Gli oggetti «usa e getta»: l’ipertelia

LUCIA PIETRONI
Gli oggetti tecnici, e più in generale gli oggetti d’uso prodotti industrialmente, evolvono secondo un processo di «selezione interna», legato fondamentalmente ai mutamenti delle condizioni tecnologiche ed organizzative della loro produzione e secondo un processo di «selezione esterna», dovuto alla loro accettazione da parte del mercato e al loro grado di «adattamento» e di «adattabilità» ai cambiamenti che avvengono nel contesto socio-culturale in cui svolgono le loro funzioni.

Per «adattamento» si intende la capacità di rispondere in modo competitivo ai bisogni del mercato e per «adattabilità o fitness» si intende la capacità di mantenere ed ampliare la propria «plasticità evolutiva», ovvero la possibilità di sopravvivere e continuare ad evolvere in una grande varietà di ambienti.
Alcuni oggetti, nella loro evoluzione tecnica, raggiungono un grado di «specializzazione funzionale» tanto elevato da rischiare di essere coinvolti in un processo di «disadattamento» rispetto anche al più lieve cambiamento delle condizioni ambientali in cui vengono prodotti ed utilizzati.
Questo fenomeno di «iperspecializzazione o iperfinalizzazione», che viene definito da Gilbert Simondon, in Du mode d’existence des objets techniques, ipertelia, quando si manifesta – nei processi di adattamento di un oggetto al suo «ambiente interno», cioè al contesto tecnico-industriale, e al suo «ambiente esterno», cioè al contesto socio-culturale – genera, il più delle volte, un fenomeno di sovradattamento funzionale ovvero una riduzione dell’autonomia evolutiva dell’oggetto rispetto ai mutamenti ambientali, che ne condizionano sempre più la sopravvivenza e lo sviluppo.
Il sovradattamento funzionale – scrive Simondon – va talmente lontano che giunge a taluni schemi vicini a quelli che, in biologia, si collocano tra la simbiosi e il parassitismo: certi piccoli aerei velocissimi non possono decollare agevolmente se non portati da uno più grande che li sgancia in volo (…).
L’ipertelia, descritta da Simondon come la tendenza verso una specializzazione esagerata, rappresenta quindi un reale ostacolo al processo evolutivo di un oggetto tecnico,
in quanto implica una notevole rigidità nei confronti delle condizioni ambientali, che invece sono in continua trasformazione dinamica.
Questo concetto di iperspecializzazione è condiviso e descritto anche da U. L. Businaro, in Comparing natural evolution and technological innovation, quando afferma che le specie che si pongono lungo una via evolutiva troppo specializzata possono perdere «plasticità evolutiva», e che allo stesso modo l‘improvviso fallimento di un prodotto, che ha conquistato una larga parte di mercato attraverso una eccessiva specializzazione, si verifica proprio nel momento in cui cambiano i bisogni del mercato.
Significativa espressione di un fenomeno di «ipertelia», nelle società industriali mature, è la diffusione e l’affermazione dei prodotti cosiddetti «usa e getta», ovvero di tutti quegli oggetti mono-uso, che sono, come scrive E. Manzini, estremamente economici, tanto da risultare più efficiente, dopo ogni uso, buttarli via piuttosto che impiegare tempo ed attenzione per ripristinarne la funzionalità.
Sono prodotti quindi che esprimono un’elevatissima qualità funzionale, ma che, nella loro monodimensionalità, sono privi di identità culturale.
La famiglia degli «usa e getta» è costituita di oggetti estremamente servizievoli, vere e proprie «protesi funzionali», le cui caratteristiche principali sono l’efficienza, la povertà espressiva e la transitorietà.
Si può parlare, più precisamente, di un fenomeno di ipertelia simbiotica, riprendendo ancora la terminologia usata da Simondon, in quanto si tratta di un sottile adattamento funzionale di questi prodotti industriali al loro «ambiente interno» e al loro «ambiente esterno», che ha permesso finora il mantenimento e l’evoluzione di numerose tipologie di oggetti «usa e getta».
Il sistema tecnico-industriale e il sistema socio-culturale, che fino ad oggi hanno legittimato ed incentivato lo sviluppo di questi prodotti mono-uso, hanno in comune l’appartenenza ad una società consumista ed opulenta, i cui massimi valori sono l’efficienza e il risparmio di tempo e lavoro.
Tutto è cominciato con l’idea moderna che ogni oggetto fosse riducibile a un apparato funzionale: una protesi la cui qualità stava nello svolgere una determinata funzione nel modo più efficace e rapido. (…) ma esso, evolvendo nell’usa e getta, non è più percepito come un oggetto in senso proprio, ma come una sorta di momentanea materializzazione della funzione che svolge (un sacchetto o una bottiglia di plastica esistono solo nel momento in cui svolgono la loro funzione. Al di là di questo sono rifiuti).
Questo mondo «usa e getta» è dunque l’espressione della cultura funzionalista e quantitativa portata alle estreme conseguenze all’interno di una società industriale matura, che può permettersi il lusso di trasformare, nell’uso che dura pochi istanti, una grande quantità di prodotti in una altrettanto grande quantità di rifiuti e che può vivere e soddisfare i propri bisogni senza porre alcuna attenzione nel proprio rapporto con le cose.
La qualità espressa da questi prodotti mono-uso è completamente inscritta nel territorio delle qualità primarie, nel rapporto strumentale di massima utilità, transitivo e poco profondo, che è l’unica relazione che riescono ad instaurare nella loro brevissima vita.
A ben guardare, questa categoria degli oggetti «usa e getta» può subire un’estensione, in quanto, all’interno della grande differenziazione della produzione postindustriale, possiamo trovare altre tipologie di oggetti, non mono-uso, ma dalla vita ugualmente brevissima, cioè prodotti che vengono fruiti e consumati in pochi istanti.
Sono tutti quegli oggetti che non vengono realmente «usati», poiché non hanno quasi mai una vera e propria funzione pratica, e che non vengono, subito dopo l’uso, «gettati via» come rifiuti ma piuttosto abbandonati e dimenticati in qualche angolo del nostro ambiente.
Si tratta da un lato di tutti quei prodotti «puro-segno o pura-immagine», che sono concepiti come semplici supporti comunicativi e dall’altro di quegli oggetti, definiti «gadgets», cioè aggeggi tecnologici di intrattenimento, «diavolerie elettroniche», che attraggono con bizzarre e stupefacenti performances, ma che innescano immediatamente un processo di disinnamoramento nell’ utente-fruitore-spettatore.
Per quanto riguarda gli oggetti «puro-segno o pura-immagine», si può constatare che i significati e le informazioni, che supportano e veicolano quotidianamente, vanno ad addensarsi in un ambiente semiotico sempre più saturo, cosicché si banalizzano e consumano con estrema rapidità; a volte senza essere stati nemmeno fruiti, vanno ad aumentare l’inquinamento semiotico del nostro intorno materiale e il nostro stordimento sensoriale che si trasforma in fretta in indifferenza percettiva.
Per quanto riguarda gli oggetti «gadgets», si può osservare che le loro attraenti ed insolite performances non producono un rapporto partecipato e realmente interattivo, ma solo uno spettacolo, a cui è noioso assistere più di una volta; non si tratta mai di un coinvolgimento profondo e di emozioni durature poiché la loro scarsa personalizzazione sul piano dell’uso e della fruizione li rende oggetti autoriflessivi ed autoreferenziali, incapaci di creare un proprio territorio semantico.
Gli oggetti «puro-segno o pura-immagine» e i «gadgets», per quanto simmetricamente opposti agli oggetti «protesi funzionali mono-uso» – poiché si inscrivono essenzialmente nella dimensione delle qualità secondarie e soggettive, subordinando l’efficienza funzionale alle caratteristiche estetiche, comunicative e spettacolari – contribuiscono però a creare la dimensione di povertà qualitativa, di banalità e superficialità, tipica del mondo «usa e getta».
Possiamo, quindi, affermare che, nonostante le differenze, esiste una linea di convergenza tra questi prodotti a rapido consumo, che è rappresentata dalla loro monodimensionalità, funzionale ed espressiva, che produce una qualità relazionale, di uso e fruizione, povera e superficiale.
Inoltre nella loro «eccessiva specializzazione» funzionale, comunicativa, o performativa, sono oggetti «ipertelici», cioè «iperfinalizzati», ma che, nella loro unidimensionalità, hanno poca «plasticità evolutiva», ovvero una scarsa capacità di adattarsi ai mutamenti ambientali.
Questo mondo artificiale «usa e getta», che non ci richiede attenzione né abilità, che consuma grandi quantità di risorse e produce grandi quantità di rifiuti, contribuendo in modo determinante all’aumento dell’inquinamento fisico e semiotico del nostro ambiente, non può più esprimere qualità apprezzabili e valori legittimabili universalmente.
Nel momento stesso in cui la continua evoluzione tecnologica ha ampliato a dismisura le possibilità progettuali e produttive, liberando la cultura del progetto da molti dei tradizionali limiti tecnici, ha iniziato a diffondersi la consapevolezza dell’esistenza di altri limiti: i limiti fisici e semiotici del nostro ambiente.
Sono, infatti, sempre più numerose le critiche e le denunce che, da più parti, vengono mosse alla transitorietà e all’insostenibilità di questo mondo «usa e getta».
Particolarmente suggestivo, a questo proposito, è un articolo di Agnes Heller, pubblicato su La Nuova Ecologia all’inizio degli anni ’90, nel quale la filosofa ungherese afferma che gli oggetti d’uso affollano lo spazio di vita del presente. Vengono e vanno; oggetti funzionalmente equivalenti li sostituiscono (…).
Presto sorpassati e consunti, tutti i prodotti dell’immaginazione tecnologica sono usati come strumenti, per giunta come strumenti temporanei, transitori (…). Ogni cosa viene prodotta per essere consumata e non per restare come duraturo monumento di un mondo (…).
Molte cose sono usate solamente una volta (…) i corpi morti degli oggetti si accumulano nella necropoli delle cose (…). La natura sputa i corpi morti degli oggetti. Gli scheletri consunti di materiale sintetico sono disgustose vestigia di un mondo inorganico.
Poichè la natura non può riprenderli indietro, è meglio distruggerli, se possibile. Queste cose diventano morte senza morire; non sono mortali, perché non hanno mai vissuto. E tuttavia, non sono neppure fatte per durare; per quanto indistruttibili, non possono durare.
Ritroviamo analoghe considerazioni anche nel libro di G. Viale, intitolato Un inondo usa e getta, quando scrive che è ormai entrato a far parte dell’«ordine naturale delle cose» che tutto ciò che si produce non venga prodotto per durare. Si produce per sostituire, ma il presupposto tacito di questo modo di agire è che tutto ciò che viene sostituito possa e debba essere gettato via.
La civiltà dell’usa e getta – che è il punto di approdo del consumismo, cioè di una organizzazione sociale che si perpetua attraverso la moltiplicazione delle merci (…) – ha i suoi presupposti tanto in un prelievo illimitato di risorse naturali quanto in un accumulo illimitato di rifiuti.
Ovviamente, come sostiene E. Manzini, non si tratta di demonizzare l’intera famiglia dei prodotti usa e getta: molti di essi (ad esempio i prodotti mono-uso utilizzati in campo medico e ospedaliero) hanno buone ragioni per esistere e potranno continuare ad esistere (…), ma come già oggi appare pienamente evidente, la generalizzata accelerazione dei cicli di vita dei prodotti implica un impiego di risorse, un accumulo di rifiuti, un impatto ambientale che il Pianeta mostra di non poter sopportare. La tendenza al crescente carattere effimero dell’ambiente artificiale dovrà in qualche modo interrompersi.
Pertanto convivere e tener conto dei limiti ambientali significa anche, per la cultura del progetto e per la cultura industriale, non produrre più, in enormi quantità, oggetti come semplici supporti di nuove immagini e messaggi, o effimeri «gadgets», che diventano rifiuti fisici e semiotici in poco tempo, ma pensare e produrre oggetti con identità culturali profonde e durature, capaci di intrattenere con l’uomo un rapporto qualitativamente più intenso e quindi meno transitorio.
In un contesto socio-culturale in continua trasformazione, come è quello delle società industriali mature, la cultura del progetto può giocare un ruolo determinante, contribuendo alla definizione di un ambiente artificiale che sottenda e renda possibile un rapporto dell’uomo con le cose meno strumentale, passivo e dissipativo e più affettivo, di attenzione, di cura e di partecipazione.
Infatti, estremizzando, si potrebbe dire che il prodotto più compatibile con l’ambiente è quell’oggetto a cui siamo affezionati, che conserviamo con cura, che adoperiamo con attenzione e che riteniamo insostituibile; le qualità profonde, che riconosciamo in questo oggetto, impediscono che diventi in breve tempo un rifiuto.
In una prospettiva di costruzione di una «società sostenibile», cioè capace di trovare un modello di sviluppo che garantisca alle generazioni future condizioni di soddisfacimento dei propri bisogni almeno uguali alle nostre e che permetta di coniugare in modo equilibrato qualità sociale e qualità ambientale, la categoria degli oggetti «usa e getta», nell’estensione di cui si è detto, mostra quindi tutta la sua «insostenibilità» – non solo sul piano strettamente ambientale: spreco di risorse, elevata produzione di rifiuti, ma anche sul piano culturale: banalizzazione e svuotamento semantico dei prodotti e delle relazioni – e pertanto potrebbe essere coinvolta in un processo di «disadattamento» o addirittura di «estinzione».
Alla luce di queste considerazioni, il mondo degli «usa e getta» ci appare sempre più come la manifestazione di un fenomeno di ipertelia parassitaria, piuttosto che di ipertelia simbiotica – per dirla ancora con Simondon – in quanto riesce, anche se a fatica, a mantenere ancora le sue condizioni di sopravvivenza ai danni e al prezzo di alcune alterazioni irreversibili del sistema ambientale.
Recentemente sembra però delinearsi una situazione caratterizzata da una serie di segnali deboli ma significativi, provenienti sia dalla cultura industriale, che dalla cultura del progetto, ma soprattutto dalla cultura del consumo, che potrebbero, rafforzandosi, minare proprio le condizioni di sopravvivenza della famiglia degli «usa e getta».
All’interno della cultura del progetto, ad esempio, si fa sempre più acceso il dibattito su un approccio al design più consapevole ambientalmente, che sembra trovare un punto di convergenza nel superamento dell’ottica dell’«usa e getta».
Di grande interesse al riguardo è un articolo del designer tedesco Dieter Rams, responsabile da più di trenta anni del design della Braun, intitolato Al di là dell’usa e getta, nel quale dichiara che un progetto di design dovrebbe tendere al miglioramento delle possibilità di utilizzo del prodotto in modo da indurre il consumatore a conservarlo e utilizzano per molto tempo al di là della logica dell’usa e getta e che in questa prospettiva il ruolo del designer diventa quello di promotore di una modificata cultura del prodotto che si muove verso la riduzione dell’inquinamento e della distruzione del nostro ambiente (…).
Dieter Rams non è l’unico esponente della cultura del progetto a considerare l’uscita dal mondo «usa e getta» come un passo necessario che devono compiere insieme produttori, progettisti e consumatori; E. Manzini la considera la grande sfida che oggi i diversi attori del sistema di produzione e consumo devono saper raccogliere e aggiunge che per raccogliere questa sfida la nostra cultura del consumo deve rivedere le proprie basi più profonde (…)
ed in particolare deve mettere in discussione l’idea che l’obiettivo da raggiungere nel nostro rapporto con le cose sia sempre quello della ricerca del minimo sforzo e della minima attenzione e proporne una in alternativa: l’idea che ciò che va ricercato sia invece la sua massima qualità.
Ed ancora su questa problematica, Irene Ivoi, in un suo recente libro fortemente critico nei confronti del sistema «usa e getta», afferma che gli usa e getta dovrebbero aumentare di prezzo rispetto alle merci durevoli proprio perché dovrebbero riflettere di più il costo energetico che la società paga per essi. (…).
Il loro basso costo ci fa sentire in diritto di consumarli senza riflettere (…) l’usa e getta costa molto alla società se si pensa non solo al costo della quantità di energia necessaria a produrre materia per un bene di durata effimera ma anche alle conseguenze che come rifiuto esso determina per volume, peso e velocità di ciclo di produzione.
Proprio dalla cultura del consumo, inoltre, iniziano ad arrivare segnali che esprimono un nuovo atteggiamento nei confronti dei prodotti, disponibile a sacrificare alcune comodità individuali per il raggiungimento di vantaggi ambientali generali (ad esempio l’aumento della disponibilità e della partecipazione del consumatore-utente alla raccolta differenziata dei rifiuti e alle procedure di resa dei prodotti dismessi).
Si tratta di segnali che evidenziano la propensione ad un cambiamento nei comportamenti di consumo consolidati nelle società industriali mature e che sottendono un’idea di benessere non più direttamente legata alla quantità di beni materiali posseduti e acquistati (ad esempio l’aumento della domanda di prodotti da usare in condivisione o da prendere in affitto), ma che non hanno ancora abbastanza forza per mettere in tensione il sistema dell’offerta, che fino ad oggi ha coinciso principalmente con l’offerta di prodotti di consumo, dai cicli di vita sempre più brevi.
Se questi segnali di cambiamento culturale si affermeranno con più forza, la scarsa «plasticità evolutiva» degli oggetti «usa e getta», dovuta alla loro monodimensionalità, funzionale ed espressiva, oltre che alla loro insostenibilità rispetto ai limiti ambientali, potrebbe rappresentare la condizione di avvio di un processo non di «sovradattamento» ma direttamente di «disadattamento funzionale».
Rispetto all’attuale necessità di definire un modello di sviluppo sostenibile riguardo ai limiti, fisici e semiotici, del nostro ambiente, e di fronte ad una crescente domanda di qualità della vita, che include a pieno titolo la qualità ambientale, l’inizio di un processo di «disadattamento funzionale» del mondo degli «usa e getta» non solo sembra sempre più possibile ma diviene anche auspicabile.
La cultura del progetto può contribuire ad amplificare questi segnali ancora deboli, che la società esprime in termini di nuove domande, proponendo scenari ambientali e criteri di qualità coerenti con la prospettiva della sostenibilità; può contribuire inoltre allo sviluppo di una diversa cultura del prodotto, basata soprattutto sul valore d’uso e non sul valore di scambio e che consideri, per valore d’uso, anche tutte quelle caratteristiche che vanno al di là dell’efficienza funzionale immediata, come la qualità ambientale e le qualità relazionali del prodotto.
Una società che vuole avviarsi verso uno sviluppo sostenibile, cioè uno sviluppo che sappia conciliare innovazione e conservazione, ha bisogno di superare una cultura che riconosce come primario il valore della quantità di ciò che si possiede e si consuma contro il valore della qualità di ciò di cui si può fruire, a cui si può accedere, di cui si può godere e che non necessariamente deve essere consumato.
Quindi ha bisogno di una cultura del progetto capace di interpretare i limiti ambientali non come semplici vincoli e confini al proprio territorio di intervento, ma come nuove opportunità di ricerca e sperimentazione e di una cultura del consumo capace, come sostiene I. Ivoi, di sostituire all’idea di ricchezza come possesso di beni quella di ricchezza come «accessibilità» ai beni e disposta a riorientare i propri valori e le proprie scelte secondo il principio dell‘avere di più possedendo di meno.
Questo principio, coniato da Victor Papanek, in un suo recente libro dal titolo The Green Imperative, rappresenta un segnale di riconoscimento, da parte della cultura del progetto, dell’importanza di un profondo cambiamento, oltre che dei modi di progettare e produrre, anche dei comportamenti degli utenti-consumatori, dei criteri che guidano le loro scelte di consumo e del loro modo di intendere il consumo stesso.
In questa ottica Papanek suggerisce un utile esercizio, ancora poco praticato all’interno della nostra società, che è interessante riproporre, in conclusione, come invito ad ulteriori riflessioni. Si tratta di dieci domande che ciascuno dovrebbe porsi prima di ogni acquisto di un nuovo prodotto: 1. Ne ho realmente bisogno? 2. Posso comprarlo di seconda mano? 3. Posso comprarlo in un discount? 4. Posso prenderlo a prestito? 5. Posso affittarlo? 6. Posso prenderlo a leasing? 7. Posso affittarlo in condivisione? 8. Posso acquistarlo in condivisione? 9. Posso costruirlo da solo? 10. Posso acquistarlo in un kit da assemblare?
tratto dal numero 100