Architettura: arte applicata

RENATO DE FUSCO
In tanto parlare di comunicazione, ritengo sia utile riprendere una nozione in passato mal posta e quindi accantonata, quella di arte applicata. Essa rientra nella serie di binomi utilizzati dall’estetica per meglio definire gli aspetti polivalenti dell’arte.

Le arti si dicevano maggiori e minori, liberali e meccaniche, dello spazio e del tempo, libere e non libere, la bellezza veniva distinta in vaga e in adhaerens, le arti scisse tra «pure» o appunto applicate, ecc.
Ogni stagione della storia dell’arte ha proposto una sua particolare interpretazione a seconda del modo di pensare, dell’organizzazione lavorativa, delle concezioni sociali. Prima di procedere oltre, accenniamo brevemente al significato di alcuni di questi binomi.
Senza rifarsi al mondo antico per alcune di tali distinzioni, quella tra arti maggiori e minori risale all’età comunale a proposito della diversa importanza tra le corporazioni delle Arti e dei Mestieri; durante il Rinascimento la differenza era data dalla separazione tra artisti e artigiani e dall’intento di ridimensionare le corporazioni.
Come ha osservato Ferdinando Bologna, lo strumento sociale del rigido sistema gerarchico furono le Accademie del Disegno, delle quali la prima fu quella istituita dal Vasari a Firenze nel 1562, la più esplicitamente programmatica e influente fu l’Accademia di San Luca in Roma, nata nel 1577 col fine di sostituire l’antica corporazione degli artisti, ma già nel 1593 eretta a scuola d’arte per iniziativa di Federico Zuccari […].
Dall’origine, le Accademie ebbero per fine di formare ed associare in un corpo socialmente solidale gli artisti “dotti” e “speculativi” .
Il binomio maggiori­minori ha seguito l’alternarsi delle vicende storiche dell’arte e della critica, donde i momenti di rivalutazione dell’artigianato, da William Morris a Riegl.
La separazione fra liberali e meccaniche è ancora più antica e coinvolge molte arti: la retorica, la geometria, l’aritmetica, l’astronomia, la musica, mentre si dubitava che fossero liberali le arti figurative.
Emblematica della mentalità del tempo è la distinzione di S. Tommaso, il quale chiamava liberali le arti, che riguardano
l’abito speculativo della ragione, servili quelle esercitate mediante il corpo.
In breve, per molto tempo le arti liberali erano quelle che più si avvicinavano alla scienza, meccaniche quelle che si in­centravano sul pratico operare.
Il binomio arti libere­non libere trova in Hartmann (1886) il suo maggiore sostenitore: nel saggio Die deutsche Aesthetik seit Kant, muove dalla distinzione kantiana fra «bellezza libera» e «bellezza aderente»; la prima avente un fine in se stessa, la seconda invece in rispondenza all’oggetto cui aderisce.
L’architettura sarebbe allora arte non libera (unfreie Kunst) in quanto legata alla propria “realtà”, mentre le altre arti “rappresentano” la realtà. Si tratta di una distinzione artificiosa e senz’altro da respingere, sia perché considera l’architettura un’arte condizionata da componenti di utilità e di praticità che ne compromettono la purezza, sia perché ancora si appoggia al vecchio sistema delle arti imitative.
E veniamo alla nozione di «arte applicata». Essa si afferma in Inghilterra intorno alla metà del secolo XIX ed è in relazione all’industria; il rapporto arte/industria si pone immediatamente dopo la fase paleoindustriale. Il dibattito sul significato e le ragioni delle arti applicate fu particolarmente vivo negli ultimi decenni dell’Ottocento.
In un giudizio di William Morris è sintetizzato molto di quanto si discuteva nel suo paese: Lo scopo di applicare l’arte agli articoli utilitari è duplice; in primo luogo, per aggiungere bellezza al risultato del lavoro umano, che potrebbe altrimenti essere brutto; ed in secondo luogo per dare gioia al lavoro stesso, che altrimenti sarebbe spiacevole e disgustoso.
Il passaggio dalle morrisiane Arts and Crafts all’Industrial design è sufficientemente noto per doverlo riprendere in questa sede.
Soffermandoci invece sull’espressione «arte applicata» è possibile darne altre interpretazioni. Se la gran parte delle analoghe distinzioni dell’arte è, come s’è visto, in sostanza fondata principalmente sulle categorie sociali degli artefici, legata al loro tipo di lavoro più o meno mentale e più o meno manuale, la questione dell’arte applicata è di altro genere.
Essa – che si pone in termini affatto nuovi con la rivoluzione industriale – non riguarda tanto le modalità lavorative quanto la natura stessa di un’arte in cui il pratico prevale sull’estetico, in cui il valore-­interesse (la proprietà di soddisfare determinati interessi) prevale sull’interesse, per così dire, «disinteressato» dell’arte, in cui l’artisticità diffusa prevale su quella eccezionale ed emergente, in cui soprattutto il dicibile, il razionale, la semiosi, prevalgono sull’ineffabile, l’ambiguo, l’arazionale, l’astanza per usare la nota espressione di Cesare Brandi.
Inoltre, da quanto precede si evince che la serie delle distinzioni non è un tema campato in aria perché indica reali condizioni; come dicevo, non è un falso problema, ma solo un problema mal posto. Proviamo a rivederlo in un’ottica diversa che si richiama ad assunti più antichi e in pari tempo a conoscenze più moderne.
Cominciamo a riconoscere alcune invarianti qualitative; per questo o quel motivo, tutti i primi termini dei binomi denotavano in genere gli aspetti migliori delle arti, il contrario facevano i secondi; cosicché, concentrandoci come stiamo facendo sulla nozione di arte applicata, questa veniva sempre intesa come un’esperienza secondaria rispetto alle cosiddette arti «pure», una pratica più fabbrile che spirituale, un mestiere più meccanico che libero.
Ma accettando questo genere di valutazione, come porre il caso dell’architettura, da un lato, certamente cosa pratica, funzionale e appunto fabbrile con la definizione stessa di quest’arte, considerata di livello superiore a cominciare dal suo etimo derivato da archein, essere al comando?
La parola architettura deriva dal greco architektonía. È composta da archi-, particella prepositiva che serve a denotare superiorità, preminenza, eccellenza, e tektonía che significa costruzione.
Arché indica ciò che è in principio: è ciò che sta nelle profondità mitologiche e araldiche dell’origine, ma è anche ciò che si impone per principio, perché è evidente, logico, elementare. Rinvia a un primato di grado (potenza, regno, carica) e di tempo (inizio, principio).
Come può essere «applicata» un’arte, anzi una super­arte, così titolata? Evidentemente l’aggettivo non denota qualcosa di scarso valore e comunque di inferiore rispetto alla arti «pure», donde la necessità di trovargli un altro significato.
In genere si sorvola sulla contraddizione: non si nega all’architettura la valenza marcatamente utilitaria e al tempo stesso si conserva l’assunto che, come abbiamo appena visto, quest’arte è al di sopra delle altre.
Anche quando, specie ad opera di Riegl, fu superato il principio «sportivo» del primato, tant’è che, ad opera dello stesso autore, furono riabilitate anche le cosiddette arti minori, restò comunque un certo imbarazzo nel considerare una pratica tanto nobile come l’architettura utilizzata per fini servizievoli.
Eppure, come ho già avuto occasione di notare altrove, si esce dalla contraddizione, pensando che la parola «applicata» vada intesa non nel senso che l’architettura si applica a qualcos’altro – che poi non si saprebbe indicare – ma piuttosto che all’architettura si applicano molti altri fattori, scienze e pseudo­scienze.
Per giungere a tale conclusione bastava leggere Vitruvio: Architecti est scientia pluribus disciplinis et variis eruditionibus ornata, ecco l’applicazione ad essa di vari fattori, non solo, ma il cuius iudicio probantur omnia quae ab ceteris artibus perficiuntur opera, vale a dire che tutte le altre arti sono sottoposte al suo giudizio, il che conferma il suo superiore prestigio.
Ora, mentre la prima parte della frase conferma l’idea che altri saperi si applicano all’architettura, la seconda parte, benché più opinabile, pure contiene l’osservazione attendibile per cui molte altre esperienze, almeno nel campo delle arti figurative, si avvalgono dell’architettura.
Quanto pittura, scultura, arti grafiche, design contraggono debiti con l’architettura è noto a tutti, ma una recente di­ chiarazione, sulla quale ritornerò più avanti, mi sembra confermare tale assunto.
Intanto, volendo accentuare quella notazione di «applicato» nel senso detto sopra, va chiarito che in architettura (e come vedremo nel design) ci troviamo nell’ambito della «cultura materiale», vale a dire di una cultura composta da apporti chiaramente percepibili – le note leggi della fisica, la tecnologia dei materiali, l’esperienza storica e simili – piuttosto che dipendente dal portato della nuova tecnoscienza di cui siamo, nella grande maggioranza, solo inconsapevoli fruitori.
Certo, anche gli apporti digitali sono un’applicazione all’architettura di qualcosa che la rende scientia pluribus disciplinis et variis eruditionibus ornata, ma con la differenza che non sappiamo fino a che punto essi la trasformeranno tanto da renderla irriconoscibile e difficilmente contenibile nei tanto invocati «limiti dello sviluppo». La «cultura materiale» inoltre comporta il tema della manualità.
Un tempo l’espressione «fatto a mano» era intesa come garanzia della qualità di un prodotto; suc­ cessivamente, coi perfezionamenti della tecnica, essa è venuta eclissandosi quasi che fosse una nota di demerito; si assisteva così ad una sorta di ribaltamento del giudizio molto spesso più ideologico che riferito ad una situazione reale.
Come che sia, il rapporto tra lavoro hand made e l’architettura, segnatamente il design, è uno dei tanti mai sufficientemente chiariti e in definitiva passato senza giudizio.
Anzitutto, sarebbe utile conoscere quanta parte di lavoro manuale incide ancora nella «cultura materiale». Dominio della manualità è certamente la costruzione dei modelli che, forse in ogni settore merceologico, precede l’inizio di una serie.
Si tratta di una fase intermedia tra ideazione e realizzazione per la quale non esiste alcuna macchina già pronta dovendo il modello dar forma e occasione di speri­mentazione per qualcosa di totalmente inedito o comunque abbastanza nuovo da essere considerato un prototipo.
Un secondo luogo della manualità è quello in cui si arresta la lavorazione meccanica eseguita da una fabbrica e subentra quella affidata a singoli artefici esterni, sia perché il processo produttivo di un oggetto è di per sé tecnicamente eterogeneo, sia perché si vuole diversificare ciascun esemplare della serie, sia perché risulta più eco­nomica una manifattura mista e/o integrata.
L’elenco delle possibili permanenze dell’hand made potrebbe continuare, ma sarebbe sproporzionato farlo in questa sede. L’esplicita ammissione da parte dei produttori della suddetta promiscuità operativa porterebbe all’ideazione di un progetto più libero ed articolato e non totalmente condizionato da una sola tecnologia; porterebbe ad identificare quei processi lavorativi propri della piccola serie distinguendoli dagli altri caratterizzati da una illimitata iterazione, evitando le frequenti mistificazioni; porterebbe il consumatore stesso a riconoscere nel singolo prodotto ciò che si deve alla macchina e ciò che è hand made, con un distinto apprezzamento e magari una maggiore giustificazione di costi e di prezzi.
Ma queste ed altre considerazioni sembrano essere superate dalle più recenti metodologie, dal passaggio cioè dalla lavorazione meccanica a quella informata all’elettronica e all’automazione.
Infatti, com’è stato osservato, la grande differenza tra impianti meccanici e impianti elettronici sta in ciò che i primi realizzano economia di tempo solo in presenza di un alto grado di ripetitività, quindi sono adatti ad una produzione di grande serie su pochi tipi, mentre i secondi sono in grado di realizzare in tempo breve piccole quantità per ogni tipologia in quanto il passaggio da un tipo all’altro avviene, non più adeguando e predisponendo diversamente i macchinari, bensì automaticamente.
In effetti, grazie alle nuove tecnologie, la produzione industriale si è liberata dalla monotonia della linea di montaggio e dalla serialità del prodotto a vantaggio di un’agilità che la rende competitiva anche in quei settori caratterizzati dalla piccola serie.
Possiamo dire che l’industria abbia trovato al suo interno un autocorrettivo e che abbia conquistato l’ultima prerogativa dell’artigianato, quella appunto di una estrema flessibilità operativa rispondente alla domanda di manufatti sempre più vari e personalizzati.
Ora, benché resti ancora valida la tendenza, da me già notata altrove, per cui il pubblico vuole sempre più meccanico e avveniristico il prodotto di una merceologia nuova e sempre più «artistico» e «tradizionale» l’oggetto appartenente ad un settore antico, è innegabile che le mac­ chine a controllo numerico, l’informatica e l’automazione presentano tali e tanti vantaggi da costituire un altro di quei fenomeni considerati irreversibili nel mondo moderno.
Infatti, tali vantaggi vanno dalla qualità all’economia del prodotto, dalla sua precisione alla riduzione di tempi, dalla versatilità dei tipi e modelli fino alla loro già menzionata personalizzazione. Si direbbe che il tempo dell’hand mad sia definitivamente scaduto. Ma vi sono delle contropartite.
Posto che la gran parte della produzione industriale sarà tra breve tutta automatizzata, quanto costerà social­ mente, specie in termini occupazionali l’uso di questa nuova tecnologia? Che faranno tutti quegli addetti che finora hanno integrato in fabbrica il lavoro meccanico con operazioni manuali? Mi accorgo che il mio discorso si avvia a descrivere più una produzione riguardante il design che non l’altra relativa all’architettura, cui mi accingo a ritornare.
Sebbene anche nel cantiere edile si registrino continui progressi tecnologici, i gradi di artigianalità e manualità persistono di fronte agli automatismi della produzione industriale di oggetti; il che non vuol dire che all’archi­ tettura non si applichino ancora molte altre conoscenze, sia specialistiche che umanistiche, donde il vantaggio della facoltà di architettura rispetto a quella di ingegneria edile, al pari del fatto che il liceo classico sia ancora da preferire a quello scientifico.
Questo richiama il secondo enunciato vitruviano per cui dall’architettura derivano esperienze e giudizi. Quanto al tema della formazione, nonostante la tendenza alla laurea breve, a diplomare al più presto possibile il maggior numero di giovani, mi pare che le scuole di architettura, per quel tanto in più di discipline ad esse applicate, siano più formative di quelle specializzate nel design; e poi di quale design, quello delle navi o di una pagina pubblicitaria, visto che sembra accertata non l’esistenza di un solo design, ma di tanti quanti sono i settori merceologici?
Ettore Sottsass, in un’incontro tra i designer della sua generazione, a proposito di una notazione di Magistretti sulla produzione felice degli anni ’50, dice: quel periodo non aveva designer ma architetti, architetti intellettua- lizzati come Franco Albini e lo stesso Magistretti – io allora ero piccolo… Ma eravamo tutti architetti. Oggi ci sono le scuole di design, che non offrono più la preparazione vasta e articolata di cui noi disponevamo.
La citazione non intende dire che per essere un buon designer occorre la laurea in architettura, né che le scuole di design vadano abolite, ma solo confermare ciò che sosteneva il vecchio Vitruvio.
tratto dal numero 130