Internet non s’addice all’architettura

RENATO DE FUSCO
Che la tecnologia digitale sia cosa di grande rilievo, tale da modificare l’economia, il lavoro, i rapporti sociali, il costume, il nostro stesso modo di pensare, è idea universalmente diffusa ed accettata.

Chi non impara, utilizza, sviluppa le nozioni e i concetti di questa tecnologia si pone fuori del mondo; a chi pensa male dell’informatica si può applicare, mutatis mutandis, il famoso motto dell’Ordine della Giarrettiera, Honi soit qui mal y pense.
Tutto ciò riconosciuto, la tecno-ideologia oggi imperante si presta ad alcuni equivoci che vanno chianti. Qui ne discuterò due: quello che riguarda il concetto di «informazione» e l’altro che associa indiscriminatamente l’architettura all’informatica ovvero ad Internet, qui scelta come emblema dell’intero corpus disciplinare.
Al centro della teoria digitale è il concetto di «informazione» che è stato ipostatizzato, ovvero esagerato oltre le sue effettive possibilità, specie per quanto riguarda la nostra disciplina.
Nel linguaggio cibernetico, un’informazione è un elemento di conoscenza recato da un messaggio che ne è il supporto e di cui essa costituisce il significato. Quando i messaggi sono redatti secondo un codice determinato, si può valutare l’informazione che trasmette un messaggio in caratteristiche date, introducendo delle unità d’informazione.
Da questa definizione emergono tre cose: l’informazione è un elemento di conoscenza; può variare da codice a codice ed è misurabile come vuole un’apposita teoria, quella appunto dell’informazione.
L’informazione pertanto non è materia o energia (Norbert Wiener), né spirito o soggettività (Gotthard Günter) ma solo e semplice informazione, notizia, fattore di conoscenza da trasmettere ad altri. Secondo Maldonado, la natura dell’informazione è rimasta un problema teorico relativamente aperto.
Non c’è da stupirsi dunque che in una società come l’attuale, in cui l’informazione sta assumendo un ruolo fondamentale, alcuni tendano a vedere nel processo di informatizzazione in corso una sorta di globale dematerializzazione e persino di spiritualizzazione del mondo in cui viviamo.
A mio avviso, tale processo non riguarda una «sostanza»,
altrimenti anch’esso diventa un’ipostasi, bensì una tecnologia che, tra le altre numerose sue potenzialità – interconnessione, abbattimento delle distanze, virtualità, ecc. – comprende anche la capacità di trasmettere in «tempo reale» non l’unica e metafisica «informazione», ma le numerose altre pertinenti ad ogni reale e specifico campo: le notizie economico-finanziarie, quelle politiche, i fatti di cronaca, gli ordinativi commerciali, ecc.
Il passaggio dal singolare al plurale delle informazioni è il primo punto per ridimensionare l’assunto centrale di alcuni teorici dell’architettura digitale che pretendono essere l’informazione la «materia prima dell’architettura», espressione assolutamente priva di ogni significato.
Invece Gerhard Schmitt scrive: poiché sono sempre più sottili i confini che dividono realtà e astrazione, e la tendenza dell’architettura è quella di allontanarsi dall’arte di costruire edifici per rivolgersi all’arte di creare strutture virtuali, la realtà virtuale diventa il mezzo perfetto per simulare la nuova architettura.
Tutto ciò alla fine potrà addirittura avere come risultato la smaterializzazione dell’architettura, che diventerà una sorta di campo di applicazione naturale della realtà virtuale.
Lo spazio proprio di quest’ultima è il Cyberspazio, non quello delle relazioni fisiche continue, ma l’altro immateriale delle relazioni a distanza. Il ciberspazio comporta una radicale trasformazione della nostra concezione dell’architettura e degli spazi pubblici. Le nozioni di città, piazza, tempio, istituzione, casa, infrastruttura, sono estese in modo permanente.
La città, tradizionalmente la città continua della vicinanza fisica, si trasforma nella città discontinua della comunanza culturale e intellettuale. L’architettura, intesa normalmente nel contesto della città tradizionale, scivola verso la struttura delle relazioni, delle connessioni e delle associazioni che si stendono sopra e intorno al semplice mondo delle apparenze.
Più radicale ed esplicito intorno alle nozioni di Cyberspazio, Internet ed architettura digitale è William J. Mitchell, architetto e docente di Architecture e Media Arts and Science presso il MIT, nel sostenere, a proposito dell’immaterialità di Internet: la rete nega la geometria.
Benché abbia per i bits una topologia definita di nodi di computer da cui si irradiano le grandi arterie e benché le ubicazioni dei nodi e delle connessioni possano essere tracciate come planimetrie che disegnano diagrammi sorprendentemente haussmanniani, la rete è sostanzialmente antispaziale.
Non ha niente a che fare con piazza Navona o Copley Square. È impossibile dire dove si trovi, descriverne memorabili proporzioni o conformazioni, suggerire a uno straniero come arrivarvi. Ma è possibile scoprirvi delle cose senza sapere dove siano.
La rete è un ambiente globale […] non è in nessun luogo in particolare ma insieme è dappertutto. Non si va da ci si collega in rete, da qualunque luogo ci capiti di essere fisicamente.
Certo, che tramite Internet si possano trasmettere informazioni riguardanti la nostra disciplina è indubbio, ma non ritengo che quello dell’architettura sia il campo più avvantaggiato da Internet a fronte di altri che ormai non ne possono più fare a meno.
Comunque, nella fase di ricerca, l’architetto può ricevere dati provenienti da centri progettuali, sedi universitarie, musei, industrie produttrici di materiali, sistemi costruttivi e simili. L’operazione informativa più utile e sperimentata è quella di collegarsi con altri operatori, una volta apertosi questo potenziale atelier progettuale con sedi in ogni paese del mondo.
In particolare, si va realizzando quell’ideale lavoro di gruppo tanto auspicato da decenni. Infatti un progetto può avere inizio in uno studio ubicato in una città, ripreso e discusso in un’altra, continuato in una terza e magari completato in una quarta dove si raccolgono i dati delle precedenti elaborazioni ed approvato da tutti i precedenti autori.
Ciononostante le suddette informazioni non costituiscono affatto la «materia prima dell’architettura». Né la costituiscono le ipotesi, per così dire, più moderate sul futuro dell’informatica applicata all’architettura, alcune delle quali già in atto.
Si ipotizza che la potenzialità di Internet agevolerà notevolmente il telelavoro; che in generale ridurrà il volume di traffico sia pubblico che privato; che di conseguenza porterà una diminuzione dell’inquinamento atmosferico e di tutti gli effetti collaterali dovuti agli spostamenti; si suppone che, grazie alle comunicazioni on line, ogni sorta di scambio culturale, finanziario, commerciale porterà a trasformazioni riguardanti gli edifici delle scuole e delle università, delle banche, degli uffici e dei negozi; che la rete delle reti consentirà un consumo di energia molto minore nella conservazione di libri, memorie, atti, documenti rispetto alle strutture fisiche oggi deputate a questo compito; che i meeting internazionali saranno meno costosi e più frequenti, ecc.
Ma ancora una volta ripetiamo: tutto ciò non basta a sostenere che l’informazione è la «materia prima dell’architettura». Essa va cercata altrove e, a costo di ripetere il già noto, anzitutto nella interna spazialità delle fabbriche, nonché ovviamente nelle loro componenti materiali, pietra, ferro, legno, ivi comprese le materie nuove, il tutto restando sempre nell’ambito del ponderoso, del volumetrico, del senso della massa stereometrica. In ciò la nostra disciplina non ammette deroghe: essa è un’arte antica.
Che cosa ha portato ad estendere all’architettura gli assunti dell’informatica fino a ritenere che l’informazione sia la «materia prima dell’architettura»? Le posizioni a riguardo risultano varie ed articolate. C’è chi considera il computer poco più che un «tecnigrafo elettronico» e chi gli conferisce le potenzialità di un deus ex machina.
Secondo alcuni autori, l’architettura cambierà poco: grazie all’informatica, la progettazione sarà più rapida e precisa, miglioreranno le condizioni lavorative dei cantieri, la gestione degli edifici sarà meglio controllabile, si potranno studiare i gradi di invecchiamento di una fabbrica, prevederne la rovina, ecc., ma l’architettura resterà quella di sempre legata alla triade vitruviana.
Secondo altri autori, a causa di una tecnologia in grado di modificare usi e costumi dell’intera società dall’assetto globale, anche l’architettura subirà trasformazioni altrettanto radicali fino al punto da smaterializzarsi e diventare non più sistema di spazi agibili, ma soprattutto un sistema di «informazioni».
Le due vie che la riguardano sono sostanzialmente quella di fabbriche effettivamente realizzate e quella di altre destinate a rimanere pure immagini, le une rientranti nel dominio del reale, le altre in quello del virtuale.
Ai fini della presente nota, ci interessa ovviamente discutere la seconda posizione, ma in tal caso si ripropone il quesito centrale: quale tipo di ragionamento ha portato alcuni autori a snaturare l’architettura, a sostituire il suo essere topos, luogo comunque chiuso e delimitato, con tutto un armamentario di cose invisibili e intangibili di cui l’«informazione» diventa l’emblematica sintesi? Quale logica sostiene tale passaggio?
La risposta più interessante che associa l’architettura ai fattori dell’informatica – e interessante proprio per la sua assurdità – è stata data dal citato Mitchell; che scrive: aspettatevi che gli organi elettronici, diventando sempre più piccoli e sempre più intimamente collegati a voi, perderanno le loro tradizionali rigide scocche di plastica. Assomiglieranno sempre di più a capi di abbigliamento e li indosserete, come fate oggi con le scarpe, i guanti, le lenti a contatto o gli apparecchi acustici.
I circuiti possono essere tessuti nella stoffa; i microapparecchi possono essere impiantati chirurgicamente: se i pacemaker elettronici e gli impianti cocleari sono ormai oggetti comuni, mentre i sistemi di simulazione neuromuscilari appaiono una prospettiva promettente per riparare i danni al midollo spinale, sono in corso intense ricerche per impiantare retine di silicone per i ciechi e non è certamente difficile immaginare protesi digitali in forma di orecchini elettronici, anellini nel naso o tatuaggi.
Alcuni chips sono così minuscoli da poter essere iniettati; sono stati usati per contrassegnare gli animali selvatici e per identificare i cuccioli. Dopo questa esposizione di potenzialità digitali, indubbiamente vere ma narrate con un compiacimento tra fantascienza e body art, Mitchell «lancia» la paradossale connessione di tutto questo con l’architettura: una volta aperto in questo modo il guscio della vostra pelle, comincerete a proiettarvi anche nell’architettura. In altre parole, alcuni dei vostri organi elettronici potranno essere incorporati nell’ambiente che vi circonda.
Dopo tutto, non vi è molta differenza tra un computer portatile e un modello da tavolo, tra un orologio da polso e uno da parete, tra un apparecchio acustico inserito nel vostro orecchio e una cabina telefonica pubblica per i non udenti.
E solo questione dell’organo a cui è fisicamente applicato; questo ha poca importanza, in un mondo senza fili in cui ogni dispositivo elettronico ha possibilità di calcolo e di telecomunicazione incorporate. In questo modo, l”abitare” assumerà un nuovo significato – un significato che non ha tanto a che fare con il parcheggiare le vostre ossa in uno spazio definito architettonicamente, quanto piuttosto con il collegare il vostro sistema nervoso a organi elettronici che si trovano in prossimità.
La vostra stanza e la vostra casa diventeranno parte di voi e voi diventerete parte di esse.
La tesi dell’architettura incorporata fisicamente prosegue con una serie di paragrafi i cui titoli dicono tutto: Occhi/Televisione; Orecchi/Telefonia; Muscoli/Attuatori; Mani/Telemanipolatori; Cervelli/Intelligenza artificiale, ecc.
Queste associazioni dal più vieto materialismo – in altri momenti negato in omaggio alla presunta immaterialità di tutto l’apparato informatico – si concludono con un richiamo alla storia: non dobbiamo tuttavia dimenticare le nostre radici, le culture di questi lunghi secoli pre-silicio, nei quali i nostri antenati dovevano fare tutto con il protoplasma.
Avendo scarse possibilità di estendere i loro sistemi nervosi o di incrementare le capacità dei corpi, hanno creato luoghi di abitazione – edifici e città – accuratamente adattati alla misura e ai limiti della dotazione originaria e strutturati in modo da favorire il costante contatto faccia a faccia, occhio a occhio, a portata di orecchio e di mano. La vita nei luoghi pre-cyborg era un’esperienza molto differente. Si doveva essere realmente lì.
Ritornando a più ragionevoli teorizzazioni, deciso avversario dell’architettura-comunicazione, era Cesare Brandi. Ora più che mai si comprende la sua distinzione teorica fondamentale fra semiosi ed astanza, formulata in anni non sospetti di moda informatica: la casa non comunica d’essere una casa, non più di quanto la rosa comunichi di essere una rosa: la casa, il tempio, l’edificio termale si pongono, si rendono astanti o come realtà di fatto o come realtà d’arte, ma non sono tramite di comunicazione: solo in via subordinata trasmettono delle informazioni.
Benché quella via subordinata non sia affatto trascurabile, implicando discipline quali l’iconologia e la semiologia, ai fini del nostro chiarimento dell’idea dell’informazione come nocciolo dell’architettura, l’assunto di Brandi è quasi totalmente da sottoscrivere.
Altrettanto significativo è il giudizio di Ithiel de Sola Pool, studioso degli aspetti economico-sociali connessi con le telecomunicazioni, il quale sostiene: non c’è ragione di credere che le città e i loro grandi centri (downtowns) siano destinati a sparire.
Pur ammettendo che le telecomunicazioni possano dar luogo a numerose comunità senza contiguità, disperse in un vasto territorio, egli revoca in dubbio che questo modello possa diventare dominante: è una pura fantasia immaginare che le telecomunicazioni possano condurre la gente a vivere in isolamento fisico. È infatti poco realistico giacché gran parte dell’attività umana non consiste soltanto nell’interscambio di informazione ma comporta anche l’azione sugli oggetti fisici.
E quest’ultimo assunto costituisce, a mio avviso, la chiave dell’intera questione reale-virtuale. Esso infatti ci porta ad un binomio di cui più volte mi sono avvalso per sciogliere nodi di varia natura, quello di conformazione e rappresentazione. Forse ogni operazione umana, ma limitiamoci al campo dell’arte, comporta una componente conformativa ed una rappresentativa; ciò che conta è riconoscere, nei vari casi, la prevalenza dell’una sull’altra.
La pittura e la scultura, che pure implicano un lavoro di conformazione, sono prevalentemente rappresentative; l’architettura e il design, che pure implicano un lavoro di rappresentazione, sono prevalentemente conformative. Ciò peraltro spiegherebbe la difficoltà di trovare un referente per l’architettura, una volta assodato, contrariamente a quanto si riteneva, che essa imitasse, sia pure con modalità diverse, la natura.
Ora, la gran parte dell’apporto digitale all’architettura va assegnato alla componente rappresentativa, che va dall’iconico al semantico, dal virtuale al possibile – e ricordiamo che il reale è solo un caso del possibile -‘ dalla comunicazione all’informazione.
Tutte queste facoltà, evidentemente di grande importanza, per essere «architettoniche» devono sostenersi sulla componente conformativa, che va dallo spazio degli invasi interni alle singole fabbriche, penetrabili ed agibili, al volume dei loro involucri esterni, dalla solidità della materia alla sua trama, dal gioco tangibile dei pieni e dei vuoti al fenomeno per cui ogni architettura contiene uno spazio ed occupa uno spazio; insomma tutte cose che sono percepibili e che si toccano con mano.
Parafrasando un grande filosofo della conoscenza, non siamo noi a doverci adattare alla tecnologia, ma questa alle nostre capacità conoscitive.
Avviandoci alla conclusione, tocchiamo l’aspetto più pratico del rischio dell’architettura informatica, almeno quella teorizzata da alcuni autori… Che uno scrittore di fantascienza, un fanatico futurologo, un tecnologo «puro» auspichi un mondo tutto on line, virtuale al punto di rinunciare ad ogni piacere dei sensi, è comprensibile, ma che lo stesso atteggiamento sia condiviso da un architetto risulta inconcepibile.
La questione non è se oggi sia possibile, come in tanti altri campi, l’esistenza di un’architettura virtuale, tutta affidata alle immagini e non alla sua materiale spazialità – e, a mio avviso, già questo è impossibile, ma se «vogliamo» che sia così, ovvero se siamo disposti a rinunciare a tutte le categorie che da sempre hanno costituito lo specifico dell’architettura.
Ora, se non vogliamo perdere tale specificità, bisogna contrapporsi a chi si oppone al «costruire», a chi vede in ogni nuovo edificio una minaccia per l’ambiente preesistente, a chi vede nel mercato delle costruzioni solo l’espressione della speculazione edilizia, a quegli urbanisti che riducono tutto il problema dell’architettura ad un rapporto di indici, a quegli statistici che sostengono, in fatto di residenza, che i vani costruiti sono in esubero rispetto al numero degli abitanti, a tutti i conservatori di vario ordine e grado.
Se a queste difficoltà ideologiche, politiche, amministrative, burocratiche che sono contro il «costruire» aggiungiamo le teorie di questi utopisti dell’anti-spazio, della virtualità, dell’immaterialità, ecc., diamo sostegno alla politica del non-fare, peraltro avallato da una tecnologia che in altri campi sta dando prove meravigliose. Ecco perché riteniamo che Internet, assunta come l’emblema dell’apparato informatico, sia fenomeno di enorme rilievo, ma che ciononostante non s’addica all’architettura.
tratto dal numero 112