Design:dalla produzione al mercato

GIOVANNI CUTOLO
Per migliaia di anni essere imprenditore ha significato, prevalentemente, svolgere un’attività mercantile, raccogliendo e trasferendo al mercato prodotti vegetali, animali o minerali, insieme a pochi manufatti artigianali.

Ancora per tutto il Medio Evo sino alla fine del ‘700, è il mercante che si fa imprenditore finanziando frequentemente attività produttive svolte a domicilio allo scopo di assicurarsi l’esclusiva di vendita dei prodotti.
Il mercante-imprenditore seleziona e raccoglie prodotti, naturali e di trasformazione artigianale, per poi farne mercato, sviluppando un’iniziativa commerciale il cui principale assetto non è il saper vendere ma il saper comprare.
Con la Rivoluzione industriale le merci cessano di essere fatte a mano e in pochi esemplari e, grazie all’uso di energia non umana né animale, vengono prodotte a macchina e in grandi quantità, anche se, usando un termine che tradisce una sorta di nostalgia incrostata al linguaggio, continuano ad essere definite «manufatti».
Questa produzione utilizza ovviamente materie prime naturali, vale a dire commodity, trasformandole onde renderne più agevole l’utilizzo e la commercializzazione ma anche per ottenere prodotti sempre diversi, in maniera tale da variare continuamente un’offerta destinata a crescere in maniera esponenziale.
Non c’è dubbio che l’impresa protagonista degli ultimi duecentocinquanta anni sia stata l’impresa industriale di produzione, quell’industria che con i suoi prodotti ha trasformato i mercati, modificando al tempo stesso profondamente le consuetudini, i desideri ed il modo di vivere della gente.
Quell’industria che, nella continua ricerca di nuovi spazi per alimentare il proprio sviluppo, è andata incessantemente cercando nuovi prodotti e nuove e più convenienti modalità per affermarli e sostenerli.
L’impresa di servizi nasce dalla constatazione della difficoltà che il mercato incontra nel distribuire al consumo prodotti sempre più sofisticati e complessi che il consumatore non riesce a capire con facilità. In una situazione di grande diffusione delle conoscenze e delle tecniche produttive, le aziende incontrano sempre maggiori
difficoltà a differenziarsi, puntando esclusivamente sulle presunte differenze dei loro prodotti.
La necessità di differenziarsi e di spiegarsi meglio al mercato promuove la nascita e lo sviluppo dell’impresa di servizi, produttrice di nuovi prodotti immateriali, in parte o totalmente; prodotti caratterizzati dal fatto di essere composti anche da componenti intangibili, affiancate o sovrapposte a quelle tradizionalmente dotate di tridimensionalità e rilevanza materica.
Possiamo dunque immaginare come servizi quell’insieme di commodity e beni che, arricchiti di lavoro intellettuale e competenze specifiche, riescono, ad esempio, ad offrire energia elettrica anche a quella stragrande maggioranza di individui e di aziende che non sarebbero capaci di acquistare i diritti di sfruttamento di un corso d’acqua (la commodity) per farlo precipitare in una o più turbine (il prodotto) allo scopo di produrre dell’energia elettrica (il servizio).
La forza progressiva che consente il rapido affermarsi di questa nuova categoria imprenditoriale che sviluppa l’impresa di servizi, risiede nella maggior convenienza economica che si crea facendo interagire le commodity con i beni, per poi arricchirne la combinazione con l’aggiunta di una o più componenti intangibili, in maniera da ottenere un nuovo prodotto di maggiore complessità, vendibile sul mercato, per l’appunto, come servizio.
Con l’avvento dell’economia dei servizi nasce una nuova categoria di impresa condotta da un nuovo tipo di imprenditore che contribuisce allo spostamento dell’asse su cui ruota l’intero sistema dai luoghi di produzione al mercato.
L’impresa produttrice di servizi sopravanza e mette progressivamente in ombra l’impresa produttrice di prodotti, aumentando il livello di complessità dell’offerta, nello sforzo costante di assecondare, orientare, influenzare e gestire una domanda sempre più esigente, in un mercato sempre più globale e pertanto sempre più competitivo.
Produrre e fornire servizi richiede la capacità di «andare oltre», imponendo all’impresa produttrice di prodotti non soltanto di produrre, ma di imparare anche a promuovere e vendere ciò che produce.
Ciò implica la necessità di uscire dalle mura che delimitano i luoghi dove si produce aprendosi al mercato, dotandosi di efficienti apparati di promozione e comunicazione, aprendo luoghi di esposizione e di vendita diretti attraverso i quali riuscire a interagire e dialogare «direttamente» con il mercato; ma anche con l’apertura di negozi diretti e con la messa in scena di tutti quei meccanismi commerciali capaci di conquistare gli acquirenti, offrendo loro non più soltanto prodotti bensì una vasta gamma di convenienze aggiuntive, di servizi, appunto.
La crescente domanda di servizi, alla quale l’impresa produttiva non riesce a dare risposte soddisfacenti, ha certamente favorito lo sviluppo dell’impresa distributiva che ha imparato ad organizzare la propria offerta di prodotti industriali, integrandola ed arricchendola con l’aggiunta di vantaggi intangibili consulenza finanziaria, progettazione, montaggio, quando e dove richiesto, assistenza post vendita – volti a trasformare l’offerta di prodotto in un’offerta di servizi capace talvolta di far vivere esperienze di acquisto inconsuete e, per questo, difficilmente dimenticabili.
Due autori americani, impegnati professionalmente con una loro società di consulenze a sviluppare modelli per la concezione e la progettazione di nuove attività imprenditoriali, hanno proposto una interessante lettura delle variazioni nella progressione del valore economico, dai tempi in cui l’economia era essenzialmente agricola ai giorni nostri .
Lo fanno riducendo la storia degli incontri e degli scambi, che da sempre hanno animato l’attività mercantile, in cinque momenti archetipici.
Cinque tappe che caratterizzano e riassumono una storia millenaria, che ha inizio con:
1) lo scambio delle materie prime e dei materiali di base reperibili nel mondo animale, in quello minerale o in quello vegetale, le cosiddette commodity; che prosegue con
2) lo scambio di manufatti tangibili, prodotti prima artigianalmente e poi industrialmente, costituiti soprattutto da beni di consumo; che continua evolvendo verso 3) la produzione e l’offerta di servizi, vale a dire di attività intangibili, personalizzabili con relativa facilità; che successivamente si sofistica ulteriormente 4) nell’organizzazione di eventi in grado di trasformare la percezione e la fruizione dei beni in esperienze; e che si avvierebbe infine a divenire 5) mercato delle trasformazioni, alludendo agli irreversibili cambiamenti che si possono provocare in coloro che sono stati esposti alla contagiosa influenza di esperienze organizzate in modo da divenire indimenticabili.
Esperienze indimenticabili, costruite utilizzando commodity selezionate con cura, tali da consentire la realizzazione di prodotti di eccellenza, sui quali fondare servizi efficaci ed efficienti, in grado di favorire l’organizzazione di eventi esperienziali capaci di marcare il singolo fruitore, provocando in lui trasformazioni durature, talvolta indelebili.
Questi cinque passaggi, caratterizzanti l’evoluzione e la crescita del valore economico, vengono quindi raccontati utilizzando un artificio assai ricorrente nella letteratura economica statunitense, ricorrendo cioè ad un raccontino che se non è totalmente vero è certamente ben pensato.
Eccolo. Il caffè necessario a preparare la classica tazzina, se acquistato sul campo direttamente dal coltivatore costa poco più di I centesimo di Euro; se acquistato dopo essere stato tostato, macinato e imballato, lo stesso quantitativo passa a costare dai 5 ai 25 centesimi, a seconda della marca e della dimensione della confezione; il costo sale a 80 centesimi se la tazzina di caffè la compero al bar sotto casa e diventa 1,50 Euro se la consumo in una qualunque trattoria dopo avervi pranzato.
Nel primo caso ho acquistato una commodity, comportandomi come era normale si comportasse chi viveva in un’economia pre-industriale e prevalentemente agricola; nel secondo ho acquistato un bene, comportandomi come è divenuto possibile soprattutto da quando la produzione industriale ha quasi completamente soppiantato quella artigianale; nel terzo caso, acquistando un servizio, riagguanto il tempo in cui vivo, divenendo un consumatore contemporaneo.
Ma andiamo oltre e immaginiamoci di poter gustare il nostro caffè nella lussuosa atmosfera di un ristorante segnalato dalla più prestigiosa delle guide turistiche, dove pagando 5,00 Euro mi approprio del piacere di una nuova esperienza.
E facciamo infine una ulteriore e più fantasiosa ipotesi trasferendoci al Florian a Venezia, magari in un pomeriggio dal clima temperato, in un pomeriggio che illumina il palazzo dei Dogi e la Piazza San Marco dei colori di un tramonto rossodorato, un contesto che mi costerà sì 15,00 Euro, ma che in cambio provocherà in me una trasformazione forse irreversibile, certamente duratura, che mi segnerà per la vita.
I prodotti di lusso sono stati per secoli quasi sempre appannaggio del lavoro dei migliori artigiani e dei più rinomati artisti. Solo da qualche decina di anni, grazie all’apparizione del design sulla scena della produzione, si è registrata una nuova convergenza tra le strade del lusso e quelle dell’industria.
Convergenza che non ha mancato di produrre esiti anche inattesi, ma sempre più evidenti, a partire dal momento in cui i prodotti del lusso hanno cominciato a subordinare i loro tradizionali e tangibili valori materici, legati fondamentalmente alla rarità e alla preziosità dei materiali utilizzati, ai nuovi valori immateriali e culturali espressi per l’appunto dal design.
Se ipotizziamo l’esistenza di tre diversi livelli di lusso, uno aristocratico, uno democratico ed uno popolare, vediamo che:
– il lusso aristocratico oggi si manifesta soprattutto nella ricerca e nel godimento di privilegi assolutamente immateriali quali lo spazio, il silenzio, la sicurezza, la tranquillità ed altri consimili intangibili valori;
– il lusso democratico invece si caratterizza per la tendenza a dare crescente importanza ai valori immateriali presenti in quella produzione che alimenta la propria creatività guardando alla cultura del design;
– il lusso popolare infine resta fondamentalmente devoto ad una radicata preferenza per quei valori tangibili, da sempre espressi dalla ricchezza dei materiali: metalli e pietre rare, legni e tessuti preziosi.
Avviene quindi che per le nuove élites la pratica del lusso si disloca, abbandonando il tradizionale godimento derivante dal possesso e dall’esibizione delle merci preziose, sostituite dai piaceri connessi al godimento di altri valori di rarefatta immaterialità.
Mentre l’eterogeneo gruppo di nuovi e vecchi ricchi che continuano a pensare che il lusso consista nel possesso di oggetti tridimensionali si spacca in due diversi gruppi, diversi fra loro non tanto dal punto di vista economico della capacità di spesa, ma per il diverso livello di sapere e per la diversa adesione ai nuovi valori culturali.
Da un lato i «tradizionalisti», a difesa e conferma di un lusso fatto di oggetti fondanti la loro lussuosità soprattutto sulla ricchezza dei materiali impiegati; dall’altro i «progressisti», affascinati da oggetti innovativi ritenuti lussuosi soprattutto per i loro valori progettuali, vale a dire per il loro design, indipendentemente dalla ricchezza dei materiali con cui essi sono fatti.
L’incontro del design con il lusso impone, a mio avviso, l’impegno formativo di tutti gli attori del sistema produttivo e distributivo allo scopo di far crescere la competenza e la conoscenza dell’acquirente finale, attraverso un investimento volto a formare e non solo a informare il consumatore.
Nella convinzione che il nuovo lusso possa esprimere buon gusto e non solo opulenza, dato che, se è vero che «Il bello è nella mente di chi guarda», il buon gusto risieda proprio nella conoscenza ovvero, per meglio dire, in quel sapere che consente di avere mente ed occhi educati al design.
Occhi finalmente educati a riconoscere la presenza e l’originalità di quei valori immateriali che caratterizzano la produzione di oggetti fabbricati secondo i canoni che regolano la cosiddetta cultura del progetto.
Come ha scritto Gilles Lipovetsky, nella sfera del lusso coabitano passioni aristocratiche e passioni democratiche, tradizione e innovazione, il tempo largo del mito e quello breve della moda, in maniera tale da indurre questo autore a sostenere l’opportunità di un «diritto al lusso» da intendersi come superamento della relazione che attualmente ancora intratteniamo con le merci, una relazione ancora troppo influenzata dal consumo di beni «di necessità».
Dopo molti millenni di indigenza, seguiti, grazie alla Rivoluzione Industriale, da poco più di due secoli di crescenti possibilità di soddisfare i bisogni, chissà che non ci si stia avviando, grazie anche al design, ad una nuova società che riconoscendo il diritto al lusso consenta l’accesso a nuove categorie di beni, servizi, esperienze e trasformazioni capaci di dare piacere.
Forse, almeno per coloro che si sapranno attrezzare di una adeguata cultura materiale, si aprono le porte di una nuova realtà, un nuovo mondo nel quale non ci saranno più consumatori ma soltanto Edonisti virtuosi.
I cinque passaggi, precedentemente illustrati, per descrivere la progressione di valore in economia, ci ricordano anche le profonde modifiche strutturali che, modificando l’economia, hanno anche modificato la vita sulla terra.
Il mercato delle commodity è stato per migliaia di anni quello di un’economia quasi esclusivamente agricola che soltanto alla fine del ‘700, a durare per circa duecento anni, è stato sostituito da quello dei prodotti, in un’economia divenuta prevalentemente industriale; successivamente, intorno alla metà del 1900, prima negli Stati Uniti e poi in Europa, il mercato diviene mercato prevalentemente di servizi a rispecchiare l’avvenuto sopravanzamento di questi, rispetto ai prodotti industriali, nella capacità di produrre ricchezza.
Da decenni oramai il peso economico di una nazione si misura soprattutto nella quantità e qualità dei servizi che essa produce, consuma ed esporta. Sicché, ad esempio, appare certamente anacronistico il fatto che molta politica nostrana si ostini ancora oggi a insistere sulla necessità di una crescita industriale, quando è oramai evidente che da decenni lo sviluppo economico si fonda e si misura soprattutto sulla crescita dei servizi.
Il futuro, che è già iniziato ed ha le sue radici nel presente che stiamo vivendo, vedrà crescere il valore relativo della produzione parallelamente alla crescita del mercato delle esperienze prima e poi a quello delle «trasformazioni».
Vale la pena quindi alzare lo sguardo, «andare oltre» le strategie ottocentesche finalizzate ad avviare una produzione di prodotti e quelle, in via di rapida obsolescenza, basate sullo sviluppo della produzione di servizi.
Ciò che noi chiamiamo il creato non solo si sostituisce al nulla, ma ne è l’imitazione. È questo il potentissimo germe che, nascosto nel pensiero orientale, mina dall’interno la creazione ex nihilo propria del creazionismo occidentale.
Come si può dedurre anche dei testi di Lacan, che qui evochiamo al fine di chiarire, mediante il confronto, la portata di una concezione orientale del nulla, la realtà non è il reale, è imitazione e virtualità, ma l’oggetto che essa imita e sostituisce non esiste.
Quanto a Lacan, più precisamente, come egli spiega negli scritti tecnici di Freud, «il reale, o ciò che è percepito come tale, è quanto resiste in modo assoluto alla simbolizzazione»; la realtà per contro, è tessuta di ordine simbolico, ovvero di linguaggio.
Inteso secondo la prospettiva indiana, il reale coincide con il nulla e la creazione dal nulla conserva con ciò da cui proviene il nesso essenziale: è imitazione del nulla, declina il nulla come illusione.
Partendo da queste premesse, Aldo Tagliaferri avanza un’accattivante ipotesi critica che lo porta a suddividere l’arte contemporanea in «materica» e «iconica». Scrive Tagliaferri: mentre l’arte iconica rinvia ai referenti intermedi delle forme delle singole illusioni, quella aniconica del materico ha come proprio referente il nulla, situandosi come ciò che direttamente lo sostituisce imitandolo.
La prima, storicamente articolata sotto diverse denominazioni strettamente interdipendenti (realismo, neorealismo, iperrealismo e simili) dipinge la realtà, la seconda il reale.
Trasferendo tale modello di analisi critica al più prosaico mondo del design, potremmo ipotizzare, anche qui, una suddivisione tra prodotti riconducibili ad una matrice «materica» ed altri invece sostenuti soprattutto da un’ispirazione definibile come «iconica».
Nei prodotti materici troveremmo quelli più fortemente contestativi, che rifiutando ogni tipo di omologazione e simbolizzazione sembrerebbero voler alludere al nulla ed alla drammatica assenza di ogni possibile traccia di reale.
Mentre i prodotti di tipo iconico sarebbero quelli pronti al compromesso con la realtà, al punto da rivendicare un posto ben in vista dal quale esibire il loro valore simbolico, ricco talvolta di valori di forma e di funzione, ma irrimediabilmente destinato ad essere nient’altro che una finzione.
La finzione di una realtà che, pur fascinosamente e seducentemente riflessa, non cessa di essere una realtà meramente virtuale.
Se è vero che l’essenza dell’arte risiede in ciò che contemplando l’opera non si vede, è anche vero che la sua rivelazione si manifesta soltanto agli occhi di chi è innamorato della conoscenza e del sapere.
Si potrebbe allora sostenere che il rapporto che si stabilisce fra gli oggetti prodotti dalle aziende di design e tutti coloro che li utilizzano, magari limitandosi a contemplarli, sia un rapporto reso possibile e valorizzato in virtù di un rapporto strettamente correlato con il sapere dell’utente.
Un sapere dunque propedeutico, oggi essenziale per poter apprezzare i prodotti di design e, nel prossimo futuro, per individuare la qualità nascosta all’interno di proposte sempre più sofisticate di servizi, di esperienze e di trasformazioni.
Resterebbe allora da investigare non solo come produrre i prodotti e i servizi, ma poi anche le esperienze e le trasformazioni e come misurarne l’efficacia che probabilmente si manifesterà in una scala tanto larga quanto la distanza fra ciò che è effimero e ciò che invece è duraturo in maniera irreversibile.
La produzione artigianale, che già prima della rivoluzione industriale aveva acquisito in molti casi anche notevoli dimensioni di impresa, subisce notevoli trasformazioni, soprattutto nella seconda parte dell’800, assorbendo nuove tecniche e utilizzando nuovi materiali che la portano a diversificarsi assai rispetto a ciò che essa era stata nel corso dei secoli precedenti.
Come abbiamo già visto, anche la produzione industriale cambia e, a partire dalla seconda metà dell’800, manifestando una nuova sensibilità, essa si apre alla sperimentazione pratica di nuove modalità produttive.
All’incirca negli stessi anni ha inizio poi quel lavoro di riflessione teorica volto alla definizione di una «estetica industriale» affrancata sia dai canoni estetici contenuti nel manufatto artigianale, quanto da quelli provenienti dal mondo dell’arte.
La nuova tendenza produttiva vede un numero crescente di industrie affidarsi gradualmente alla ricerca di nuove forme, progettate secondo i nuovi principi che condurranno all’attuale concezione di design e, quel che più importa, abbandonando l’imitazione di stilemi pre-industriali, prassi prevalente della prima produzione industriale.
È in questo contesto che il design inizia il suo itinerario teorico ed applicativo, che raggiunge una tappa importante nei primi decenni del ‘900 con la definizione di industrial design risultante dall’esperienza teorica e pratica del Bauhaus tedesco, un’esperienza di grande momento, anche se inquinata da un eccessivo utopismo ideologico.
Precedentemente, negli ultimi decenni dell’800, il design aveva dovuto conoscere, soprattutto in Inghilterra ad opera di autorevoli pensatori come Ruskin e Morris, la forte contrapposizione di un nostalgico rigurgito a favore dell’artigianato, giudicato, forse non a torto, capace di essere non soltanto strumento al servizio dell’economia, ma anche della didattica e della cultura.
Nella seconda parte del ‘900 il design ha conosciuto, soprattutto in Italia, un grande successo che ha portato il dibattito intorno alla sua definizione e classificazione a svilupparsi parallelamente alla sua percepibile crescita di importanza in molti settori, primo fra tutti, certamente per visibilità anche se non per dimensione economica, quello del mobile, delle lampade e dell’arredamento in genere.
Senza tacere il rilievo che esso oramai conosce sul piano della didattica, alla luce delle tre Facoltà del Design di Milano, Venezia e Bolzano e dei numerosi Corsi di Laurea in Design e dei tanti altri Istituti didattici, come le molte sedi dell’istituto Europeo del Design o dell’ISIA, per non dire che di alcuni.
Oggi si può tranquillamente affermare che il design è oramai divenuto una fenomenologia e come tale vada studiato e capito, a dispetto delle riserve ancora presenti nel pensiero di molti intellettuali arroccati nella difesa dell’idea che il design sia e debba continuare ad essere la disciplina che si occupa del rapporto esclusivo tra il padredesigner-progettista e la madre-industria-produttrice e, ovviamente, degli esiti in forma di figli-prodotti, conseguenza di questo incontro ravvicinato.
Una delle questioni ancora aperte è quella relativa ad una corretta e condivisa definizione circa cosa possa e debba essere considerato come «prodotto di design». La risposta a questa domanda non può prescindere da una riflessione intorno alla struttura stessa del nostro patrimonio produttivo nazionale, che è ancora costituito per il 15% circa da artigiani e dove tre quarti circa degli occupati nell’industria risultano impegnati in quelle che vengono definite PMI, ovvero Piccole e Medie Imprese.
In un apparato produttivo siffatto, non appare casuale che gran parte dei prodotti del design italiano, più in certi settori meno in altri, siano frutto dell’attività di piccole aziende industriali e di aziende artigiane.
Il tempo che stiamo vivendo è dunque quello, come abbiamo visto, che vede il lento progressivo prevalere di un’offerta di servizi, impegnata ad affiancare, e dove possibile a sostituire, la tradizionale offerta di prodotti. Questa trasformazione procede, almeno nel nostro paese, in maniera esageratamente lenta a causa del distacco tra il mercato ed il mondo dell’impresa produttiva.
Si tratta di un distacco fondamentalmente socioculturale. Difatti, anche quando l’impresa produttiva abbraccia il credo dell’innovazione e del design e lo utilizza per la definizione dei propri prodotti, essa continua a guardare al mercato con malcelato sospetto, rimanendo quasi sempre arroccata all’interno della fabbrica, confortata dalla stabilità delle sue immutabili regole.
Essendo il mercato, per sua natura, sempre mutevole, poco prevedibile e ancor meno controllabile, esso viene vissuto dall’imprenditore nostrano con sospetto e guardato con lo stesso timore e con la stessa sfiducia con cui il contadino guarda al mare.
Il cambiamento appare tanto urgente quanto necessario dato che, anche quegli imprenditori che, interpretando le trasformazioni della catena del valore descritte da Pine e Gilmore, hanno dato vita ad imprese produttrici di servizi, dovranno prepararsi a fare i conti con coloro che, sopravanzandoli, stanno già lavorando a imprese produttrici di «esperienze».
In alcuni settori più avanzati questo nuovo modo di portare al mercato la propria offerta di prodotti comincia ad apparire. Si cominciano a vedere i primi tentativi incentrati sull’efficacia di proposte finalizzate a produrre negli interlocutori una vera e propria esperienza, originata da messaggi portatori di elementi coordinati di software e di hardware, a suggerire una nuova complessità, definibile appunto come esperienziale.
Come ha detto non ricordo più quale famoso designer italiano, dopo secoli e secoli di dittatura di elementi di arredo francesi, in stile Louis XIII, Louis XIV, Louis XV e Louis XVI, finalmente noi italiani siamo riusciti a dotarci di uno stile autenticamente nazionale, uno stile rapidamente divenuto internazionale: lo stile Louis Design.
tratto dal numero 125