L’italianità dell’architettura italiana

RENATO DE FUSCO
Come ogni sistema, anche quello dell’architettura geopolitica si compone di un tutto, nel nostro caso, la produzione europea, e di parti, le produzioni nazionali; cosicché un ordine logico vorrebbe un rapporto ermeneutico fra l’una e le altre.

Di conseguenza, in quanto architetti, dovremmo collaborare alla formazione di un linguaggio europeo e al tempo stesso conservare le specificità nazionali, altrimenti rischiamo, da un lato, l’omologazione e, dall’altro, l’isolamento nazionalistico. Abbiamo usato il condizionale, primo perché quest’ordine sistematico non è riscontrabile sempre nella realtà e secondo perché esso si pone oggi in vista dell’unità politica europea.
Quanto al primo punto, mentre le architetture nazionali o regionali sono percepibili e definibili, quella continentale lo è assai meno o addirittura indefinibile. Ancora una volta il modello linguistico serve di chiarimento: non esiste una lingua europea, bensì quelle d’Italia, di Francia, di Spagna, di Germania, ecc.; né la somma di quest’ultime fa la lingua d’Europa.
E tuttavia qualcosa in comune c’è: parlando con un interlocutore europeo ci accorgiamo che è tale anche se usa l’inglese come gli americani del Nord o lo spagnolo come quelli del Sud. Relativamente al secondo punto, questi problemi che finora hanno interessato i linguisti e/o gli storici dell’architettura, oggi si pongono a tutti coinvolgendo la formazione didattica e l’esercizio professionale degli architetti.
L’ampliamento della questione è causato dalla citata costituenda unione politica del continente che comporta non pochi dubbi. Dico subito – a titolo puramente personale – che questo evento va accolto con alcune riflessioni critiche. La mia generazione cominciò a sentire parlare di Europa in relazione all’architettura da Edoardo Persico che, a sua volta, aveva trasferito nel nostro campo quanto Piero Gobetti sosteneva in quello politico-culturale.
Si trattava di una concezione liberale e altamente ideale che non somiglia affatto all’organizzazione attuale, tutta calata dall’alto senza alcun segno della volontà popolare, inevitabilmente pratica, economico-finanziaria e politico-partitica.
Benché riferito ad altro tema, diventa attualissimo ciò che Persico ebbe a scrivere: più tardi i nuovi architetti, e gli storici della nuova architettura, si ricorderanno soltanto del comitato di scienziati: punteranno sui tecnici, sugli urbanisti e sui manipolatori di piani; e trascureranno, a mano a mano, la premessa capitale dell’architettura moderna.
Come non pensare che quel comitato sia oggi composto da banchieri, da agenti di borsa, da politici che vogliono raddoppiare il loro incarico? Ma tant’è. Dobbiamo assolvere il difficile compito sopra indicato: contribuire alla costituenda lingua architettonica europea senza rinunciare alle caratteristiche esponenti dei nostri linguaggi architettonici nazionali. Si pone quindi prioritaria l’esigenza di definire l’italianità dell’architettura italiana moderna e contemporanea.
Per anni questo problema non è stato posto, anzi, in un certo senso, addirittura ne è stata impedita la posizione. Tale constatazione è suggerita dalla tesi che intendiamo esporre e che illustreremo meglio più avanti, quella per cui l’italianità della nostra architettura vada in gran parte ricercata: a) nella sua contestualizzazione o, per usare un termine «proibito» benché efficace, nel suo «ambientamento»; b) nel fatto sinteticamente esprimibile nella frase: l’architettura italiana è «piccola»; c) nel carattere «classico» delle nostre fabbriche.
L’avversione al «contestualismo» paradossalmente veniva non dagli sprovveduti o dagli indifferenti, ma da alcuni maestri della critica quali Cesare Brandi e Bruno Zevi. Il primo, grande conoscitore della produzione nazionale, come si evince dal saggio Disegno dell’architettura italiana, quando si trovò ad affrontare la coesistenza di antico e nuovo nei centri storici – che beninteso è solo un problema della più vasta questione che qui poniamo – la negò perché, a suo dire, le quattro dimensioni dell’architettura nuova erano incompatibili con le tre della visione prospettica propria della tradizione.
Ponendola in questi termini del tutto teorici, Brandi non accennava neanche al tema dell’ambientamento che invece era esplicitamente combattuto da Zevi. Nel suo saggio intitolato Contro ogni teoria dell’ambientamento, leggiamo: occorre fissare con spregiudicatezza tre punti:
1) tutte le teorie miranti ad un ambientamento del nuovo nell’antico – tutte: dalle più retrive a quelle in apparenza progressiste – conducono a reprimere o, peggio, a corrompere il nuovo senza perciò rispettare l’antico;
2) l’incontro fra antico e nuovo non può concretarsi senza alti costi, strappi e squilibri. Gli interventi architettonici, se necessari devono essere francamente moderni, puntando sulla creazione di un panorama alternativo, in larga misura antitetico a quello preesistente;
3) non ci sono facili metri di giudizio per stabilire ciò che si può o non si può fare inserendo opere moderne nei centri storici. Il problema rimanda alla qualità e non è soggetto a generiche normative.
Se il passo citato combatte l’ambientamento nel timore che esso impedisca l’inserimento di fabbriche dalla più flagrante modernità in ambienti contrassegnati da costruzioni antiche, il tema della incompatibilità è stato svolto in cento modi: dalla menzionata teoria di Brandi alla critica dell’accademismo fascista che, volendo conciliare tradizione e modernità, produceva compromessi mostruosi; dal feticismo per l’antico alla lotta contro l’edilizia di sostituzione, intesa tout court come speculazione edilizia, ecc.
Quali che fossero gli intenti degli «inconciliabili», ha finito per prevalere il più accademico dei precetti: l’antico dentro e il nuovo fuori dalla città.
Non va dimenticata la maggiore smentita alla inconciliabilità fra antico e nuovo, quella della stratificazione storica, espressa con più impegno degli altri da Roberto Pane: ciò che nella tesi dell’intransigenza appare francamente assurdo è il volere ignorare la evidente realtà storica della stratificazione che si è compiuta nel passato, configurando con i suoi attributi l’ambiente che desideriamo salvare, ed il negare che altrettanto possa e debba avvenire nel presente.
Che il nostro favore per il contestualismo non sia a svantaggio dell’architettura contemporanea è confermato dai precedenti studi personali e in particolare dal recente saggio sul restauro dal titolo Dov’era ma non com’era, che auspicava la più ampia modificazione di edifici ed ambienti.
Né il fatto che in precedenti nostri scritti o di altri, pubblicati da questa stessa rivista, abbiamo mostrato interesse per l’atopia va colto come una contraddizione della tesi dell’ambientamento come caratteristica principale dell’architettura italiana.
Atopia, com’è noto, nel nostro campo, non significa assenza di luogo, bensì indifferenza al luogo; il che ci portava a prendere in considerazione tale proprietà quale modo per contestare il mito del genius loci e in particolare la cosiddetta rendita di posizione, per cui un edificio non vale per come è fatto ma per dove è ubicato.
In ogni caso il discorso sull’atopia riguardava un generale aspetto teorico dell’architettura di ogni tempo e paese, non una caratterizzante proprietà dell’architettura italiana di cui qui ci occupiamo.
Intanto va ribadito che la ricerca di un aspetto tipico delle fabbriche d’Italia assume particolare importanza in questo momento in cui si va verso la citata unificazione europea, finora prevalentemente considerata sotto l’aspetto pratico: l’euro-architetto, le mini-riforme didattiche, le modifiche degli ordinamenti professionali, specie l’emulazione di norme dei paesi ritenuti più avanzati, ecc., mentre l’intera problematica non è stata ancora affrontata da una visuale storico-critica.
Posto che l’Europa abbia o avrà una sua architettura, quella italiana ne deve far parte ma con le caratteristiche che le sono proprie. Cosicché, non si tratta della facoltà o meno di calare il nuovo che si va oggi producendo nell’ambiente antico, non si tratta di una questione di critica operativa, bensì, ripetiamo, di individuare i principali caratteri della nostra architettura, così come si manifestano nell’ambiente già consolidato.
In breve, anzitutto un problema storico e successivamente un orientamento operativo.
E veniamo ad esporre brevemente i tre punti che interpretiamo come i più caratterizzanti l’architettura italiana.
Dal Rinascimento in poi la gran parte delle nostre fabbriche è stata «contestualizzata» se non addirittura conformata unitamente al suo ambiente: si pensi ai casi di Pienza, di Urbino, di Ferrara, di piazza del Campidoglio, degli Uffizi, di S.Maria della Pace, di piazza S. Ignazio, ecc.
Inoltre le opere dell’architettura italiana risultano nella maggioranza legate, oltre che ad un determinato luogo, soprattutto ad un altro artefatto: ad un allineamento stradale, alla forma di un piazza, allo scorcio fra una quinta e l’altra; la stessa rappresentazione-conformazione della prospettiva nasce dall’esigenza di ritrarre un ambiente: la tavoletta brunelleschiana di piazza della Signoria.
Ma ciò che conferma il contestualismo della nostra architettura, prova schiacciante della possibilità di coesistenza di antico e nuovo, è la citata stratificazione storica presente nella grande maggioranza dei nostri ambienti con il conseguente effetto di compattezza, di riduzione, di un costruito denso e fitto.
Donde il secondo carattere della nostra architettura: essa è «piccola» – tutte le macrostrutture passate e presenti, dal settecentesco Albergo dei Poveri di Ferdinando Fuga al Corviale di Mario Fiorentino si sono rivelate un fallimento – e contrassegnata dall’economia nel senso più ampio del termine.
Questa modestia di misura era legata sia alla ristrettezza delle nostre aree fabbricabili, sia alla relativa scarsità dei capitali disponibili, sia soprattutto al tempo breve che si impiegava per realizzare una costruzione.
Nel Quattrocento, mentre ancora famiglie e corporazioni di artefici si spostavano dalle Fiandre alla Spagna o dalla Germania alla Francia per completare i secolari cantieri delle cattedrali, il borghese fiorentino esigeva che il suo palazzo o la sua chiesa fosse completata in pochi anni in modo da poterne godere personalmente, negli anni della sua vita.
Gli italiani, a meno di non essere ammalati di manhattanismo o di altra sorta di provincialismo esterofilo, non amano i grattacieli, le nostre torri non sono abitate, hanno prevalentemente un carattere religioso e simbolico: lo skyline delle città d’Italia è contrassegnato da cupole e da campanili piuttosto che da alti edifici pubblici e privati.
Certo, anche da noi si sono costruiti pseudo-grattacieli, ma nessuno è espressione di qualcosa che vada oltre l’intento di sfruttare al massimo un’area edificatoria e comunque nessuno è segno di qualche nuovo aspetto interpretativo di questa tipologia.
Quanto al terzo carattere, quello per cui l’architettura italiana può dirsi «classica», non è chi non veda che lo è nel doppio senso di archeologica – dovunque ci muoviamo si pone la coesistenza coi reperti antichi – e nel senso di razionale, misurato, simmetrico nel duplice significato della parola: di rapporto commensurabile fra le parti e il tutto e di simmetria bilaterale che tanto dispiaceva a Zevi, a vecchi e nuovi decostruzionisti.
Per passare all’esame dell’architettura contemporanea, non esitiamo ad affermare che le migliori opere italiane sono quelle meglio ambientate, per così dire, costruite nel costruito, magari secondo la formula albertiana: «vuolsi aiutare quel che è fatto, e non guastare quello che s’abbia a fare».
Non conosciamo, fatte le solite eccezioni, opere di altri paesi più felicemente inserite nel contesto paesistico o urbano (e ci serviamo solo di quanto ci suggerisce la memoria) de La Rinascente di Albini a Roma, della Cassa di Risparmio di Michelucci a Pistoia, degli Stabilimenti Olivetti di Cosenza a Pozzuoli, della Chiesa della Sacra Famiglia a Genova di Quaroni ed altri, della Casa ad appartamenti di Gardella a Venezia, della Nuova Facoltà di Magistero di De Carlo a Urbino, dell’Edificio Residenziale in via Sant’Agostino a Torino di Gabetti e Isola e di tante altre opere, come quelle di Rossi, Aymonino, Gregotti il quale ha anche teorizzato questa tendenza.
Ma riportiamo il parere di altri critici sul tema della contestualizzazione.
Tafuri, riferendosi, in prima istanza alla produzione italiana degli anni ‘50, ma in realtà pensando soprattutto al quartiere Tiburtino di Ridolfi e Quaroni, scrive: II colloquio con “l’ambiente”: questo il tema […] sembra costituire l’originalità dell’esperienza italiana in quegli anni.
Il rivolgersi all’ambiente, peraltro, non è che la seconda faccia del rivolgersi alla natura […]. E anche a questo proposito si pencola fra due estremi: un’eccezionale spregiudicatezza nei confronti del lascito delle avanguardie; un’altrettanto eccezionale cautela nella definizione dei limiti concessi al dialogo con la storia.
Tuttavia questo giudizio – che sembra confermare la nostra tesi – non è positivo; in fondo egli vede nel fenomeno più un ripiego che un avanzamento. Di tutt’altro avviso, sono le considerazioni relative all’architettura databile agli anni ‘70 e ‘80.
Dopo alcuni interessanti commenti sulle opere, a suo parere, meglio “ambientate, Torre Velasca, casa alle Zattere, Bottega d’Erasmo, ecc., Tafuri ritorna sul tema di cui ci occupiamo: dalle elaborazioni più interessanti degli ultimi quindici anni, provengono tematiche che insistono su concetti di luogo, di contesto, di modificazione, di riammagliamento, di relazione fra intervento e condizioni di contorno, di continuità (tipologica e morfologica). […]
Nel rapporto con il luogo e con il contesto risulta messo in crisi il “pathos del nuovo”, ricordando sempre più che il linguaggio “si trasforma e non si inventa”; al trasformare stesso viene attribuito senso in rapporto con “il mondo così come l’ho trovato”. Abbiamo usato intenzionalmente frasi di Wittgenstein.
Dai temi sopra ricordati, così come vengono declinati dagli architetti italiani più interessanti nell’utimo decennio, sono spariti i romanticismi, le nostalgie per totalità perdute, l’ansia di recupero di regressivi focolari, con cui quegli stessi temi erano apparsi.
In breve, se abbiamo ben compreso, mentre il «contestualismo» degli anni ‘50 peccava di romanticismo e di populismo, quello degli anni ‘80 si legittimava col fatto che era solo uno dei paradigmi usati: una serie di esperimenti che insistono sui problemi del tempo, delle permanenze e dello sradicamento, della continuità e della discontinuità.
Posto che Tafuri abbia rivisto il contestualismo in una nuova luce, se è per noi significativo che, a differenza di altri autori, lo riconosca comunque, il problema che ci poniamo è diverso.
Qui non vogliamo ritornare sul rapporto fra antico e nuovo, peraltro malinteso dai pianificatori e dai soprintendenti che stanno impedendo qualunque modificazione; né cogliere una tendenza in atto, sia pure a livello teorico dell’architettura italiana, bensì una sua caratteristica invariante fra passato e presente, con tutte le stratificazioni, le continuità e le discontinuità della storia, tale da potersi indicare – ed in termini semplici, comprensibili a tutti – ciò che costituisce l’italianità dell’architettura italiana.
Altre considerazioni ci portano a differenziare la nostra idea di contestualizzazione dal generico concetto di ambientamento. Infatti, non è che la questione ambientale sia priva di contraddizioni e di equivoci. In altri nostri studi abbiamo espresso più d’un dubbio sulla sua definizione, sulla tendenza a non liberare celebri monumenti da superfetazioni, come vorrebbe un ambientalismo ortodosso.
Ancora, fino a qualche anno addietro ogni volta che si parlava di ambiente lo si faceva col piglio di chi enunciava una scoperta, eppure nella letteratura architettonica non c’è autore che non sia stato preceduto da un altro nell’affrontare tale argomento.
Viceversa, a ben riflettere, la questione del contestualisimo, con buona pace di chi vorrebbe vedere il museo di Bilbao a piazza Navona o l’Opera di Sidney all’imbocco della Giudecca, ha un suo solido fondamento logico.
Infatti, poichè il progettare ha senso solo se dà luogo ad un manufatto nuovo, altrimenti non c’è progetto ma iterazione di quanto s’è già realizzato, e poiché le tipologie livellano in gran parte questo nuovo, esso si realizza soprattutto in relazione al preesistente.
Ne consegue che quanto più segnato è quest’ultimo, com’è quello d’Italia, tanto più lo saranno le fabbriche nuove; non esiste il nuovo per il nuovo, ma sempre in relazione con qualcosa che gli sta accanto che lo condiziona e condizionandolo in pari tempo lo stimola ad una nuova conformazione e lo contestualizza.
Avviandoci ad una conclusione e per uscire dal generico, riteniamo che il migliore contributo che l’Italia possa dare all’architettura europea stia nel fatto che, accanto alla «cultura dello sviluppo», sia alimentata maggiormente una «cultura del recupero». Se abbiamo un patrimonio qualitativo e quantitativo da difendere maggiore di quello di alcune nazioni europee, si pone come prioritaria la necessità di restaurare, modificare, tutelare le fabbriche esistenti più che di costruirne ex novo.
Del resto i moderni restauri di Albini, Scarpa, BBPR, Giorgio Grassi, ecc. hanno dato magnifica prova e riscosso l’apprezzamento di tutto il mondo. Se questo è vero, ben si comprende perché le scuole d’architettura e in genere le istituzioni preposte alla formazione e alla professione degli architetti non possano emulare quella di altre nazioni in cui prevale il fare architettonico, per così dire, nuovo di pianta.
Resta pertanto fermo che il restauro debba considerarsi il nostro apporto prioritario all’architettura d’Europa. Ma ciò non toglie, visto che anche altre grandi nazioni europee hanno problemi analoghi, eccezionali capolavori da tutelare, e considerato che l’esigenza di costruire il nuovo si pone anche da noi, che dovremo partecipare altresì alla «cultura dello sviluppo». E ciò sarà possibile se riusciamo a mantenere quella specificità che abbiamo tentato di indicare in queste note.
tratto dal numero 114