Design: una teoria ermeneutica del progetto

RENATO DE FUSCO
Abbiamo visto altrove che la fenomenologia del design compone di quattro momenti: il progetto, la produzione, la vendita e in consumo. In questa sede si occuperemo solo del momento progettuale, avvertiti tuttavia che esso è sempre correlato con gli altri. Così, nel progettare un oggetto, non perderemo mai di vista che dovrà essere prodotto in un determinato modo, venduto secondo alcune regole del mercato, consumato dal pubblico secondo certi usi e costumi.

Questa fondamentale proprietà di interagenza, che presenta una circolarità fra il tutto (il prodotto di design) e le sue parti, si ritrova anche all’interno del solo momento progettuale. Anche il progettare infatti si compone di quattro fasi o momenti:
1) i dati di partenza;
2) l’intuizione;
3) la rappresentazione;
4) la critica operativa.
Preciseremo meglio questi punti dopo aver svolto alcune considerazioni prioritarie.
Anzitutto va osservato che molte confusioni, alcuni malintesi, più di un errore concettuale in materia di progettazione derivano dal fatto di non aver ben chiarito l’eterogeneità riscontrabile nel lavoro progettuale; le quattro fasi sopra elencate hanno una natura estremamente eterogenea: ora si tratta di implicazioni pratiche (la tecnica), ora concettuali (i criteri), ora inventive (l’estetica), ora soggettive (la qualità), ora oggettive (la quantità), ecc.
Prendere coscienza di queste diversità significa in primo luogo rafforzare l’idea che nel lavoro progettuale si opera per parti, che mirano tuttavia a tradursi in un esito unitario. Come conciliare parzialità e unitarietà?
Il problema non è nuovo nella teoria della progettazione: sin dalla symmetria vitruviana si parla di un accordo fra le parti ed il tutto, accordo che viene espresso successivamente in altri termini, dalla concinnitas albertiana fino alla formula organico-razionalista del rappòrto forma-funzione, che solo apparentemente è un binomio: la forma infatti è il tutto che, a meno di oggetti estremamente elementari, ingloba più funzioni, ovvero più parti.
Già queste prime considerazioni ci portano a stabilire una «naturale» analogia
tra progettazione ed ermeneutica, ovvero la teoria dell’interpretazione, incentrata sul « circolo ermeneutico » espresso dal quesito: come risalire dalla parte alla comprensione del tutto, se per capire la parte occorre già una comprensione preliminare (una precomprensione) del tutto?
A questo storico problema, risalente all’interpretazione delle Sacre Scritture è stata recentemente data una soluzione, grazie alla nozióne di appartenenza. Vattimo infatti scrive: la comprensione della parte suppone una certa appartenenza preliminare al tutto in assenza della quale non comprenderemmo neanche la parte. Quando dico ‘appartenenza al tutto’ ho di mira un significato preciso; perché non un certo possesso del tutto e invece un’appartenenza di me al tutto? Qui se pensate all’apprendimento della lingua capite perché.
L’autore sostiene appunto che impariamo una lingua non perché la possediamo già tutta in qualche modo oscuro, ma perché apparteniamo alla comunità che parla quella lingua; grazie a tale appartenenza, il nostro far parte di un tutto ci consente le ulteriori acquisizioni parziali. Ora questa posizione della filosofia ermeneutica si può forse applicare all’architettura; nel senso che guardare filosoficamente il fenomeno del costruire comporta un atteggiamento di fondo per cui non «io possiedo il piano», ma «appartengo ad una situazione» dentro questa situazione progetto.
Senza addentrarci in altre implicazioni filosofiche sull’ermeneutica, utilizzeremo questi pochi enunciati e gli altri che incontreremo per svolgere il nostro discorso, mirante a cogliere da essi alcune indicazioni per la teoria progettuale del design, termine quest’ultimo che usiamo nel senso più ampio. Ma prima di trasferire alcuni apporti dell’ermeneutica alla progettazione, è necessario un cenno preliminare ai quattro momenti che, a nostro avviso, compongono il processo progettuale.
L’analisi delle parti
Quanto ai dati, diamoli provvisoriamente come punto di partenza obiettivo (la commissione di un progetto per un determinato oggetto, avente determinate caratteristiche formali, funzionali, tecniche, ecc.), ma evidentemente anch’essi vanno interpretati, come vedremo più avanti.
La seconda parte del processo progettuale è quella del-l’intuizione. Solitamente con questo termine s’intende una forma di conoscenza diretta e immediata contrapposta alla conoscenza logica e discorsiva; altre interpretazioni semantiche e filosofiche denotano l’intuizione come «invenzione», come rapporto con l’oggetto senza intermediazioni, in ogni caso come atto conoscitivo più emotivo che razionale.
Per noi l’intuizione ha un altro significato: tutto quanto si dice sulla sua immediatezza, sul suo carattere alogico, sulla sua inventiva, ecc. non va assunto alla lettera ma moderato in ordine ad altre considerazioni. Se è incontestabile il carattere creativo, metalogico, immaginifico dell’intuizione, altrettanto non è il fatto che essa sia all’origine di una concezione formale, che sia la fase aurorale del progetto, che sia priva di intermediazioni, che sia l’antipolo della logica. Chiunque abbia esperienza progettuale sa bene che l’intuizione non precede ma fa seguito a una serie di «ragionamenti», a una raccolta di dati, ad una vasta gamma di scelte.
Solo dopo aver esperito questa fase, aver immagazzinato ricordi, immagini, informazioni, ecc., subentra l’atto intuitivo, che è certamente atto di sintesi, ma non di sintesi a priori bensì, come s’è appena detto, di una quantità di conoscenze precedenti. Né si tratta di una sintesi illogica, ma di una sintesi basata su una logica diversa, sui generis, la cui natura va ricercata nella specificità dell’esperienza che si compie: abbiamo così un’intuizione artistica, una scientifica, una economica, ecc.
Il terzo momento del processo progettuale, quello della rappresentazione o dell’espressione, che si incarna in grafici e modelli, ha vari significati prima di assumere quello che assegneremo nella nostra proposta di progetto orientato dall’ermeneutica.
I grafici hanno anzitutto il compito di fissare lo stesso iter conformativo, tant’è che si parla di bozze, di progetto di massima e di progetto esecutivo; in secondo luogo essi hanno uno scopo comunicativo: nati come pro-memoria del progettista, sono un mezzo di comunicazione che va da quest’ultimo al committente, ai tecnici che realizzano il prodotto, al pubblico che lo acquista, basandosi spesso solo su quanto è rappresentato sulla carta. I grafici inoltre hanno valore anche nel caso in cui, per un motivo o un altro, il prodotto non viene realizzato.
A differenza di altri progetti e programmi (piani economici, progetti di legge) che se non attuati non lasciano quasi alcuna traccia, quelli relativi ad un oggetto di design o ad un’opera di architettura, grazie al loro iconismo, daranno sempre un’immagine di quello che poteva essere e non è stato. Ed è appena il caso di ricordare quanta importanza abbiano nella storiografia dell’architettura e dell’arte i progetti delle opere non eseguite.
La quarta parte del nostro processo, quello che abbiamo definito critica operativa, richiede anch’essa qualche chiarimento prima di essere considerata per la sua valenza ermeneutica. In generale, la critica viene prevalentemente intesa come giudizio; questo viene espresso applicando dei criteri, a loro volta desunti da una teoria (estetica, scientifica, economica, ecc.). Al tempo stesso l’oggetto, sul quale si esprime il giudizio, va colto nella sua storicità, donde l’assunto che non si dà critica senza storia e viceversa, fino alla loro identificazione.
Quest’ultima, a nostro avviso, è troppo semplificativa. Se è vero che ogni giudizio è legato ad un preciso momento storico, identificare senz’altro storia e critica significa trascurare le articolazioni di quest’ultima, ovvero i criteri dedotti da una teoria, da una poetica, da un moto del gusto. Pertanto la critica non è una esperienza diretta e, per così dire, primaria, ma un’attività estremamente composita ed anch’essa formata da parti eterogenee fra loro; almeno quanto lo sono la storia, le teorie, il giudizio valutativo.
Se passiamo da questa generale (e sommaria) concezione della critica a quella particolare della critica operativa, interna cioè al processo di progettazione, che si esercita mentre si progetta — ed è questo tipo di critica che pertiene il nostro discorso — emergono altre considerazioni.
La critica operativa non si applica al prodotto finito, non rientra nei compiti dei critici militanti ma, giova ripeterlo, agisce solo nell’iter progettuale ed ha per attori gli stessi progettisti.
Nel processo progettuale, la critica operativa, pur avvalendosi dei suggerimenti della critica generale, non trova in essi la sua massima espressione, ma tende a farsi strumento d’analisi, modo d’intendere, interpretare e connettere le altre parti con le quali essa stessa è correlata.
Dopo questa prima esposizione delle parti costituenti il processo progettuale, almeno così come stiamo configurandolo, rivediamole alla luce della loro interazione e in definitiva della logica ermeneutica che le tiene unite in un tutto.
Ermeneutica come struttura del progetto
Se riprendiamo il basilare quesito del «circolo ermeneutico», notiamo che esso si pone anche per il campo della progettazione e magari in maniera più pressante che in altre esperienze; non è casuale infatti che Gadamer, nel trattare dell’interpretazione di un testo, si serva proprio del termine «progetto».
Chi si mette a interpretare un testo, attua sempre un progetto. Sulla base del più immediato senso che il testo gli esibisce egli abbozza preliminarmente un significato del tutto. E anche il senso più immediato il testo lo esibisce solo in quanto lo si legge con certe attese determinate.
La comprensione di ciò che si dà da comprendere consiste tutta nella elaborazione di questo progetto preliminare, che ovviamente viene continuamente riveduto in base a ciò che risulta dall’ulteriore penetrazione del testo.
Questa descrizione è beninteso uno schema estremamente sommario: bisogna infatti tener conto che ogni revisione del progetto iniziale comporta la possibilità di abbozzare un nuovo progetto di senso; che progetti contrastanti possono intrecciarsi in una elaborazione che alla fine porta a una più chiara visione dell’unità del significato.
Fin qui la metafora dell’interpretazione di un testo come progetto non dice nulla di nuovo alla progettazione vera e propria di un prodotto. Chiunque abbia un minimo di pratica progettuale sa che il suo lavoro procede per successive approssimazioni, consiste, per così dire, in una sorta di fare e disfare, in un intreccio di soluzioni che danno luogo ad una nuova ipotesi progettuale.
Quante volte abbiamo disegnato la pianta di un edificio o di un oggetto di design, nella quale tutto sembrava «funzionare», salvo a doverla radicalmente rivedere allorquando da quella pianta scaturivano prospetti e sezioni insoddisfacenti da questo o da quel punto di vista e comunque incongrui alla conformazione dell’intero organismo?
Più significativo e pertinente il nostro tema è quanto Gadamer scrive continuando il passo citato: (bisogna tener conto) che la interpretazione comincia con dei pre-concetti i quali vengono via via sostituiti da concetti più adeguati. Proprio questo continuo rinnovarsi del progetto, che costituisce il movimento del comprendere e dell’interpretare è il processo che Heidegger descrive. Chi cerca di comprendere è esposto agli errori derivanti da pre-supposizioni che non trovano conferma nell’oggetto.
Compito permanente della comprensione è l’elaborazione e l’articolazione dei progetti corretti, adeguati, i quali come progetti sono anticipazioni che possono convalidarsi solo in rapporto all’oggetto. L’unica obiettività qui è la conferma che una pre-supposizione può ricevere attraverso l’elaborazione.
Che cos’è che contraddistingue le pre-supposizioni inadeguate se non il fatto che, sviluppandosi, esse si rivelano insussistenti? Ora il comprendere perviene alla sua possibilità autentica solo se le presupposizioni da cui parte non sono arbitrarie.
C’è dunque un senso positivo nel dire che l’interprete non accede al testo semplicemente rimanendo nella cornice delle pre-supposizioni già presenti in lui, ma piuttosto, nel rapporto col testo, mette alla prova la legittimità, cioè l’origine e la validità di tali pre-supposizioni.
Come possiamo utilizzare ai nostri fini le significative indicazioni contenute nel brano citato allorquando il termine «progetto» non esprime un modo di effettuare un’opera d’interpretazione, bensì un vero e proprio progetto nel senso «tecnico» della parola?
Notiamo intanto che il ragionamento di Gadamer affronta in maniera complessiva un testo tutto intero e già redatto, mentre il nostro «testo» (il progetto di un prodotto di design) è una elaborazione in fieri che comporta inevitabilmente, per quanto si possa avere una pre-cognizione globale, una successione di fasi.
Tuttavia, nonostante questa diversità fra il classico problema dell’interpretazione di un testo e quello della redazione di un progetto, resta valido l’assunto per cui l’interpretazione (nel nostro caso la progettazione) «comincia con dei preconcetti i quali vengono via via sostituiti da concetti più adeguati». Ma come avviene questa sostituzione? Risponderemo a questa domanda risolutiva nel prossimo paragrafo, chiudendo quello presente con altre considerazioni.
Se non andiamo errati, il brano di Gadamer si offre a due interpretazioni: quella per cui, operando globalmente, con un continuo confronto col testo, ricercando sempre nuove e più adeguate soluzioni — ed è ciò che fanno empiricamente tutti i progettisti, confermando la già notata affinità fra progettazione e interpretazione ermeneutica — e quella, funzionale alla prima, ma da intendere anche come autonoma e più analitica via della sostituizione dei pre-concetti coi concetti. In entrambi i casi comunque la logica ermeneutica sottende quella progettuale al punto da poter assumere l’una come struttura dell’altra.
Il tutto e le parti
Entriamo nel vivo della nostra proposta progettuale, rispondendo al quesito lasciato sopra in sospeso: i pre-concetti o le precognizioni vengono sostituiti dai concetti o dalle cognizioni, grazie all’interagenza delle quattro parti o momenti indicati fin dall’inizio del nostro scritto; ma procediamo più analiticamente.
Abbiamo visto che i dati possono assumersi «provvisoriamente» come il punto di partenza della progettazione e soprattutto come l’insieme più obiettivo delle informazioni utili al progettista, tant’è che si ritiene spesso necessario fissare il maggior numero di requisiti dell’oggetto per giungere quasi automaticamente alla sua definizione progettuale (Ch. Alexander). Ma non è così almeno per due ragioni. Se gli stessi dati vengono forniti a due o più progettisti, i risultati saranno notevolmente dissimili fra loro.
La seconda e meno evidente ragione della relativa validità ed obiettività dei dati sta in ciò che, non ammettendo un certo grado di arbitrarietà nel progettare, non si raggiunge uno dei principali motivi di un progetto di design: la proposta di una forma nuova, senza la quale si continuano a produrre quelle preesistenti, il che vanifica la ragione stessa del progettare in questo campo. Certo, l’arbitrarietà non può essere assoluta ma relativa ed adeguata; termine quest’ultimo che, per il nostro settore, deve comportare il fattore della novità.
Pertanto già i dati, niente affatto obiettivi e indeclinabili come si pretende, costituiscono un problema d’interpretazione. Come lo si risolve?
Il progettista, appena prende nota dei dati, effettua una prima, provvisoria loro analisi; non solo, ma già «intuisce» la forma dell’oggetto da progettare rispondente a quei dati; inoltre predispone mentalmente gli strumenti della «rappresentazione» della forma intuitiva; ancora, richiama, sia pure in modo approssimativo, i criteri della critica operativa utili alle sue scelte e manipolazioni.
Più esattamente, posto che il progetto si componga di queste quattro parti e soprattutto che esse siano fra loro interrelate, il designer assume i dati come una precognizione che diventa cognizione adeguata allorquando passerà al vaglio delle altre componenti. Analogamente» nella fase dell’intuizione (una precognizione per antonomasia), il progettista la tradurrà in una cognizione adeguata allorquando la sottoporrà al vaglio delle altre componenti.
Lo stesso accade per la fase della rappresentazione. Questa, fondandosi sull’esperienza dei mezzi espressivi già posseduti dal designer, costituisce in un primo tempo evidentemente una precognizione che diventerà cognizione allorquando passerà al vaglio delle altre componenti.
Finalmente nella fase o parte o momento della critica operativa, quest’ultima, una precognizione fondata su teorie, esperienze precedenti, ricordi storici, criteri estetici, funzionali, tecnici, ecc., diventerà una cognizione adeguata allorquando sarà soggetta al vaglio delle altre componenti. E proprio di quelle, storicamente individuate nello specifico problema da risolvere, e non di altre.
Come si vede, per ogni parte del progetto, si tratta del passaggio da un pre-concetto ad un concetto, da un già noto generico ad una conoscenza specifica, da un fare indefinito ad una azione delimitata: a causa di tale passaggio e dell’intergenza delle parti, ciascuna di essa trova il suo posto nel tutto; ma non basta: bisogna riconoscere una circolarità fra le parti ed il tutto per poter sostenere che le prime non trovano solo un posto ma si integrano col tutto.
Tale circolarità sembrerebbe compromessa dal fatto che, a differenza di un testo, dato come interamente compiuto, il progetto, come s’è detto, è un «testo» che si viene elaborando e nel quale, tra l’altro, si pone il problema di una successione, di un prima e di un dopo. Qui l’interpretazione non si pone come atto, per così dire, passivo, ma estremamente attivo: in ogni momento l’interpretazione si traduce in un contributo alla conformazione dell’oggetto da progettare.
Tuttavia, la successione dei momenti, il problema del prima e del dopo non comporta necessariamente una sequenza lineare: la circolarità fra il tutto e le parti è ancora riscontrabile. Infatti, data l’interrelazione fra le parti, queste non devono necessariamente rispettare una cronologia.
La rispettano sì nella fase precognitiva: i dati provvisoriamente precedono l’intuizione, questa viene prima della rappresentazione fino all’intervento della critica operativa; ma non è più così allorquando ciascuna di queste parti, richiamando tutte le altre, si trasforma in una cognizione.
Detto diversamente, quando i pre-concetti, empirici, «realistici», posti in una successione cronologica, si trasformano in concetti, essi fanno capo ad una concezione generale ed unitaria del problema progettuale da risolvere. Una volta raggiunta l’unità, le parti-concetto possono considerarsi indipendenti dal posto che occupavano nella primitiva sequenza.
La critica operativa, ad esempio, posta empiricamente all’ultimo posto, essendosi poi «contaminata» con gli altri momenti, può confermare o smentire la rappresentazione e/o l’intuizione; la rappresentazione può confermare o smentire l’intuizione e/o la critica operativa e così via; persino la presunta obiettività dei dati di partenza può essere smentita dalle altre componenti del processo; non è casuale che tanti propositi progettuali, inizialmente basati su precisi dati ed esigenze, rimangano inattuali o necessitino di una radicale revisione di programma.
Ogni progetto dunque, e segnatamente quello di design che interessa una enorme varietà di prodotti, nella natura eterogenea sì ma interagente delle sue parti, nella finalità interpretativa e nella circolarità della logica ermeneutica — cui certo non sono estranei gli apporti della semiotica strutturale — trova forse il metodo più adeguato a risolvere il suo principale problema: quello cioè di ricavare soluzioni all’interno del suo stesso processo o introitando in esso tutte le possibili eteronomie.
tratto dal numero 79