L’architettura «piccola»

ALESSANDRA DE MARTINI
Nel precedente numero della rivista, interamente dedicato all’architettura italo-europea, è emersa l’idea di una italianità dell’architettura italiana i cui caratteri dominanti sono la contestualità, la classicità razionale e la dimensione piccola delle fabbriche.

Se i primi due termini sono stati oggetto di una ampia e varia letteratura, che l’architettura italiana sia “piccola” appartiene ad un terreno inesplorato. Eppure a nessuno sfugge, soprattutto se di ritorno dagli Stati Uniti, ma anche da Parigi o da Berlino, che assistiamo ad un salto di scala considerevole tra quelle realtà urbane e le nostre minute città.
Come non era sfuggito a Josef Hoffmann che durante il suo viaggio in Italia (1896) venne attratto, più che dalle tappe classiche del Grand Tour, dall’anonima architettura spontanea unitaria e conchiusa rappresentata nei suoi disegni come aggregazione di volumi semplici e soprattutto contenuti da un punto di vista dimensionale.
Anche Goethe nel suo Viaggio in Italia (1786-1788) aveva notato la ricorrente caratteristica del piccolo dei nostri monumenti: il teatro Olimpico di Vicenza, afferma, è un teatro su modello antico ma in piccole proporzioni ed indicibilmente bello; la rotonda di Palladio è mirabilmente proporzionata […] ma per le esigenze della villeggiatura di una famiglia signorile sarebbe appena sufficiente; Santa Maria della Minerva a Foligno è un tempio di proporzioni modeste come si conveniva a una città tanto piccola.
Dal Settecento ad oggi, nonostante la considerevole crescita urbana, la dimensione architettonica del piccolo rimane una costante e lo skyline delle città d’Italia continua ad avere un andamento essenzialmente orizzontale con rari picchi di verticalità: le cupole e le torri italiane non sono sufficientemente svettanti da raggiungere guglie, pinnacoli e tiburii nordici e la sporadica presenza nel tessuto urbano di grattacieli è percepita da sempre come nota stonata, come un fuori scala, e mai come elemento caratterizzante e innovativo da un punto di vista linguistico.
Il grattacielo Pirelli di Gio Ponti, ad esempio, è stato etichettato «Pirellone», un accrescitivo tanto ridicolo
quanto indicativo dell’esistenza nella cultura percettiva italiana di un parametro dimensionale ridotto, di una unità di misura “piccola” ed ormai consolidata.
Rudolf Arnheim, che alla Gestaltpsychologie ha dedicato tutta la sua ricerca in campo artistico, in merito alla dimensione degli oggetti nei processi di percezione visiva, osserva: Un oggetto è visto immediatamente nella sua particolare dimensione, nel suo essere cioè in qualche punto della scala di misure che vanno dal grano di sale alla montagna. […]
Nessun oggetto viene percepito come unico o isolato dal resto. Veder qualcosa significa assegnargli il suo posto nel tutto. Esiste poi una differenza tra la misurazione col metro e il giudizio visivo: noi non rileviamo dimensioni, distanze, direzioni una ad una per poi confrontarle pezzo per pezzo, bensì è nostra prerogativa vedere queste caratteristiche come proprietà dell’intero campo visivo.
Quanto precede vale soprattutto a rendere meno vago il concetto di dimensione e di conseguenza quello di “piccolo”, che Arnheim implicitamente relativizza. Coscienti pertanto che la dimensione è un concetto relativo, per comprendere quanto la tendenza al “piccolo” domini la cultura italiana da sempre, è interessante leggere in senso diacronico la vicenda architettonica nazionale in rapporto a quella europea.
Già in età medievale l’architettura italiana si presenta di dimensioni più contenute rispetto alle grandi fabbriche d’oltralpe. L’Italia costituì sempre un’unità a sé stante di fronte alla Francia e alla Germania, e il Medioevo vi ebbe un carattere così particolare, che spesso si è dubitato se essa abbia avuto un Medioevo, nel senso che si dà generalmente al termine.
In realtà l’architettura romana, per quanto imponente da un punto di vista dimensionale, aveva introdotto nella cultura italiana l’idea di uno spazio compatto, finito, limitato e, conseguentemente, misurabile; termini questi contrastanti con la tendenza all’infinito del Gotico internazionale. Se passiamo dal Medioevo al Rinascimento il panorama non cambia.
Nel Quattrocento, mentre in Europa si continuano a costruire cattedrali e grandi palazzi comunali, in Italia si realizzano nel giro di pochi anni chiese ed edifici di dimensioni contenute. Mentre la committenza europea è costituita da grandi istituzioni, quella italiana – almeno per Firenze dove nasce il nuovo linguaggio architettonico – dalla ricca borghesia, la quale esigeva che palazzi e cappelle fossero completati in pochi anni in modo da poterne godere personalmente.
Se le piccole dimensioni dell’architettura privata sono imputabili a specifiche esigenze della committenza, sono cioè strettamente connesse al panorama socio-economico rinascimentale, per l’architettura pubblica, sia civile che ecclesiastica, le cause del salto di scala tra l’Europa e l’Italia vanno rintracciate altrove.
Nel campo dell’architettura civile, nel XIV e XV secolo, si sviluppa la tipologia dell’edificio comunale in Italia come nel resto d’Europa; ma se da noi i pregevoli esempi di Firenze, di Siena, di Gubbio ecc. non intendevano affatto confrontarsi con chiese e cattedrali, le Town Hall, gli Hotel de ville, gli Stadthaus, gli Ayuntamientos, gli Stadhuis […], al contrario, miravano proprio a competere, in fatto di impegno architettonico e figurativo, con le grandi costruzioni sacre.
Emergono quindi evidenti connessioni tra dimensione architettonica e rapporti politici tra potere ecclesiastico e potere temporale.
Si osservi ancora che mentre le grandi fabbriche europee nascono come opere collettive, lavorandovi intere generazioni di architetti, in Italia la costruzione di ogni edificio, pubblico o privato, civile o ecclesiastico, è un atto individuale: generalmente il committente è unico; unico è il suo progettista, interessato quanto il primo a lasciare un segno autobiografico che sottolinei sinteticamente sia un impegno intellettuale per il proprio riscatto sociale, sia l’aderenza agli ideali dell’Umanesimo e del Neoplatonismo, nonché all’antropomorfismo vitruviano diffusosi con la trattatistica quattro e cinquecentesca.
Il fatto che la dimensione del piccolo rimane una costante anche in epoche successive, quando cioè il contesto storico-culturale cambia, lascia intuire che esistono nella concezione spaziale italiana fattori di natura antropologica non trascurabili e tra questi sicuramente l’atteggiamento individualista che da sempre ha caratterizzato la nostra cultura.
D’altra parte è proprio sugli studi di natura antropologica di Worringer che si basa la nota opposizione che vede da una parte il mondo gotico, storicamente caratterizzato da gigantismi e slanci verticali e dall’altra il mondo classico e mediterraneo caratterizzato dall’orizzontalità e dall’ortogonalità.
È bene precisare, però, che la dimensione del piccolo in architettura, non va associata necessariamente al concetto di classicità, perché piccole furono anche le opere anticlassiche del Barocco la cui spettacolarità, almeno nella nostra area geografica, è ottenuta giocando sulla forma e non sulle dimensioni, le quali si mantengono essenzialmente piccole.
Si pensi al San Carlo alle Quattro Fontane, non a caso conosciuto con il diminutivo di S. Carlino, opera che riesce a rendere tutta la forza dirompente e dinamica del linguaggio borrominiano entro un volume essenzialmente piccolo.
Che la modestia di misura sia una caratteristica dominante della nostra architettura lo dimostra tra l’altro il fatto che tutte le macrostrutture passate e recenti si sono rivelate fallimentari.
La grande dimensione, intesa sia in senso verticale che orizzontale, non ha mai trovato terreno fertile in Italia dove l’idea di città rimane ancorata a criteri tradizionali – la città per parti di Aldo Rossi si oppone certamente all’idea di metropoli costellata da contenitori polifunzionali – ed il dibattito architettonico si concentra sui temi della conservazione del preesistente e sul rapporto antico-modemo dei centri storici.
E tra le principali cause dell’aspirazione italiana al “piccolo” sicuramente esiste il rispetto per il già costruito. Infatti, dal Rinascimento in poi la gran parte delle nostre fabbriche è stata contestualizzata e conformata unitamente al suo ambiente, ora per libera scelta progettuale, ora per attenersi ai rigidi ed indeclinabili strumenti di tutela.
Se accanto alla cultura dello sviluppo si è andata affermando quella del recupero; se lo spazio entro il quale vivremo i prossimi decenni è in gran parte già costruito ed il tema è ora quello di dare senso e futuro attraverso continue modificazioni alla città, al territorio, ai materiali esistenti, allora il primo vincolo con cui fare i conti è sicuramente quello dimensionale.
Infatti, come è stato osservato, la conservazione della scala volumetrica esistente non solo risponde all’esigenza di non incrementare la densità abitativa nelle zone di recupero, non solo scoraggia manovre di dannoso profitto, ma risponde anche ad alcune esigenze proprie dell’architettura contemporanea.
Questa, avendo perso il gusto razionalista di alternare case alte e basse, accetta la volumetria preesistente come un dato del problema e un vincolo col quale misurarsi.
Ma perché insistere tanto sulla dimensione del piccolo dell’architettura italiana? La storia non è altro che una continua serie di interrogativi rivolti al passato in nome dei problemi e delle curiosità – nonché delle inquietudini e delle angosce – del presente che ci circonda e che ci assedia, afferma Fernand Braudel.
In altri termini ogni storia nasce dalla posizione e soluzione di un preciso problema storico contemporaneo; il nostro è quello di verificare quanto la caratteristica del piccolo della nostra architettura possa essere ancora valida nella progettazione architettonica, se è possibile cioè pensare ad una modernità che vada di pari passo con l’essenza minuta delle nostre fabbriche.
Né parlare di ritorno alla dimensione e alla misura sul piano della progettualità significa semplicemente riproporre antichi equilibri. Niente inguaribile passatismo dunque. Forse controtendenza? Sicuramente, data la preponderante attenzione rivolta negli ultimi anni alla tendenza high-tech e alle gigantesche spettacolarità decostruzioniste. Ma “controcorrente” non significa “inattuale”.
Infatti, dopo il crollo delle torri del World Trade Center di Manhattan cadono, almeno in teoria, gli ingombranti, costosi e troppo vulnerabili grattacieli di tutto il mondo, come ha recentemente sottolineato Sandro Veronesi: mai più venticinquemila persone ammucchiate in un tubo sigillato alto 400 metri, a respirare aria artificiale, a muoversi in verticale anziché in orizzontale, a sopravvivere esclusivamente grazie agli impianti […] Mai più questa follia. Mai più. Considerando i tempi di reazione della Storia […] credo proprio che in capo a una trentina d’anni, di grattacieli non se ne costruiranno più .
In realtà già verso la fine del XX secolo la tipologia tardo ottocentesca del grattacielo cominciava a vacillare; infatti, gli eccessivi costi di costruzione, il decadimento strutturale e le relative spese di manutenzione, i frequenti incidenti tecnici – incendi e black-out – hanno messo in evidenza tutti i limiti economici e di sicurezza del grattacielo e sono cominciate a fioccare le demolizioni.
Cosicché il Manhattanismo del Delirious New York di Rem Koolhaas, che a partire dagli anni ’70 ha ispirato la fantasia architettonica internazionale, è tramontato. La modernità non sarà più pensata in termini di grande dimensione, di bigness, perché i grandi contenitori polifunzionali a più piani, indifferenti al luogo, incapaci di comunicare cosa succede al loro interno, fieri soltanto della loro “invincibile” altezza non ispirano più ai propri spettatori un’estasi per l’architettura, ma soltanto paurosi fantasmi.
La modernità va ricercata ormai altrove e forse proprio in quella direzione segnalata qualche anno fa da Jean Nouvel che, revocando in dubbio l’ostentazione sia volumetrica che tecnologica dell’architettura high-tech, osservava che la tecnologia tende sempre più alla semplificazione – che maschera in realtà processi assai complessi – e alla miniaturizzazione dei prodotti; cosicché, senza vedere gli strumenti, è possibile percepirne soltanto gli effetti, come se le cose accadessero senza alcuna ragione, per miracolo:
Andremo persino in giro con cartoline con all’interno la televisione: si sa che i cristalli liquidi sono un circuito stampato, ma celato, e ciò è moderno […]. Quindi uno dei paradigmi della modernità oggi, è la semplicità-complessità; un secondo leggerezza-compattezza; ed un terzo è miniaturizzazione-meccanizzazione.
Ed è a partire da questi elementi che si può porre la questione della modernità in architettura. […] Vogliamo entrare, anche noi, in questa estetica del miracolo, dove non si capisce come le cose sono fatte, dove tutto accade nelle interfacce.
Ecco allora che la dimensione del piccolo si affaccia sullo scenario contemporaneo internazionale, opponendosi ad un passato macroscopico e ponendosi quale alternativa possibile per la città futura. E non è certo la prima volta che nella storia dell’architettura il “piccolo” subentra al “grande”, quasi che la dicotomia grande/piccolo corrisponda nella successione epocale al binomio vecchio/nuovo.
Infatti, semplificando moltissimo, si può cogliere una continua alternanza dei due termini: alle “vecchie” e “grandi” fabbriche gotiche si oppongono le “nuove” e “piccole” costruzioni rinascimentali; alla spettacolare grande manière dell’età barocca subentra il piccolo ed intimo rococò settecentesco, superato a sua volta dalle grandi utopie illuministe e soprattutto dalla vicenda architettonica ottocentesca: l’architettura dell’ingegneria, le grandi strutture in ferro e vetro, il Crystal Palace, le grandi esposizioni, i grandi ponti, i mastodontici opifici e finalmente il più emblematico tipo edilizio dell’epoca: il grattacielo appunto.
La dimensione del grande continua a dominare il panorama architettonico ed urbanistico del ‘900, ma non crediamo di errare affermando che la novità del nuovo secolo stava nelle leggere tensostrutture, nella tendenza al minimalismo e soprattutto nella ricerca sull’exisrenzminimum che, al di là dei contenuti socio-politici ed economici degli anni ’20, è riuscita a definire un habitat domestico ancora valido.
Se allora vogliamo che l’architettura cammini parallelamente alle nuove tecnologie dell’era elettronica e partecipi alla ormai dilagante estetica del miracolo, a dirla con Nouvel, la progettazione architettonica potrebbe procedere al ridimensionamento dello spazio domestico in base all’oggetto miniaturizzato offerto dall’industrial-design e definire un nuovo existenzminimum che sia, questa volta, “mimesi formale-concettuale” della tecnologia informatica e della nanotecnologia del futuro prossimo. Una visione questa sicuramente “originale”, ma quanto “plausibile”?
Certo, nessuno dubita più sulle possibilità umane di costruire oltre ogni previsione. Ma tutto ciò che è possibile, segnatamente in senso tecnologico, non è detto che sia necessariamente auspicabile. È necessario, in altri termini, riconoscere i “limiti” entro i quali muoversi: da un lato l’originalità, in assenza della quale il progetto, che è sempre proposta del nuovo, non ha ragione d’essere, dall’altro il plausibile, ovvero l’accettabilità di esso sul piano logico o quanto meno del buonsenso.
Com’è stato recentemente osservato, uno degli effetti delle nuove tecnologie sul prodotto industriale è stato il passaggio dalla monofunzionalità dei manufatti tradizionali alla plurifunzionalità degli attuali oggetti di design e tale passaggio è motivato da numerose ragioni: la facilità di azionare più funzioni con un unico comando; la tendenza a rendere compatti più strumenti; l’utilizzo di un unico carter per più meccanismi; la riduzione del numero di oggetti per un generale criterio di economia, ecc. […]
L’oggetto post-industriale, “intelligente”, flessibile e adatto a svolgere più di una funzione contemporaneamente, comporta tuttavia notevoli difficoltà da parte dell’utente nell’apprendere e gestire le numerose possibilità che il nuovo elemento gli offre; al punto che assai spesso egli rinuncia ad alcune prestazioni dell’oggetto stesso.
Queste note proprietà della miniaturizzazione e della plunfunzionalità, nonché i loro risvolti negativi sfociano inevitabilmente in temi e problemi di morfologia e di conformazione. A tal proposito Ezio Manzini scrive: se pure concettualmente costruire una piramide non è diverso dal costruire una macromolecola (si tratta in entrambi i casi di dare forma nello spazio a della materia), per noi il cambiamento di scala fa differenza.
E si tratta di una differenza sostanziale, tale da modificare radicalmente il nostro rapporto con le cose […] Il fatto è che in passato tutto ciò che l’uomo produceva […] era del suo stesso ordine di grandezza, stava all’interno della sua sfera sensoriale. Ciò faceva sì che tutti gli artefatti risultassero leggibili nelle loro parti costituenti e nel loro funzionamento.
Ora non è più cosi: l’attività umana è arrivata ad altri livelli dimensionali, è entrata in spazi e tempi che con un certo sforzo possiamo anche immaginare, ma che non possiamo frequentare. […]
Continuando nel suo sviluppo, la tecno-scienza ha infatti portato la sua capacità di manipolazione, il livello delle sue possibilità di controllo, a scale dimensionali che non sono più quelle della nostra esperienza diretta. Così facendo, gli artefatti che produce non esibiscono più strutture e “meccanismi” cui collegare percettivamente gli effetti.
Assumendo la miniaturizzazione come il portato più recente della tecnologia a parziale guida della ricerca architettonica, si tratta di vedere fino a che punto la plurifunzionalità dell’oggetto di design miniaturizzato, con le sue scarse caratteristiche di riconoscibilità formale, si possa adattare all’architettura.
Vivere all’interno di un microspazio richiede gesti adeguati e accorti, maggiore attenzione nei movimenti, ma la qualità d’occasioni che si presentano nell’arco gestuale o in quello di un minimo spostamento è tale da consentire una pluralità notevole di attività entro pochissimo spazio.
Nonostante il positivo giudizio di Arturo Dell’Acqua Bellavitis, in linea con le ottimistiche previsioni di gran parte della critica, non riteniamo che la miniaturizzazione possa realizzarsi in architettura.
Ancora più inverosimile, a nostro avviso, è quanto sostiene Mitchell e cioè che l’abitare possa ridursi ad incorporare fisicamente l’architettura, collegando il nostro sistema nervoso a organi elettronici che si trovano in prossimità, con la conseguenza più immediata che la nostra casa diventerà parte di noi e noi parte di essa.
La miniaturizzazione nel nostro campo disciplinare non va intesa materialmente, ma come riduzione teleologica; cosicché il nuovo concetto di existenzminirnum non è più assimilabile ad una caratteristica distributiva, bensì ad un tipo ideale.
tratto dal numero 115