Il Design oggi

VANNI PASCA
1. Considerazioni generali
Una domanda s’aggira tra i designer: cos’è il design oggi? (cos’è diventato? dove sta andando?) Esiste ancora, o si è talmente esteso nelle sue pratiche da aver perso ogni identità, fino a identificarsi con un concetto un po’ generico, di «progetto» tout court (e forse vale la pena ricordare che in inglese design significa appunto: progetto)?

È evidente come questa domanda ammetta due possibili interpretazioni. La prima, richiede che si analizzino i processi in atto. La seconda, implica il rimpianto per i bei tempi che furono: nel nostro paese, in particolare, i bei tempi del «design italiano», inteso (secondo l’ossimoro proprio dell’interpretazione tradizionale) come manifestazione multiforme ma unitaria, in buona parte derivata dalla tradizione bauhausiana (intesa anch’essa come monolitica).
Per impostare diversamente il problema, sarebbe utile fare riferimento alla tesi degli storici dell’economia che parlano di tre fasi della rivoluzione industriale, dalla seconda metà del ‘700 a oggi, e leggere ii design nel suo diverso manifestarsi, teorico e pratico, nelle diverse fasi. Ciò aiuterebbe a comprendere come le sue espressioni si siano modificate, riformulate, ampliate in ognuna di esse.
Del resto, la stessa classica formulazione di Renato De Fusco, quella che identifica il design in “un unitario processo: il progetto, la produzione, la distribuzione, il consumo”, andrebbe letta, secondo chi scrive, analizzando come queste quattro dimensioni si siano manifestate con modalità diverse di fase in fase.
Per fare qualche esempio: dalla fabbrica ottocentesca al fordismo e al postfordismo; dal primo sviluppo dei consumi nell’ottocento, alla società dei consumi, fino alle attuali modalità connesse alla mondializzazione, alla competitività internazionale, alla digitalizzazione della comunicazione.
E quindi, verificare anche le modificazioni della progettazione in rapporto a queste trasformazioni, definendo per il design i fattori di continuità ma anche il suo diverso esprimersi di fase in fase.
Anni fa, in un convegno dal titolo «Design: storia e storiografia», si assumeva per storiografia la messa in prospettiva storica degli studi storici stessi, la
«storia delle storie» per dirla con Le Goff, e quindi la riflessione su come fare storia: ciò anche per superare una modalità di fare storia del design come mera raccolta, per quanto indispensabile e approfondita, di materiali.
In quell’occasione chi scrive formulava appunto l’ipotesi del modificarsi del concetto e della prassi del design nelle diverse fasi della rivoluzione industriale. Dall’Ottocento, che ha visto lo scontro tra cultura romantica e cultura razionalista, tra nostalgia della comunità con apologia dell’artigianato, e adesione ragionata alla società industriale; al Novecento, diviso tra etica-estetica delle avanguardie e fordismo; alla nostra fase, ancora in parte da definire, in cui una serie di processi rivelano un modificarsi radicale del ruolo e dell’importanza del design.
Osserviamo alcuni di questi processi.
Prima di tutto, la sua estensione geografica. Fino a qualche anno fa, si ragionava sulla presenza del design Solo in pochi paesi industrializzati: l’Italia, la Germania, i paesi scandinavi, gli USA, il Giappone e poco altro.
Oggi si fa design in tutto il mondo e i paesi emergenti, dalla Cina all’India al Brasile, investono in design, considerato un plus non solo per le aziende ma per i sistemi-paese, nell’acuirsi della competitività internazionale indotta dalla globalizzazione. Si pensi, per fare solo un esempio, ai piani quinquennali del governo di Taiwan dalla fine degli anni ’80, in sostegno delle scuole di design, degli studi professionali, delle riviste, del sistema design nel suo complesso.
C’è poi una forte estensione numerica: cresce il numero dei designer, dei docenti e degli studenti di design. In Italia, a partire dalla metà degli anni ’90 del secolo scorso, sono nate numerose scuole universitarie di design.
All’estero la cosa è molto evidente. Si pensi all’enorme numero di designer previsto in Cina con le lauree dei prossimi anni. Si passa quindi da una professione di élite a una professione ampiamente diffusa sui territori.
Infine, l’estensione tipologica. Non c’è ormai tipo di prodotto che non venga investito dai processi di estetizzazione attivati dal design, per poter competere sui mercati globalizzati, o almeno cercar di resistere alla competizione delle merci importate. Se in Italia si intendeva per design principalmente il furniture, si rifletta sull’importanza odierna dell’industria degli occhiali e del settore agroalimentare.
Oggi i designer progettano mobili e automobili, cellulari e iPod, packaging ed etichette, grafica editoriale e comunicazione visiva, padiglioni per le fiere, artefatti per il web, fashion e così via. Design oggi significa quindi progettazione di artefatti tridimensionali, e non solo di prodotti.
Si osservi la crescita nelle città della progettazione di attrezzature di servizio per enti pubblici e privati, spazi interni ai centri di vendita multifunzionali, ai luoghi di accoglienza, culturali, di svago: insomma, la fusione di interiore di exhibit design.
Design significa anche progettazione di artefatti visivi, informativi e comunicativi, virtuali. E la distanza tra i due tipi di progettazione tende a scomparire: è ormai nel rapporto tra comunicazione visiva e materialità del prodotto che si gioca la competitività di esso.
Ma non solo: la progettazione della corporate image si è sviluppata nel design strategico, nel design degli eventi, nel design per la valorizzazione delle risorse territoriali e così via. Infine, artefatti tridimensionali e artefatti visivi sono sempre più interconnessi, e la progettazione dei nuovi scenari visivi si intreccia sempre più con l’arte, la fotografia, il video, il web.
Nella terza fase della rivoluzione industriale (o seconda modernità, o modernità liquida, o comunque si voglia definirla) ci si trova con tutta evidenza, per quanto riguarda il design, di fronte a un nuovo modello.
Non si tratta di sostituzione senza residui di un nuovo modello al precedente: come in ognuna delle fasi passate, si modifica il modello prima dominante, sostituito da nuove modalità di manifestarsi del design, ma permangono modalità precedenti anche se correlate al nuovo scenario (che quindi aumenta progressivamente in complessità, talché è sempre più difficile parlare di una o di alcune tendenze dominanti, in particolare di quelle stilistiche).
Così, ad esempio, la modificazione del quadro è data certo dall’affievolirsi progressivo del paradigma fordista, ma non dalla scomparsa dell’industria (e dell’industrial design), che non ha mai conosciuto un’estensione analoga (si pensi all’India, alla Cina, ai recentissimi sviluppi in alcuni paesi africani).
Tenendo quindi conto di ciò, e anche del fatto che partecipiamo a processi ancora in corso, non è possibile, secondo chi scrive, rispondere alla domanda posta all’inizio (cos’è, dove va il design?) con una risposta univoca.
Ci si trova di fronte a una serie di manifestazioni che non consente riduzioni. Troppo lungo sarebbe anche tentare di compiere una mappatura della situazione odierna: è vero però che alcuni temi appaiono emergenti. Segnalarli è quello che di seguito si cercherà di fare, senza pretese di esaurire l’argomento.
2. Il lusso, l’arte, il design: i due mercati
Iniziamo con l’osservare una serie di fenomeni che caratterizza il mondo del furniture design (ma non solo).
a) Prima di tutto, crescono slittamenti verso l’arte, fino al diffondersi di una nuova definizione, «Design Art». Si ricordi come il fenomeno dei pezzi unici e delle piccole serie abbia caratterizzato in buona parte gli anni ’80, quando fiorirono in tutta Europa gruppi di designer, sul modello degli italiani Alchimia e Memphis: tra questi, One-Off dell’ organico- Ron Arad (e One-Off in inglese significa proprio «pezzo unico»).
Anthologie Quartett che proponeva tra gli altri un designer “barocco” come Borek Sipek, e così via. Si aggiunga, a tutto ciò, l’esaurirsi sul mercato antiquario degli oggetti Liberty e Déco, e in buona parte anche del cosiddetto modernariato, parzialmente riassorbito dalla rimessa in produzione da parte delle aziende dei loro pezzi «storici» più singolari.
Ora antiquari e mercanti d’arte hanno visto la possibilità della creazione di un nuovo mercato di pezzi unici, o a tiratura limitata, firmati.
Ci hanno pensato le grandi case d’aste, come Christie’s e Sotheby’s, che hanno inziato a battere pezzi unici di design a cifre fino a poco tempo fa impensabili (per un armadietto di Mare Newson, Christie’s ha segnato un record: 1,05 milioni di dollari). Poi, i Saloni, da Londra a Basilea a Miami. Poi gli stilisti, come Dolce e Gabbana che presentavano nel 2004, durante il Salone del mobile di Milano, nelle sale di un cinema da loro trasformato in sede per eventi, poltrone-scultura di Ron Arad.
Ancora, le gallerie d’arte, come Established & Sons di Londra. Infine il grande gallerista Larry Gagosian, forse il più potente mercante d’arte oggi al mondo, apre nella sua galleria a New York una mostra di pezzi unici direttamente commissionati a Mare Newson (dai 100.000 ai 400.000 dollari l’uno), tra cui una poltrona poi esposta a Documenta Kassel.
Da notare il fatto che galleristi commissionino direttamente ai designer pezzi per le loro gallerie, con la stessa modalità del mercato dell’arte. Tra i designer più presenti, oltre Newson e Arad, Marcel Wanders, Zaha Hadid, Ross Lovegrove, Jasper Morrison. Tom Dixon, i Bouroullec, Tord Boontje.
Qui quindi, si combinano due fenomeni di segno opposto. Sembra vero, infatti, che il «depotenziamento» dell’arte nella conternporaneità, e parallelamente l’estetizzazione del quotidiano promossa dal design, comportino in modo crescente un dominio del visuale, a conferma di quello che anni fa scriveva il grande storico dell’arte Martin Kemp: l’arte, nelle sue manifestazioni consuete, farà parte di un contesto molto più ampio, nel quale essa diviene quasi una sotto categoria appartenente a una enorme varietà di manufatti creati per fornire stimoli visuali. Ma c’è un secondo aspetto di cui tener conto.
L’arte conserva, nell’immaginario collettivo, quel prestigio a cui allude Catherine Millet, quando scrive che l’arte contemporanea è un polo di attrazione, verso cui tendono oggi il design, la moda, la comunicazione, tutte attività che tentano di acquisire lo stato di arte. A. C. Quintavalle osserva recentemente come un collezionismo privato trainato dalle gallerie, dalle aste a queste collegate e dai musei… fa sì che la fotografia, nata come suggeriva Benjamin per distruggere l’aura che circonda l’opera d’arte… diventa merce d’élite.
L’arte, così, diventa legittimazione di un design inteso come «merce d’élite», il cui valore si misura sulle cifre iperboliche con cui sono pagati pezzi unici di designer per lo più tesi a fornire «stimoli visuali». Si selezionano i progettisti che propongono oggetti dall’espressività accentuata o, al contrario, dal minimalismo ostentato.
Si tratta di designer che operano anche per le «aziende di design», legittimandone quello slittamento verso la fascia alta del mercato, verso il lusso, oggi invocato per contrastare la concorrenza internazionale. Del resto il nuovo lusso ha bisogno di legittimazione, e l’arte sembra fornirgliela.
Qui trova spiegazione anche il nuovo interesse delle finanziarie per il design. Anni fa sono nate le nuove finanziarie del lusso: tra queste, è soprattutto PRP di Francois Pinault (con Gucci, Saint Laurent ecc.) che afferma l’arte come legittimazione del lusso, acquisisce palazzo Grassi e adesso Punta Dogana a Venezia (per il Museo d’arte contemporanea firmato da Tadao Ando).
E in Italia? Prada e Trussardi sviluppano un’intensa attività con le loro gallerie d’arte, molto attenta agli artisti di grande quotazione internazionale. Ma qui il riferimento è anche il made in Italy, e il design.
Qualche anno fa una delle aziende storiche del design italiano, B&B, è stata comprata da una finaniaria, Opera (nella quale uno degli azionisti è Bulgari). Poi Charme, la finanziaria della famiglia Cordero di Montezemolo, ha comprato Poltrona Frau, Cassina, Cappellini, Gufram, Alias, Nemo (e anche Thonet).
In tal modo si pensa di risolvere la difficoltà delle aziende italiane, generalmente piccole, con capitali insufficienti ad affrontare la sfida sui mercati mondiali. E gli alti prezzi ricevono nuova legittimazione perché i designer, che operano sui mercati del Design Art, sono in parte gli stessi che progettano per le aziende difurrziture design. Ciò crea il prestigio di oggetti che possono quindi aspirare al mercato del lusso, dove lo stile perde importanza rispetto al prezzo.
In buona parte ciò coincide con il fenomeno, in sviluppo già da qualche tempo, definito luxury design. Ma su questo, converrà ritornare in altra occasione.
b) Mentre le aziende storiche del design italiano si spostano in maniera sempre più accentuata verso il mercato alto (ma bisogna riconoscere che tradizionalmente il design italiano non è mai stato economico), si accentua la spaccatura della produzione e del mercato.
Ciò è testimoniato dal crescente successo di Ikea, che, come ha detto Ellen Lupton, curatrice per il design contemporaneo del Cooper-Hewitt / National Design Museum di New York, ha arredato le case della fascia medio-economica dei consumatori dall’Europa alla Corea al Brasile, contribuendo a far accettare la modernità nella casa … più che il resto del mondo del design nel suo insieme.
Una rivista cult come Icons ha pubblicato una lista di ventuno oggetti, aziende e persone, quelli considerati più influenti nel dar forma al design odierno, e Ikea è al primo posto. E la Lupton aggiunge: «Ikea porta il moderno design alle persone di mezzi modesti. È l’ideale del Bauhaus divenuto realtà».
Di quest’ultima proposizione si può dubitare, soprattutto se si pensa al Bauhaus riassunto da Gropius nella formula: «Arte e tecnica»; un po’ più plausibile essa appare se si pensa alla formula che pone il design come «economia x funzione», proposta da Hannes Meyer, direttore del Bauhaus dopo Gropius. In ogni modo, il problema posto in evidenza dalla Lupton è reale.
E si tenga conto che Ikea, con un fatturato che vale quello di una buona ditta di design italiano moltiplicato tra le cento e le duecento volte, non si limita a produrre in Svezia e vendere nel resto del mondo. Persegue sempre più la politica di produrre vicino al luogo dove distribuisce: e un numero crescente di aziende italiane di mobili lavorano per Ikea.
3. La tecnica, il design sociale, il senso del progettare
Una tendenza sembra affiorare dal dibattito, ancora in parte sommerso, tra i giovani, ma anche più in generale nel mondo del design: può essere definita come una nuova ricerca del senso del progettare oggi.
Harvey Molotch racconta, sulla base di una sua inchiesta, come l’unico obiettivo di gran parte dei giovani designer californiani sia quello di guadagnare molto. Ma, nello stesso tempo, sottolinea come in molti ci sia anche la consapevolezza che, rispetto ai processi globali in atto, cambiare è possibile.
Lo stesso Molotch, poi, parla di come per gran parte degli oggetti, la soluzione è quella di costruirli in modo da distruggere meno natura, in circostanze socialmente accettabili e con una obsolescenza eco-compatibile.
Oggi per molti designer, in Italia e non solo, sembra quindi che il problema sia ri-trovare un senso del loro operare e ciò si esprime attraverso una serie di ricerche tra loro correlate: ecodesign, design sostenibile, human centred design, social design e così via.
Molte ne sono le manifestazioni. Si pensi alla «Biennale del design sociale di Utrecht»; si pensi a «Doors of Perception» (dal titolo del famoso libro di Aldous Huxley), la biennale promossa dal Netherlands Design Institute di Amsterdam, diretta da John Thackara come indagine di lungo periodo sul futuro del design. Tra i temi discussi, quello riassunto da Thackara nei seguenti termini: i sistemi mondiali relativi al cibo sono un esempio dell’estremo spreco emerso con la globalizzazione nell’economia.
Il trasporto, la lavorazione, il packaging e la distribuzione del cibo, consumano dieci volte l’energia che entra nei nostri corpi come nutrimento. Si nota qui la posizione tendenzialmente no-global e la tensione di Thackara verso forme complesse di design strategico (o di strategie per il design).
Ancora: una recente mostra al Cooper Hewitt di New York ha avuto molto successo. Si intitolava «Design for the 90% of the world» (con riferimento al titolo di un libro del 1972 di Victor Papanek: Design for the Real World: Human Ecology and Social Change). È così riemerso con forza un filone di studi che ha avuto in Papanek il suo più influente esponente.
Egli riteneva, con qualche ottimismo, che i designer hanno la responsabilità, sono in grado e sono capaci di produrre cambiamenti nel mondo. La mostra ha presentato una serie di progetti – proposte per le aree del pianeta dove la tecnologia non è arrivata o è insufficiente e i problemi sono molto ampi, dalla sopravvivenza al rafforzare embrioni di sviluppo potenziale o in atto.
Forse è possibile individuare qui due linee di ricerca progettuale.
La prima ipotesi di ricerca, molto simile alle indicazioni di Papanek, vede progetti di semplice utilità, realizzati con materiali e tecniche elementari (un contenitore a ruota, quindi trainabile con facilità, per trasportare l’acqua; una pompa d’irrigazione a pedali fatta di bambù; filtri per purificare l’acqua, e così via).
Sono progetti ingegnosi e interessanti, ma di cui non si capisce come, a cura e a spese di chi, possa avvenire la produzione e la distribuzione, se non facendo affidamento sull’operosità di comunità locali, probabilmente da contattare una ad una. Papanek a esempio, aveva disegnato una radio a transistor fatta di lattine, da produrre a basso costo nei paesi in via di sviluppo.
Non si può dire che le sue proposte, nate sull’onda dei movimenti di contestazione sociale e del marxismo critico della Scuola di Francoforte, abbiano incontrato, nell’arco di alcuni decenni, particolare successo, nel senso di radicarsi in situazioni concrete, alleviandone i problemi. Ma è forse impietosa la valutazione di BUrdek che scrive: Le sue proposte di un design per il Terzo Mondo risultarono … afflitte da un’ingenuità dilettantesca.
Una seconda ipotesi di ricerca riguarda la possibilità di adottare tecnologie avanzate in situazioni arretrate: a esempio, un proiettore di microfilm a batterie solari, che diventa una libreria portatile, permettendo di studiare, in situazioni di analfabetismo, anche in case senza illuminazione, eliminando il trasporto dei libri.
Oppure borse di stoffa con pannelli fotovoltaici incorporati per catturare i raggi del sole di giorno e illuminare le case di notte. In questa direzione, affrontare i problemi con l’aiuto e non con il rifiuto delle tecnologie avanzate, si è mossa un’iniziativa avviata da Nicholas Negroponte con il Massachussets Institute of Technology (MIT), e sviluppata con la consulenza di Continuum Design: un computer a manovella destinato ai bambini, «one laptop per child».
C’è qui l’eredità di una tradizione americana che già nel 1972, con la rivista radicale «People’s Computer Company», aveva affermato: «E tempo di cambiare, abbiamo bisogno di un’azienda di computer per il popolo, il vero problema consiste nella democratizzazione del computer.
Del resto anche la Apple aveva pubblicizzato nel 1985 i computer battezzati Macintosh, disegnati da Frog-design, con lo slogan: Il principio democratico, applicato alla tecnologia, è: one person – one computer.
Slogan che ricorda la parola d’ordine in quegli anni dell’ANC – Africa National Congress per la lotta per il voto in Sud Africa: «one person – one vote», derivato a sua volta dalla tradizione democratica americana. Va rilevato come la realtà abbia visto una reale diffusione di massa dei computer, a prezzi decrescenti, nei paesi avanzati.
Con la mondializzazione si mira ora alla distribuzione di massa dei computer nei paesi deboli, e più di una casa produttrice va proponendo computer a prezzi bassi. In ogni modo, l’ipotesi di una distribuzione di massa di computer a manovella per i bambini del terzo mondo è molto interessante ma va incontrando difficoltà fino a poco tempo fa non previste.
Sembra che solo Perù e Uruguay abbiano finora ordinato quantitativi di computer a manovella, mentre è guerra aperta tra aziende che ora propongono personal computer a cento dollari.
Molti sono quindi i temi implicati in questa ricerca del senso del progetto oggi. La tecnologia, l’innovazione e le sue direzioni, i vantaggi che essa realmente arreca (oltre quelli sempre invocati dalle aziende per vincere la concorrenza sui mercati mondiali), il rapporto tra progetto e sue finalità. Ezio Manzini ha recentemente proposto una inziativa nel cui titolo riappare l’idea del cambiamento: Changing the change. Ma su questo torneremo in seguito.
4. Design e territorio
La terza, ultima e sintetica osservazione sui processi in atto, riguarda un dato citato all’inizio, quello del progresivo aumento del numero dei designer operanti nei vari paesi del mondo. Limitandoci all’Italia, l’introduzione dei molti Corsi di laurea in design, oltre alle esistenti scuole private anch’esse in crescita, ha moltiplicato il numero dei giovani designer.
Si passa da una professione d’élite, cattterizzata dall’esistenza di un ristretto numero di progettisti qualificati, in gran parte architetti nelle città del nord, rappresentati simbolicamente dai “maestri” del design italiano, i Castiglioni, i Sottsass, i Magistretti; si passa, si diceva, a una nuova situazione di disseminazione nei territori di giovani progettisti, spesso con laurea triennale, con la nuova caratteristica di essere distribuiti in modo assai meno squilibrato tra il nord e il sud.
Andrea Branzi sostiene l’esistenza di una nuova ampia fascia di giovani designer operanti su aree geografiche e progettuali diverse, con “originalità debole” ma pulviscolare e diffusa.
Del resto non sembra essere una caratteristica solo italiana, quanto piuttosto un aspetto della terza fase della rivoluzione industriale, se si tien conto di quanto scrive Manuel Castells: nel mondo del lavoro… la capacità autonoma di produzione, innovazione e gestione sta diventando il capitale principale delle aziende. Nel caso delle piccole e medie imprese, quello che conta è l’iniziativa individuale e la capacità di innovare.
Ma anche le grandi aziende sempre più spesso cercano il “talento”.
Avere talento non equivale a essere qualificati. Il talento comporta qualcosa di più, una scintilla d’innovazione, la capacità di gestire in autonomia i diversi progetti dell’impresa e di crearne di nuovi.
Castells aggiunge che proprio per questo oggi scuole e università hanno il compito di contribuire a formare personalità autonome in grado di trovare ed elaborare le informazioni necessarie per qualsiasi progetto professionale, ma anche personalità con dei valori, pochi ma saldi, per essere in grado di gestire i costanti e complessi cambiamenti degli stili di vita.
Il punto è proprio questo. I territori, in particolare in una situazione come quella italiana, hanno risorse produttive, turistiche, culturali, enogastronomiche da valorizzare, ma molto spesso ne nelle imprese, in gran parte piccole, né tanto meno negli enti pubblici, esiste il know how necessario per progettare e sviluppare processi di valorizzazione di tali risorse.
La disseminazione di giovani designer, che innervano i territori con il loro know how, è probabilmente in grado di contribuire allo sviluppo di questi processi di valorizzazione.
Tutto ciò comporta un nuovo e crescente rapporto tra il design e i territori.
Oggi ogni territorio è sempre più un nodo di una rete mondiale e deve imparare a partecipare della rete, a connettersi con gli altri; altrimenti non può che deperire o, tutt’al più, coltivare le proprie memorie.
Il design (e la nuova crescente presenza di giovani designer) è uno degli strumenti principali che permette di valorizzare le risorse di un territorio, inserendolo nella rete mondiale.
5. Storia e teorici del design
Eppure, in parallelo all’estendersi della presenza e del ruolo del design, è avvertibile una situazione di stallo della ricerca e del dibattito teorico. In buona parte esso è stato sostituito dal tentativo, continuo e spesso avventuroso, di ipotizzare scenari futuri, sulla base di quelle metodologie, nutrite di codici manageriali e di marketing (definito in modi sempre diversi e improbabili), che le imprese incentivano, nella speranza di prevedere l’evolversi del mercato e delle sue turbolenze.
Ciò si avverte prima di tutto nella riflessione teorica generale. Ma si avverte anche laddove vengano tentati discorsi critici sulla prassi progettuale, discorsi che spesso rivelano la debolezza di paradigmi di riferimento. Si pone quindi la necessità di un’attività di ricerca che sappia riaprire il dibattito storico-teorico, anche per metterlo in relazione con una critica teoricamente orientata dei processi in corso.
Si pensi alle riviste di design. La maggior parte, con poche eccezioni, si occupa di design con due sole chiavi di lettura: recensioni di cronaca o riflessioni apologetiche. Pochissime svolgono un’attività critica puntuale e appare evidente la scissione tra critica e teoria. Manca del tutto una rivista teorica di taglio scientifico (sul tipo dell’americana Design Issues, per fare un esempio).
La situazione di relativo letargo che sembra aver investito i designer italiani nell’ultimo decennio, è accompagnata da una situazione analoga anche per quanto riguarda il dibattito critico-teorico (con poche eccezioni). Eppure l’esigenza di riaprire il dibattito si va facendo strada.
Lo dimostra il dibattito che si è sviluppato nel luglio 2007 a Napoli, in occasione del «Seminario sulla ricerca di design nelle Università italiane». Qui, per fare alcuni esempi, è emerso un dissenso tra le posizioni di chi (E. Manzini, A. Branzi) sottolinea, negli scenari della conternporaneità la discontinuità con il passato; e chi, invece (M. Chiapponi), pur accettando il carattere di novità che l’attuale scenario presenta, indica la necessità di non sopravvalutare le novità a scapito della continuità di una nozione teorica di design.
Posto in questi termini, il dibattito rischia di essere sterile: perché non lo sia, occorre analizzare e approfondire quanto e in cosa il nuovo scenario sia radicalmente nuovo, e quanto e in cosa siano presenti elementi di continuità con il passato.
Chi scrive, come già detto all’inizio, ritiene che siamo in una fase nuova, e che anche ciò che persiste vada rianalizzato perché si pone sotto una nuova e diversa dominante. II vero problema è quindi l’analisi dei mutamenti in atto, che sono rapidi e profondi.
Questo è lavoro serio, che richiede anche grande attenzione a studi provenienti da diverse discipline (con attenzione alle scorciatoie: sarebbe bene non trasformare, a esempio, la «modernità liquida» baumaniana, nozione non inutile da approfondire, in un escamotage che tutto spiega).
Manzini, di fronte al ventaglio di concezioni e di pratiche del design, invoca la ricerca di una definizione teorica unitaria; in questo senso, fa riferimento a come il design italiano, nella sua storia, abbia sempre avuto alla base un’idea teorica, un pensiero critico sull’esistente e sui Suoi sviluppi.
Egli tenta di risolvere il problema ponendo un tema etico forte, la critica del cambiamento socio-economico in atto, con la formula: «cambiare il cambiamento». Qui il problema della progettazione nella terza fase della rivoluzione industriale (o nella seconda modernità, o in epoca postmoderna, se si preferisce) viene definito chiamando il progetto a farsi carico di correggere (e dirigere?) i processi di trasformazione in atto.
Questa impostazione è interessante, utile, probabilmente capace di rimettere in rapporto il design con un atteggiamento progettuale nutrito di senso etico, e quindi tale da essere in buona parte condivisa. Presenta però un rischio che non va sottovalutato.
Rischia infatti di scivolare nel volontarismo etico-politico, secondo tradizioni non nuove, ipotesi apparse altre volte in passato: a partire dall’Ottocento con le nostalgie comunitarie e medievaliste di Ruskin e Morris, e poi con posizioni di fase in fase emerse nell’architettura, nell’urbanistica, nella pianificazione territoriale.
Cambiare il cambiamento è, infatti, tema squisitamente politico. Porlo come centrale, o addirittura centrare su esso il design, rischia quell’ingenuità che Bürdek rimproverava a Papanek, e di comportare l’abbandono della specificità del design (di cui invece proprio Manzini ritiene importante una ridefinizione nell’oggi).
«Cambiare il cambiamento» rischia infatti l’abbandono del terreno del design, che è quello della progettazione di artefatti, tridimensionali, bidimensionali, virtuali che siano, spingendo verso una semplificazione riduttiva della complessità del progetto, complessità che è etica ma anche tecnica, estetica, antropologica, come ha sottolineato Branzi in un recente, polemico articolo.
Semplificazione riduttiva che ha caratterizzato molto giovane e generoso design, nutrito di obiettivi ecologici, negli anni novanta. Significa anche rischiare di affrontare i nuovi terreni del progetto, quelli del design strategico, del design per il territorio, della interrelazione tra design del prodotto e visual design, in un’ottica restrittivamente «operazionista» e non in un’ottica progettuale.
Si pone inoltre un altro interrogativo: cambiare il cambiamento, ma in che direzione? Qui si apre un ampio terreno di confronto sui nuovi scenari. Per esempio, su quale versante della discussione sulla scienza, sulla tecnica, sulle tecno-scienze, ci si intende collocare? Più in generale: a favore dell’analisi e dell’uso ragionato delle scoperte tecnico-scientifiche, o contro di esse? a favore di una idea «riflessiva» di innovazione, e cioè critica, che si interroga sulle sue finalità, o per lo status quo?
Nell’ottica di una «scienza negata», come direbbe Bellone, di una concezione nutrita della proliferazione di immagini negative della scienza e della razionalità, di punti di vista basati sull’opinione che la scienza sia, di per sé stessa e non per certi suoi usi dissennati, nemica dell’umanità?
Ciò è importante perché oggi, secondo chi scrive, si avverte, tra terzomondismo no-global e messa sotto accusa della scienza, un desiderio di ritorno agli stili di vita medieval-comunitari che Ruskin auspicava nell’Ottocento, quando inveiva contro gli sviluppi dei treni e della tecnica.
Ed è preoccupante che Carlin Petrini, fondatore di un’impresa geniale come Slow fhod, organizzatore di convegni come Slow + design: l’approccio slow all’economia distribuita e alla sensorialità sostenibile nell’ottobre del 2006 con il Politecnico di Milano e con Ezio Manzini, faccia grandi elogi dell’ecologico Carlo d’Inghilterra, che il ritorno ai villaggi tradizionali lo propone davvero, fino a chiamare Leon Krier a progettarne uno tipo, facendogli redigere il Master Plan per lo sviluppo di Poundbury nel Dorset. A questo proposito è utile riflettere sul concetto di post-ambientalismo formulato da Branzi nell’articolo su citato.
Sono temi aperti: una loro trattazione la troveranno certo nel convegno programmato a Torino (World Design Capital per il 2008) nel luglio 2008 e coordinato da Ezio Manzini, Changing the Change, Design Visions, Proposals and Tools, che promette di essere un momento importante per il rilancio della discussione teorica sul design.
tratto dal numero 131