Design come arte delle cose amabili

EZIO MANZINI
1. Visto che il dibattito cui sono stato sollecitato ad intervenire si riferisce alla possibilità di insegnare e imparare l’arte, e visto che il mio intervento si riferisce specificamente al design, mi sembra necessario partire da una premessa relativa al modo in cui, a mio parere, il design può essere inteso come arte.

Per essere più breve e più chiaro mi baserò su una citazione di George Kubler: Supponiamo che il nostro concetto dell’arte possa essere esteso a comprendere, oltre alle tante cose belle, poetiche e non utili di questo mondo tutti in generale i manufatti umani, dagli arnesi di lavoro alle scritture.
Accettare questa premessa significa semplicemente far coincidere l’universo delle cose fatte dall’uomo con la storia dell’arte, con la conseguente e immediata necessità di formulare una nuova linea di interpretazione nello studio di queste stesse cose.
Ciò apparirà più facile se si sceglierà di procedere dal punto di vista dell’arte anziché da quello dell’«uso», giacché se partiamo unicamente dall’uso saremo portati inevitabilmente a trascurare tutte le cose non utilizzabili, mentre, se consideriamo la desiderabilità delle cose, allora saremo capaci di vedere gli oggetti utili nella giusta luce di cose a noi più o meno care.
Il senso di questa citazione, a mio parere, dovrebbe essere posto alla base di ogni didattica del design. In essa, tra l’altro, è implicita una definizione dell’attività di design che trovo molto corretta e produttiva: il design è un’attività che concorre a rendere abitabile il mondo. Ad organizzarlo cioè in modo che le cose di cui ci si circonda e gli ambienti in cui si vive siano «desiderabili e cari», oltre che utili. È questa una definizione che potrà forse sembrare generica e ovvia, ma che in fondo, nella storia della cultura del design, è sempre stata contraddetta.
Tradizionalmente infatti, il design è stato pensato – e insegnato – come uno strumento per l’industrializzazione del mondo. Nella tradizione culturale europea ciò era visto all’interno di un quadro etico
(industrializzazione dei prodotti come strumento per la democratizzazione dei consumi), in quella americana in un quadro produttivistico (design industriale come strumento di marketing).
Ma, in entrambi i casi, la produzione industriale finiva per diventare un fine del design.Nella definizione prima proposta, invece, l’industria è considerata un mezzo (e peraltro, non l’unico mezzo) per raggiungere lo scopo più vasto e complesso di rendere abitabile il mondo.
Da essa deriva anche il carattere autonomo della cultura del design: una cultura che si confronta con la cultura e la prassi industriale ma che non si identifica con esse perché diversi sono il punto di vista da cui si parte e gli obbiettivi che si intende perseguire. E di qui deriva anche il ruolo critico costruttivo che le facoltà e le scuole di design dovrebbero svolgere e trasmettere ai loro studenti.
2. Allo stesso tempo, però, questa definizione colloca correttamente il design nei rapporti dell’arte. Essa infatti, mentre da un lato ci permette di affermare che anche il design è un’attività artistica, precisa che si tratta di un’«arte» che produce «cose quotidiane», cose che siano «desiderabili» e che possono essere «a noi più care».
È dunque un’arte assai particolare, e questo per diversi motivi che vanno da quelli più ovvii relativi al rapporto tra «artista» e tecnica (in questo caso non si tratta di essere personalmente capaci di fare qualcosa, ma si tratta di pensare qualcosa che altri possano fare all’interno di un sistema produttivo più o meno ampio) e alla necessità che il suo prodotto debba essere anche «utile» (utile in senso stretto, al di là cioè dell’affermazione estensiva che «il bello è utile»), ma che arrivano anche alle ragioni culturali profonde che portano ad essere «desiderabile» e «caro» un prodotto di design.
Ragioni che possono essere assai diverse da quelle che portano alla desiderabilità di un’opera d’arte in senso stretto.
Mentre quest’ultima è sempre legata all’eccezionalità, alla sua capacità di staccarsi dal contesto, un prodotto di design può essere desiderabile proprio per la sua modestia, per la sua capacità di essere una presenza colloquiale, un attore capace di lasciar parlare altri attori.
Insomma, il prodotto artistico, in senso stretto, può essere visto come un solista, mentre i prodotti del design si devono inserire all’interno di un’orchestra in cui ciascuno suona la sua parte.
La sottolineatura di quest’aspetto mi pare oggi particolarmente necessaria. Ultimamente, nella cultura del design, è nato infatti un grosso equivoco, in larga misura dovuto proprio ad un cattivo intendimento del rapporto tra arte e design. Al di là della più generale onnicomprensiva accezione del termine arte inteso «alla Kubler», resta il fatto che esistono un «sistema design» e un «sistema arte» separati e che a ciascuno di essi fa capo un diverso insieme di relazioni, linguaggi, prassi e mercati che è evoluto ed evolve con forme e tempi che gli sono propri.
Beninteso: tra i due sistemi ci sono state (e ci saranno anche in futuro) importanti contaminazioni. Ciascuno si è rigenerato (e si potrà rigenerare) dall’esperienza dell’altro. Ma il passaggio delle suggestioni e delle idee dall’uno all’altro territorio è un fenomeno sottile e complesso che richiede una reinterpretazione profonda dei «materiali» impiegati.
E inoltre, la lettura e la decodifica che alla fine si deve fare dell’oggetto non può prescindere dal fatto che esso venga presentato in uno o nell’altro dei due sistemi: Duchamp ha usato prodotti industriali, ma la sua opera ha significato nella storia dell’arte. Sottsass ha tratto ispirazione dalla pop art, ma indubbiamente ha prodotto oggetti di design e come tali essi vanno letti (e in quanto tali hanno valore).
La confusione, viceversa, avviene quando, liberati dai vincoli tecnici e culturali che nel passato si presentavano, molti designer credono di produrre «oggetti artistici» solo perché progettano oggetti bizzarri e dalla dubbia utilità (riproducendo così il più trito dei luoghi comuni, per cui se una cosa è firmata, sufficientemente strana e poco utile e prodotta in pezzi unici, può essere catalogata come oggetto artistico) e molti artisti credono di essere designer solo perché realizzano una «scultura» a forma di tavolo o di divano.
3. Alla base di questo fraintendimento, oltre al malinteso rapporto tra arte e design di cui si è detto, sta anche la convinzione che ogni progetto di design debba essere il risultato di un grande gesto espressivo e portare ad un prodotto che si presenti come il concentrato di tale demiurgica espressività.
Con il risultato che prodotti nati da questo retroterra di intenzioni, immaginati più per la loro presenza in una sala d’esposizione che per la loro effettiva possibilità di vivere in uno spazio abitato, non solo non creano reali qualità abitative, ma anzi, diffondendosi nell’ambiente, concorrono alla produzione di quella grande confusione di segni cui si dà il nome di inquinamento semiotico (cioè concorrono alla produzione di quella forma di inquinamento immateriale che costituisce oggi uno dei principali terreni su cui si articola la problematica ambientale).
Tutto questo ha grande attinenza con la didattica perché è proprio nelle università e nelle scuole di design che questi tipi di sbandamento appaiono più evidenti.
Nella mia ormai pluriennale esperienza di rapporto con università e scuole di design in diverse parti del mondo ciò che registro diffusamente è una sorta di stratificazione geologica molto netta per cui si presenta uno strato di base «razionalista duro» (meglio sarebbe dire però «pseudo-razionalista duro»), tutto dedito al progetto dell’«utile», cui si sovrappone uno strato «espressionista selvaggio», tutto proiettato alla produzione di «segni memorabili». Ciò che manca invece è proprio la ricerca della progettazione di «prodotti amabili». Progetti per i quali si esca dalla sterile opposizione tra «l’utile è bello» e «il bello è utile», per arrivare al pensiero, più debole e relativo, ma a mio parere più produttivo, che «l’utile può essere bello». O meglio: che «l’utile può essere desiderabile e caro».
4. Fatte queste considerazioni, ritorniamo all’argomento centrale: può quest’«arte» essere insegnata?
La mia impressione è che ciò che si può fare è la predisposizione di un terreno favorevole: porre dei temi, dare delle informazioni, presentare degli esempi e, in definitiva, fornire delle opportunità stimolanti.
Com’è ovvio non c’è nessuna garanzia dei risultati, ma si può sperare che, con una corretta preparazione del terreno, non solo qualche germoglio diventi una grande pineta, ma che si formi anche -mediamente- un buon prato. Ferma restando l’importanza di lasciare spazio alle «grandi piante», mi pare utile sottolineare l’importanza del «prato», cioè della crescita di una capacità e sensibilità progettuale diffusa.
Infatti, coerentemente con l’accezione di «arte» che ho proposto per il design, gli «artisti» del design, come i prodotti del design, non devono essere tutti solisti, tutti primi attori. Nel mio schema anzi diventa ammissibile anche il copiare (intelligentemente) e il ripetere (attualizzando con sensibilità): le copie e le ripetizioni sono in un certo senso necessarie per costituire il sistema di convenzioni linguistiche e prestazionali su cui si costruisce il tessuto connettivo dell’ambiente vissuto (d’altra parte è sempre stato così, e non si capisce perché non dovrebbe esserlo ancora).
Il problema vero è da chi e come si copia. O meglio: il problema vero è quello della qualità diffusa delle convenzioni linguistiche e prestazionali che si mettono in atto. Il che significa: come orientarsi per scegliere i codici cui riferirsi? Se per un artigiano del passato operare all’interno di codici convenzionali era del tutto naturale (in quanto ci era nato dentro), per il progettista diffuso odierno il primo problema è quello di come sceglierli.
Orientarsi nell’iperscelta di tecnologie e di linguaggi disponibili è già il primo livello della sua «arte». Aiutare a far sviluppare questa capacità è, a mio parere, uno dei fondamentali compiti della didattica del design.
5. All’interno di questa visione (che mi pare meno elitaria e meno drammatica di quella proposta da altri interventi) si tratterebbe di entrare un po’ più profondamente nel merito dei contenuti di questa didattica. Nel farlo, però, mi riesce difficile prescindere dalla necessità di collocarla nella fase attuale.
Non riesco cioè a parlare della didattica del design (come altri prima di me hanno fatto), prescindendo dai caratteri specifici del sistema tecnico, sociale, culturale e ambientale contemporaneo. D’altro lato, non ho qui lo spazio per riprodurre per intero il mio scenario di riferimento. Mi limiterò pertanto a proporne alcuni tratti fondamentali.
Il primo è dato dalla necessità di tenere conto che la diffusione dei risultati della tecno-scienza nell’ambiente quotidiano ha portato a quella che io definisco come una «fluidificazione della materia» e un’accelerazione del tempo». La materia, che è sempre stata la controparte solida, stabile, inerziale delle idee, è diventata duttile e plasmabile in ogni possibile forma.
Ciò comporta un cambiamento radicale nel modo in cui l’ambiente artificiale si presenta (dematerializzazione, superficializzazione, effimerizzazione, virtualizzazione dell’esperienza) e nel modo in cui viene prodotto (non ci si confronta più con una tassonomia data di materiali e tecniche produttive, ma con un continuum di possibilità, che si presenta nella forma di una babele di linguaggi specialistici).
Il secondo tratto fondamentale è dato dall’emergere dei limiti fisici dell’ambiente. Il significato dei termini «progettare», «produrre» e «consumare» va rivisto alla luce di questa novità: nato e cresciuto nell’alveo della cultura occidentale moderna, che si immaginava in un mondo illimitato (e riducibile alla semplicità), con la scoperta del limite (e, conseguentemente, dell’irriducibile complessità del sistema in cui si opera) esso deve essere profondamente rimesso in discussione.
Tutto questo non sarà né semplice né immediato e dovrà portare ad una grande stagione di innovazioni socioculturali e comportamentali, oltre che progettuali e produttive.
Il terzo tratto caratterizzante la fase attuale è l’emergere di un altro tipo di limiti, che possono essere definiti come i «limiti semiotici».
La scoperta cioè del fatto che non è possibile immettere nella semiosfera una quantità incontrollata di segni. La scoperta che il risultato della «liberalizzazione delle forme» permessa dalla tecnica può anche essere la produzione di un grande «rumore». La scoperta che tutto questo può portare -e porta- ad una grave forma di «inquinamento semiotico».
Tener conto di questo fatto significa la necessità di collegare i prodotti al loro ambiente non solo sul piano delle loro relazioni fisiche con la biosfera -di cui si è già detto-, ma anche delle loro relazioni con la semiosfera. Significa la necessità di non produrre solo nuove immagini, ma costruire delle identità stabili e durature, capaci di collocarsi in modo riconoscibile nello spazio culturale in cui vengono immesse.
Infine, il quarto tratto fondamentale è che tutto quanto detto finora comporta (e comporterà) una grande estensione dell’attività progettuale, che si configura (e si configurerà) come una grande domanda di design. Ma il design di cui c’è richiesta non necessariamente è il tradizionale product design di matrice anglosassone, né quello più libero e culturalmente autonomo, ma ugualmente riferito alla progettazione di un oggetto fisico, che è il design «all’italiana».
Quello di cui c’è (e ci sarà) una crescente richiesta è un design che investa anche diversi territori «al di là dell’oggetto». Nuovi territori del design come il design delle performances, il design delle interfacce e degli spazi virtuali, il design dei materiali, il design delle qualità ambientali, il design delle strategie di design.
6. Inquadrata in questo scenario la questione della didattica del design, del suo spirito e dei suoi contenuti, assume un carattere nuovo, lontano sia da quella che è la tradizionale didattica delle scuole di design di origine anglosassone, sia da quella delle belle arti, sia da quella delle facoltà di architettura.
Di queste ultime però si può dire che, almeno per quel che riguarda l’Italia, forse sono oggi i luoghi in cui la didattica che vi viene proposta è meno lontana da ciò che, a mio parere, sarebbe necessario offrire in una scuola di design.
Visti lo stato di crisi delle facoltà di architettura italiane, la mancanza di mezzi, le difficoltà burocratiche all’introduzione di nuovi corsi, l’affermazione può apparire quasi provocatoria. Resta però il fatto che in queste facoltà c’è qualcosa che tutte le altre scuole di design non hanno.
La battuta soventemente ricorrente -in Italia e soprattutto all’estero- secondo cui il design italiano sarebbe per molti aspetti migliore di quello di altri paesi perché in Italia non ci sono vere scuole di design, ha del vero, ma ha anche, come risvolto, il fatto che questo in più di qualità del design italiano viene in larga misura dalla formazione dei designer italiani nelle facoltà di architettura.
Occorre dunque riflettere su cosa sia questo «qualcosa» delle facoltà di architettura che dà, se pure in maniera strana e contraddittoria -e con enormi sprechi di risorse- questi buoni risultati.
A mio parere la risposta sta in alcuni caratteri «arcaici» che, per uno strano gioco della storia, si presentano oggi con una rinnovata attualità (un fenomeno che si potrebbe definire come il «vantaggio del ritardo»).
Essi sono: l’integrazione tra aspetti «tecnici» e aspetti «umanistici» che fa delle facoltà di architettura le sole facoltà in cui si affronta la questione di quel «sapere trasversale» che oggi si richiede anche per la progettazione industriale; la «cultura dello spazio» che, per chi poi diventa designer, costituisce un referente più generale in cui collocare la più specifica cultura del prodotto; la presenza della storia e, in particolare, della storia dell’architettura come disciplina autonoma, che induce chi poi diventa designer a considerare anche la propria cultura come un punto di vista autonomo da quello proprio dell’industria.
Nel proporre queste considerazioni non si intende affatto suggerire l’idea che quello che si fa oggi nelle facoltà di architettura sia il migliore dei modi possibili per insegnare il design.
Si intende solo dire che queste componenti didattiche «tradizionali» delle facoltà di architettura italiane non solo non dovrebbero andar perdute nella proposta di nuove soluzioni per la didattica del design, ma dovrebbero essere valorizzate e attualizzate, confrontandole con gli aspetti caratterizzanti i processi di produzione e consumo della fase contemporanea.
D’altra parte, poiché la realtà attuale -come la materia- è fluida e mette in discussione il complesso della cultura del progetto e dei suoi strumenti concettuali e operativi, ciò che deve essere insegnato non può presentarsi come un sistema solido e dato.
Forse è sempre stato così, ma in questo caso e in questo momento, più che per altri casi e in altri momenti, la didattica nel suo complesso deve essere concepita come un’attività di ricerca. Non mi riferisco qui tanto alle singole ricerche degli studenti, così come spesso si fanno. Mi riferisco al complesso delle attività che in un’università o in una scuola di design si devono attuare.
Didattica e ricerca propriamente detta devono costituire un’entità integrata -anche se differenziata al suo interno-, che nel suo insieme si presenti come un grande laboratorio di ricerca progettuale. E questo sia per far avanzare la cultura del progetto in generale che per fornire un’atmosfera culturale in cui gli studenti apprendano quella capacità a porsi i problemi che l’attuale situazione sociale, produttiva e ambientale oggi richiede al designer.
7. Per concludere, vorrei aggiungere che, a mio parere, nessuna attività didattica può essere veramente tale se non è in grado di «mostrare l’anima». Se non si organizza cioè attorno ad un suo centro che sia in grado di produrre un’«isola di senso», magari criticabile, ma intelligibile per gli studenti.
Nella definizione prima proposta sul senso dell’attività di design, mi pare ci sia una possibile indicazione anche su quest’aspetto (cruciale in un momento storico in cui molti dei tradizionali riferimenti di valore sembrano essere entrati in crisi). Se il design deve essere un’attività di progetto finalizzata a rendere abitabile il mondo, tesa a produrre cose «desiderabili e a noi più care», in questa tensione si può trovare un senso per l’apprendere e l’insegnare l’«arte» del design.
E in particolare, in quella definizione, mi pare vada sottolineato soprattutto il valore dell’aggettivo «caro». In effetti in una società da tempo dominata dal consumismo, la desiderabilità dei prodotti può essere ottenuta anche con grandi azioni di manipolazione collettiva: «desiderabile» è dunque un aggettivo il cui significato attuale è tutto da discutere.
Il termine «caro» invece allude ad una condizione soggettiva più profonda, ad un rapporto con l’oggetto più duraturo: qualità queste oggi in controtendenza rispetto alle linee evolutive attualmente dominanti nei processi di produzione e consumo (che vedono la tendenza verso l’effimerizzazione e la superficializzazione dell’esperienza delle cose).
La forza di quest’aggettivo, in riferimento ai prodotti contemporanei, sta dunque nella sua capacità di suggerire una visione del mondo qualitativa e al contempo potenzialmente risolutiva del tema, oggi fondamentale e ineludibile, della salvaguardia ambientale: un ambiente e un insieme di oggetti che ci è caro, è un ambiente e un insieme di oggetti che non si butta, che si ripara, che si usa con amore.
In altre parole: nel proporre il tema dell’abitabilità del mondo come fine del progetto di design si dà anche l’indicazione strategica che la problematica oggi sul tappeto del degrado fisico (e semiotico) dell’ambiente in cui viviamo forse non si risolve tanto col prospettare i futuri possibili disastri, ma con l’immaginare e proporre visioni del mondo e progettare e produrre parti del mondo- in cui le cose siano «a noi più care». Questo mi pare sia il senso dell’«arte» del design che può e deve essere insegnata.
tratto dal numero 78