nuovo patto tra natura e architettura – Natura e architettura è il titolo di un suo libro del 2003 – per un abitare più organico avanzato, nel quale la sostenibilità non sia soltanto un’esigenza tecnica ma l’ambito di una nuova bellezza dell’architettura.
Tranne la posizione di Franco La Cecla, di Vittorio Gregotti e di Paolo Portoghesi, le altre si situano tutte, con diverse sfumature, nell’ambito dell’altra modernità se non proprio dell’antimodernità.
È questo, in effetti, il discrimine. La condizione attuale dell’architettura, per la quale essa appare oggi non solo incapace di raggiungere i propri obbiettivi, ma soprattutto intenzionata a contrastarli, non sembra superabile assumendo come riferimento le tesi, peraltro complesse e motivate, dal New Urbanism, una corrente di pensiero e un orientamento progettuale derivanti dalle teorie di Christopher Alexander e di Leon Krier.
Anche se le analisi prodotte dai rappresentanti di questo movimento, tra i quali Salingaros, sono ampiamente condivisibili, ciò che non appare accettabile è la ricerca di alternative al di fuori delle problematiche dell’architettura moderna.
Ovviamente non tutto ciò che i teorici della modernità architettonica hanno sostenuto è oggi valido – si pensi ad esempio alle astrazioni, alle schematizzazioni e alle premesse omologanti presenti nella Carta d’Atene – ma senza dubbio i numerosi fenomeni degenerativi che hanno accompagnato l’applicazione dei sui principi possono e debbono essere eliminati agendo all’interno di questi stessi principi.
Nonostante l’autenticità dell’impegno che anima i sostenitori del New Urbanism, i risultati del loro lavoro non convincono del tutto perché immersi in un clima revitalistico e artificioso, che recupera forme del passato allestendo scenografie urbane seducenti e al contempo ingannevoli.
In qualche modo le opere concepite all’interno di questa corrente, – come ad esempio Seaside, di Andres Duany e Elizabeth Plater – Zyberk la nuova città in Florida nella quale è stato ambientato il film The Truman Show – presentano un percepibile sdoppiamento tra un impianto urbano rigoroso e armonico, sapientemente strutturato secondo gerarchie scalari che differenziano i percorsi con accurate modulazioni dimensionali, e il ricorso a un linguaggio architettonico cha gioca più sulla sua capacità evocativa che sulla propria logica.
Tale dissociazione sancisce una distinzione tra la sfera pubblica e quella privata. La prima è il luogo di un ordine che permea ogni ambito dell’insediamento, rappresentandosi soprattutto nella pianta, la seconda si riconosce in una serie di varianti di un codice classico visto come un repertorio infinito, ma anche largamente interscambiabile e aleatorio, di soluzioni architettoniche.
Queste critiche non tolgono comunque validità alle analisi dalle quali in New Urbanism trae i propri principi. Analisi sulle quali chi si riconosce nella tradizione moderna dovrebbe riflettere seriamente alla ricerca di come queste possano essere acquisite in ordine problematico dedotto criticamente da questa stessa tradizione.
In effetti, nelle diagnosi di La Cecla, di Gregotti, di Portoghesi, ma anche nelle posizioni di Giorgio Grassi, di Antonio Monistiroli e di altri esponenti della Tendenza, esistono elementi comuni a quelli che emergono da quanto affermano Langone, Salingaros, Scruton, D’Amato.
I due fronti sono infatti uniti dal rifiuto dell’autoreferenzialità, dal considerare l’operazione progettuale qualcosa che ha bisogno di una sua logica, dall’attenzione per il contesto -che per inciso Rem Koolhaas disprezza – dall’idea che l’abitare debba essere progettato nella sua interezza e non considerato come un’estensione illimitata, indifferenziata, destrutturata e frammentaria, disponibile ad accogliere architetture casuali, landmark chiamati a esaltare singoli punti del tessuto urbano all’interno di una discontinuità accettata come un dato in qualche modo non suscettibile di essere modificato.
L’architettura è un’espressione collettiva. Essa non viene cercata ma è essa stessa che si propone autonomamente a chi attraversa la città. Per questo non deve essere aggressiva, invasiva, iperdisegnata e spettacolare. Per la sua stessa natura l’architettura dovrebbe invece, a differenza dell’arte, collocarsi nel registro medio dell’espressione.
Va chiarito che in tale registro essa può toccare la massima intensità – si pensi alle opere di Giuseppe Terragni – senza che venga infranto quel patto che prevede per l’architettura l’obbligo, per così dire, a dissimulare, la propria riconoscibilità linguistica all’interno della moltitudine di edifici che costituiscono la città.
Proprio a causa del carattere pubblico dell’architettura il suo linguaggio è costretto a vivere una condizione duplice. Come si è già detto, esso è tenuto ad assumere una tonalità media ma al contempo può e deve proporre anche un secondo livello espressivo, un piano linguistico che può essere complesso fino all’ermetismo, denso di rimandi e di assonanze, attraversato da conflitti.
Da questo punto di vista non c’è limite alla sperimentazione formale, ma solo se essa si configura come una scrittura parallela, un discorso introverso che non interferisce con la necessità che l’architettura metta in primo piano la sua essenza collettiva, il suo doversi inserire in una situazione di sostanziale equivalenza delle varie evidenze che essa può volta per volta assumere.
La normalità contro l’eccezionalità, dunque, una normalità che non esclude una sua esistenza laterale, a volte appartata fino alla segretezza. In fondo si tratta di accettare la dimensione dell’anonimato – la sfida eroica della modernità- come luogo della più ampia possibilità di essere compresi.
Ricordandosi, nello stesso tempo, che il silenzio al quale la ragione permette di arrivare può conciliare la più radicale rarefazione della scrittura architettonica con una estrema concitazione della forma.
Migliorare l’abitare, il fine dell’architettura, si inserisce nel quadro descritto in queste note. Un quadro che individua nella razionalità la categoria principale di un’architettura in grado di corrispondere pienamente al suo ruolo.
Ci si potrebbe spingere ancora più avanti sostenendo che la razionalità è in qualche modo un sinonimo della stessa architettura, dal momento che senza il sostegno della logica, della chiarezza, della consapevolezza delle scelte da fare e delle operazioni da compiere l’architettura difficilmente può essere pensata e costruita.
Una razionalità non ridotta comunque a una questione di metodo, o confinata nella lucidità di analisi esaurienti e illuminanti, ma aperta a verificare quanto di irrisolto o di inascoltato ci sia nella realtà, che cosa questa richieda per continuare a essere considerata come tale, e non una sua alterazione o una sua inerte prosecuzione, in che cosa essa coincida con ciò a cui l’abitare tende.
Abitare la razionalità come una forma di utopia della realtà allora, come la ricerca costante di ciò che riesce a giungere là dove è atteso.
tratto dal numero 134