La storiografia è progettazione

RENATO DE FUSCO
Quanto segue non è un’autorecensione del mio recente libro Storia dell’idea di storia, né della sua riduzione intitolata «Artifici» per la storia dell’architettura, bensì una ulteriore semplificazione della tesi per cui esiste una forte similitudine fra la storiografia della nostra disciplina e il progetto architettonico.

Con la presente nota, in altri termini, intendo completare il ciclo che va dal primo libro, dedicato alla generale riflessione sulla storia tout court, al secondo in cui tale riflessione è applicata ad una storiografia particolare, quella dell’architettura e dell’arte, fino alla esposizione più sintetica di queste idee nel presente articolo.
Quasi sempre finora quando architetti e critici si sono occupati della storia, il punto di base è stato il rapporto fra storia e progettazione, il quale ha generato il doppio errore: da un lato, s’è ritenuto che il progetto fosse totalmente dipendente dall’esperienza storica e, dall’altro, che questa non potesse affatto servire alla progettazione.
La questione era, a mio avviso, mal posta e quindi incapace di dare una valida risposta. Non è alla storia – con l’eccezione che vedremo – cui va riferita la pratica progettuale, quanto piuttosto alla storiografia. La confusione di questa con la storia, lo scarso uso in alcune lingue del termine «storiografia», l’ambiguità con la quale molti autori utilizzano il termine «storia», ecc., sono tutte cause degli equivoci e malintesi che si sono prodotti nel nostro campo.
Il primo chiarimento pertanto va operato sulla distinzione dei due termini, recentemente modificati in storia-realtà e in storia-studio, che evidentemente, al di là della correttezza lessicale, denotano addirittura due mondi diversi.
Inoltre il loro rapporto possiede la prima e più grande caratteristica storica, quella della problematicità. Infatti, non si dà storia senza una storiografia che la racconta, né storiografia senza storia mancandole la materia da studiare.
Donde la considerazione che fra l’una e l’altra c’è distinzione ma non separatezza.
Un altro aspetto problematico – ed entriamo nel vivo dell’argomento architettura – sta in ciò che il rapporto suddetto è reso più complesso dall’essere gli eventi della
storia dell’architettura e dell’arte non relegati in libri e in documenti ma materialmente presenti in opere e monumenti; il che, se da un lato agevola l’indagine storiografica, dal l’altro induce all’errore suddetto di pretendere dalla storia suggerimenti diretti per la progettazione.
Quella dell’architettura e dell’arte è una storia speciale anche perché opere e monumenti, pur rimandando ad altro, sono principalmente autoespressivi, come ebbe a rilevare Fiedler con la sua Sichtbarkeit, donde un importante suggerimento: la storiografia artistica, per l’autoespressività delle opere-eventi, non deve descriverle, così come si verifica nella gran parte dei manuali, ma interpretarle: dire ciò che in esse è soggiacente e nascosto; da qui l’impiego delle metodologie strutturalistica ed ermeneutica.
Ma prima di procedere oltre, vanno fatte alcune precisazioni sulla vexata quaestio dell’uso della storia nella progettazione. Il rapporto tra quello che si deve programmare, prevedere, progettare appunto, non è, come già detto, direttamente ricavabile dalla storia, bensì indirettamente dalla storiografia. Il vero spartiacque fra storia e storiografia ai fini progettuali è indicato dalla concezione linguistica dell’architettura.
Ogni sorta di linguaggio, ivi compreso quello architettonico, può strutturalmente considerarsi formato da elementi costanti e da regole combinatorie. Tali elementi e regole da soli non possono costituire un messaggio. Un evento storico, un «messaggio», un edificio (nel nostro caso) è invece costituito da una particolare, unica e irripetibile combinazione degli elementi.
Ora, finché il progetto di una fabbrica attingerà dalla storia compiute conformazioni, «eventi», esso riprenderà, ripetendoli passivamente, precedenti «messaggi» e avrà un marchio storicistico, eclettico, revivalistico.
Se, viceversa, la progettazione attingerà dalla storia elementi costanti e regole combinatorie, ossia tutto quanto non si configura come un messaggio, essa avrà individuato termini del sistema linguistico, fattori strutturanti la lingua architettonica, che potranno essere utilizzati nel programmare una nuova fabbrica, ancorata sì alla tradizione storica, ma del lutto inedita, in quanto nuovo messaggio. per ciò che conforma e comunica.
Le precisazioni appena esposte ci riportano al discorso del metodo storiografico da integrare con quello strutturalistico e con quello ermeneutico.
La metodologia strutturalista, visti gli esiti insoddisfacenti di uno storicismo ortodosso, diventa complementare alla storiografia; l’ermeneutica, in quanto interpretazione, è parte integrale della storiografia.
Infatti anche lo storicismo più rigoroso, quello che ritiene la storiografia una scienza idiografica, basata cioè non su leggi ma sull’individualità degli eventi, non può riconoscere un singolo evento se non in riferimento a più generali strutture, istituzioni, periodi di lunga durata.
Che lo storicismo e lo strutturalismo siano ormai da considerarsi inseparabili è dimostrato non solo dalla pratica storiografica, ma dai fondatori dello storicismo contemporaneo: Droysen, Dilthey, Weber, Bloch e tutti gli autori delle «Annales», nonché da quelli particolarmente interessati alla storia dell’arte: Wölfflin, Sedlmayr, Panofsky, ecc.
Che l’ermeneutica, la teoria dell’interpretazione, sia parte integrale della storiografia si sostiene non solo in base alla sua origine, l’interpretazione dei testi sacri, ma anche e soprattutto sul fatto che essa si applica a qualunque altro evento certamente avvenuto, quindi ad ogni evento storico.
Storicismo, strutturalismo ed ermeneutica, con i loro capisaldi, canoni, tipi-ideali ed altri «artifici» costituiscono un insieme epistemologico tale da non ammettere alcuna sottrazione.
Cosicché, al fine di esporre e possibilmente dimostrare la nostra tesi del parallelo fra storiografia architettonica e progettazione, bisogna riconoscere anzitutto che i fattori originati in ognuna di queste metodologie – l’individualità, la causalità e la selettività (capisaldi della storiografia); le tipologie, i paradigmi, le invarianti, la semiosi (sostegni dello strutturalismo); la circolarità, il rapporto fra il tutto e le parti, l’influenza fra l’interpretato e l’interpretante (canoni della ermeneutica) – sono diventati patrimonio comune al suddetto insieme epistemologico.
Ai citati fattori, riscontrabili in ogni genere di storiografia, si associano quelli propri della teoria e della storiografia particolare dell’architettura: i vitruviani precetti della firmitas, utilitas e venustas; l’antico concetto di symmetria, cioè il rapporto commensurabile delle parti fra loro e di ognuna con il tutto del l’edificio; la comunicabilità espressa in «forme simboliche», variabili da un’età all’altra secondo il Kunstwollen epocale; la tipologia, intesa quale invariante della morfologia; la nozione di stile; la concezione per cui la storia risponde alle domande che solo la teoria è in grado di porre.
E l’elenco potrebbe continuare. Ma questi specifici fattori della storiografia architettonica non sono tutti contenuti o riportabili al citato insieme epistemologico composto dalle tre metodologie?
Infatti, il concetto di stile è del tutto analogo al tipo-ideale di Weber; la nozione di symmetria è la puntuale incarnazione visibile del concetto di «struttura» e in pari tempo del «circolo ermeneutico»; i principi di individualità, causalità e di selettività si riscontrano pari pari nella storiografia architettonica; il rapporto fra «testo», inteso nel senso più ampio, ivi compreso quello materializzato da un fabbrica, e colui che lo interpreta trova precisa corrispondenza fra l’opera architettonica e lo storico che la studia ed ancor più evidente è tale rapporto nel caso di un monumento da restaurare.
Quest’ultimo esempio ci introduce direttamente all’esposizione della tesi che la storiografia è progettazione.
Tutte le analogie riscontrate e quelle che in seguito indicheremo confermano un assunto già anticipato: il progetto non va riferito alla storia, ossia direttamente prelevando forme già esistenti, bensì alla storiografia che è, tra l’altro, qualcosa che interpreta, secondo la visuale di oggi, le forme del passato, vale a dire una loro rielaborazione; in senso lato, una loro progettazione.
Ma non accontentiamoci di accostamenti metaforici e cerchiamo di vedere fino a che punto la suddetta tesi si può sostenere.
Ritornando alla distinzione fra storia-realtà e storia-studio, la prima è stata considerata ora un disegno divino, ora l’opera dello spirito del mondo, ora come l’esito dialettico delle forze umane in lotta, ecc.
Quale che sia la «vera» concezione della storia, un fatto è certo: la storia non si progetta se non per limitate operazioni, comunque condizionate dall’imprevisto, dal caso, dalla dinamica delle circostanze.
Viceversa la storiografia, intesa come studio del passato dalla visuale di oggi, come sua interpretazione, come ipotesi di ulteriori e futuri sviluppi, è materia altamente progettuale. Per convincersene basti pensare alle più elementari operazioni storiografiche: l’individuazione di un tema, la periodizzazione, la contestualizzazione, l’organizzazione della materia, la ricerca delle invarianti, la posizione di un problema, la riduzione, nel senso di ri-conduzione, degli eventi ad uno schema interpretativo, ecc.
Che cosa sono tutte queste operazioni se non «artifici» storiografici, atti di scelta e di manipolazione? E cosa fa un progettista se non scegliere elementi e regole combinatorie, aggiustare le parti affinché concorrano a formare un tutto?
Per dirla in termini più schietti la storiografia si organizza, si struttura, si manipola allo stesso modo in cui si progetta qualunque altro manufatto artificiale, nel nostro caso una fabbrica, un restauro, un piano urbanistico.
Chiunque abbia un minimo di esperienza progettuale, poniamo, di un edificio, sa che una volta definita una sua parte principale, la pianta ad esempio, non basta constatare che tutto funzioni: lo spazio previsto, la struttura statica, gli elementi distributivi, le aperture e quant’altro. Quella pianta, così apparentemente ben organizzata, resta soltanto una «figura» se non si accorda alle altre parti dell’edificio o addirittura le genera: le fronti, la sezione, la copertura, ecc.
Nella quasi totalità dei casi questo risultato non si ottiene subito, bisogna ritornare a disegnare la pianta in funzione non solo delle esigenze strettamente planimetriche, ma anche di quelle che concorrono a conformare l’insieme dell’opera.
Si tratta, in sostanza, di un continuo fare e disfare, di chiamare in causa tutti quei fattori della concinnitas, per dirla in termini albertiani, vale a dire l’accordo delle parti nel tutto, fino al punto da raggiungere la condizione del nihil addi, ovvero quando non si può più aggiungere o togliere nulla.
In altri miei scritti ho tentato di razionalizzare questo processo, muovendo dalla riduzione del progetto in quattro parti: i dati di partenza, l’intuizione, la rappresentazione e la critica operativa.
Ognuna di queste parti, originariamente distinte e appartenenti a specifiche categorie dovranno, nel corso dell’elaborazione, amalgamarsi al punto da conformare un tutto secondo il modello del «circolo ermeneutico».
I dati di partenza sono quelli richiesti dalla committenza e quelli imposti dalle possibilità di tempo e di luogo; l’intuizione, pur essendo momento aurorale, non è fondata sul nulla, ma è la sintesi di generali e preesistenti esperienze; la rappresentazione rientra nel bagaglio «tecnico» degli strumenti già noti al progettista (la geometria proiettiva, la prospettiva, l’assonometria, ecc.); la critica operativa non è la critica che si effettua ex post su un manufatto già elaborato, l’aggettivo operativo denotando che tale critica si effettua nel corso dell’elaborazione.
Il passaggio dalle parti al tutto, utilizzando quanto scrive Gadamer sulla scorta di Heidegger, si può pensare come la trasformazione di queste quattro parti, ognuna intesa come una pre-cognizione in cognizione allorquando ciascuna passa al vaglio di tutte le altre.
Cosicché, ripeto, nel corso del processo progettuale, fattori aventi una propria natura e pertanto fra loro eterogenei, abbandonano la loro specificità ponendosi in relazione fra loro nell’intento di conformare un tutto omogeneo.
Va inoltre osservato che la linearità del procedimento, dati di partenza-intuizione-rappresentazione-critica operativa, acquista una sua circolarità, allorquando da pre-concetto o pre-cognizione ciascuna parte diventa cognizione ponendosi in una relazione amalgamante con le altre parti.
A questo punto non è necessario che il processo muova da un’obbligatoria parte; l’introduzione nel circolo può avvenire anche, poniamo, dall’ultima: tante volte la critica operativa ha guidato o addirittura dissuaso il progettista dall’affrontare il problema.
Se quanto precede contribuisce a razionalizzare il fare progettuale, non è forse possibile estendere la stessa logica alla redazione di un testo storiografico, utilizzare gli stessi fattori chiamati in causa per un progetto d’architettura? La risposta è affermativa e l’ipotesi del confronto mi sembra ragionevole.
Nel testo storiografico, si potrà sempre cambiare nome ai quattro parametri e, nei casi più complessi, si potrà porre al loro posto strutture concettuali più elaborate, quali schemi o tipi-ideali, ma la metodologia è del tutto simile, ne è da escludere che lo stesso numero dei fattori possa valere tanto nel progetto di un edificio quanto in un testo di storiografia architettonica.
Ma ove le riflessioni fatte finora risultassero poco convincenti, vi sono altri motivi per dire che la storiografia è progettazione. Fra i criteri comuni al progetto d’architettura e ad un testo storiografico, uno sovrasta tutti gli altri: quello della selettività; non c’è riflessione filosofica sulla storiografia che non dichiari, per dirla con Febvre, «tutta la storia è scelta».
È questa la facoltà che consente allo storico lo studio di un fatto rispetto agli altri; il valore da attribuire ad uno e non ad altri; i modi coi quali interpretarlo; la prospettiva donde osservarlo; il tempo del suo giudizio, l’unico fattore obbligante perché solo dal presente si può muovere verso il passato o avanzare ipotesi per il futuro. Non è chi non veda la selettività quale momento comune anche alla progettazione. L’attribuire alle scelte tanta importanza implica inevitabilmente la presenza di un altro «artificio» storiografico, quello della «manipolazione».
Caduto il positivistico dominio dei fatti nella storiografia e con essa tanti luoghi comuni: la «verità storica», la storia magistra vitae, il valore assoluto della storia, la filologia come il momento più «scientifico» della storiografia, ecc., tutta la ricerca storiografica è affidata alle scelte, all’interpretazione, alle manipolazioni dello storico con l’unica garanzia che il massimo dell’oggettività è la soggettività, purché dichiarata.
E questo soggettivismo è tanto più valido nell’epoca attuale, quando i moderni mezzi d’informazione vanno affermandosi, quando cioè persino la temporalità degli eventi è venuta radicalmente a modificarsi: tutto avviene in tempo reale, grazie agli sviluppi della tecnologia.
Pertanto l’opera manipolativa costituisce un fattore indispensabile per la «costruzione» della storiografia, al fine di interpretare quest’ultima come progettazione. Ed ancora, se le caratteristiche più riconosciute della storia e conseguentemente della storiografia sono la relatività, ivi compresa quella riguardante la cosiddetta verità storica, l’incompletezza, lo scarto fra l’essere e il dover essere, la incessante revisione dei giudizi e tutto quanto di incerto e problematico le concerne, la manipolazione, nel senso migliore del termine, non può non intervenire nello studio di una materia tanto inafferrabile.
Nessuno scandalo dunque per le manipolazioni storiografiche, ma solo l’auspicio che esse trovino un punto d’incontro con l’architettura nel suo farsi e soprattutto che siano legittimate dal senso e dalla loro funzione euristica. Inoltre, appare del tutto evidente che le scelte, le «manipolazioni», le costruzioni di modelli e quant’altro viene elaborato ai fini d’interpretare la storia e di renderla più prossima alla vita, altro non sono che le forme più spregiudicate di «artifici» storiografici.
Quello che nella storia non è modificabile, lo è nella storiografia. A quest’ultima infatti è concessa la facoltà di speculare, di ipotizzare, di prevedere, di progettare un ordine nella vicenda umana o, quanto meno, di nutrire l’illusione di farlo.
La storia dell’architettura è anch’essa immodificabile, mentre lo è la storiografia: qui sembra lecito e credibile, al pari della progettazione, «aggiustare» le cose nella speranza di costruire un ambiente più vivibile, di modificare ad arte i suoi prodotti, di ideare qualcosa che resti nel tempo; in breve di contrapporre il progetto al destino, di tradurre in umano «artificio» quanto la natura, non sempre benigna, e l’irrazionalità di una minoranza di potenti quotidianamente ci impongono.
È proprio un’utopia pensare di «aggiustare» le cose, progettarle, utilizzare «artifici», ricostruire per il passato e costruire per il presente ed il futuro, così come avviene in architettura, anche per quanto attiene alla sua storiografia?
Ma c’è un punto conclusivo del nostro argomentare che racchiude gli altri legittimando scelte e manipolazioni.
In tutte le dicotomie che s’incontrano nello studio della storia, specie quando esso è affidato all’insieme epistemologico formato dallo storicismo, dallo strutturalismo e dall’ermeneutica: individualità-generalità, idiografico-nomotetico, causale-casuale, empirico-concettuale, organizzazione-astrazione delle strutture, ecc. nessun termine esclude l’altro.Lo stesso tipo-ideale che, a mio avviso, è il maggiore paradigma storiografico, è una costruzione concettuale basata tuttavia su elementi reali.
Per estensione, è lecito sostenere che la ricerca storica non è solo deduttiva, ovvero tale che fissato un principio lo si applica ai singoli casi (il che spiega il fallimento di tutti i tentativi di individuare «leggi» nella storia), né è solo induttiva, ovvero tale che dall’esperienza dei singoli eventi si possa risalire ad un principio generale (il che smentisce il puro empirismo di tanti libri di storia), ma nasce da un continuo «aggiustamento» fra le due linee, da una «manipolazione» di dati reali con altri concettuali.
Questa conclusione – la cui origine si può forse riscontrare in Vico quando sostiene che la storiografia si compone del «certo reale» proprio della filologia e del «vero ideale» proprio della filosofia – ci porta a ritenere che, se non la storia, certamente la storiografia si progetta al pari di qualunque altra forma di costruzione e di ricostruzione; nel nostro caso dell’architettura e del restauro.
tratto dal numero 104