Il design e la critica di sinistra

GABRIELLA D’AMATO
Molti al giorno d’oggi vanno revocando in dubbio, almeno nello schieramento politico, una netta distinzione fra destra e sinistra; per la maggioranza quest’ultima va perlomeno ridefinita. Come scrive infatti Alberto Cavallari, l’anarcosindacalismo, il sansimonismo, Prudhon, Marx, Lassalle, Kautsky, …hanno prodotto una visione del mondo che i ‘fatti’ hanno rivelato errata… La riflessione riguarda tutti i socialismi, investe l’intero percorso dl un’idea e di un movimento, approdati ad una tappa cruciale poiché il capitalismo stesso non è più quello che si voleva combattere o si credeva finito.

Non si può ignorare che la rinascita capitalista ha creato in occidente società diverse, frantumato vecchie classi, operato nuove redistribuzioni di ricchezza, mutamenti profondi di culture e mentalità. Che socialismo è possibile mentre finisce il secolo e finisce il millennio?
Come adattare una critica alla prima rivoluzione industriale e una proposta di rifondazione della società basata sull’anti-individualismo alla terza rivoluzione industriale e alle società post-industriali sempre più individualiste?
Ora, se questa è la situazione politica, ancora più problematica e in qualche modo anacronistica appare la qualifica di sinistra riferita a settori specialistici, soprattutto a quelli con implicazioni economiche e produttive. Siamo perciò convinti che ad un tema come quello che intitola le presenti note, nessuno dedicherà prossimamente un convegno o un dibattito. Che senso dare allora alle riflessioni che seguono, incentrate su detto tema? Porsi la questione del rapporto fra il design e la critica di sinistra risponde, a nostro avviso, a una duplice esigenza.
La prima è di carattere storico, ovvero è il tentativo – vuoi per colmare una lacuna critica, vuoi per non lasciare la questione comodamente archiviata – di ripercorrere un processo di pensiero sulla cultura del design svolto dalla cultura di sinistra. E tra i tanti spunti che l’argomento suggeriva, abbiamo perciò scelto tre temi privilegiati dalla critica in esame: la committenza, l’alienazione e l’eterodirezione.
La seconda esigenza è quella di avanzare, sia pur in termini problematici, un’ipotesi e cioè che, fra tutti i campi d’applicazione in cui si sono scontrati la destra e la sinistra, il padronato e il proletariato, la «creatività individualista» e la «dequalificazione meccanica», la produzione elitaria e quella di massa, ecc., quello del design sia – e non per caso un settore adatto ad indicare una via di soluzione a tanti antagonismi, o quanto meno un modello per il loro superamento. Iniziamo pertanto a discutere i tre temi.
La committenza
Secondo Marx, La ricchezza delle società nelle quali predomina il modo di produzione capitalistico si presenta come una ‘immane raccolta di merci’, le quali si offrono nel duplice valore di uso e di scambio. In quest’ultimo si è perso il significato del ruolo sociale che implica il lavoro e la produzione poiché non si parte dal lavoro degli individui in quanto lavoro comune ma da lavori particolari di individui privati, valori che soltanto nel processo di scambio, con l’abolizione del loro carattere originale si affermano.
Non poteva mancare, quindi, tra i temi sviluppati dalla critica di sinistra quello della responsabilità del design nella società delle merci; il che significa anche stabilire il ruolo che deve assumere il designer nel rapporto tra produzione e consumo.
È un tema strettamente legato all’utilità sociale del prodotto, già peculiare del Bauhaus e del Vchutemas, che trova, però, la sua più precisa formulazione in una terza scuola, la Hochschule für Gestaltung (HfG) di Ulm fondata da Max Bill.
Come scriveva infatti Maldonado entrando a farvi parte nel ‘55, È opinione diffusa, per lo meno in alcuni settori, che il disegnatore industriale, il progettista che lavora per la produzione in serie, abbia una sola funzione da svolgere: quella di servire il programma di vendite della grande industria e di stimolare il meccanismo della concorrenza commerciale.
In contrasto con questa opinione, la HfG fa sua la tesi, secondo la quale il progettista, pur lavorando per l’industria deve continuare ad assolvere le sue responsabilità nei confronti della società. In nessuna occasione l’impegno preso con l’industria deve trovarsi in conflitto con l’impegno preso con la società.
La HfG, come risaputo, anche se sul piano didattico-organizzativo conobbe dissapori e capovolgimenti, almeno su quello formale conservò coerenza con l’impronta estetico-metodologica (la gute Form) impressavi da Max Bill in continuità con il Bauhaus e in opposizione con lo styling.
L’istituto collaborò con molte industrie, specialmente con la Braun di Francoforte ma, come commenta lo stesso Maldonado, la «gute Form», atto di dissenso, secondo Bill, nei confronti di una certa industria, si fa atto di consenso, tramutandosi in ‘stile Braun’. Il neocapitalismo tedesco ha eseguito in questo caso un’operazione di raffinata astuzia: ha cooptato la «gute Form».
Pensando perciò a quell’impegno e alle sorti della scuola, lo stesso autore avanza queste spiegazioni: Quel periodo coincide, in Germania, con la fase più aggressiva della cosiddetta ‘era Adenauer’: gli anni in cui, con l’appoggio degli Stati Uniti, la Germania si avviava al neocapitalismo. Ciò che l’industria tedesca voleva allora dal nostro istituto non era molto diverso da quanto aveva preteso, quattro decenni prima, dal Bauhaus: contribuire a creare un alibi vagamente culturale al programma produttivistico.
Noi ne eravamo consapevoli, ma ci illudevamo… che fosse possibile far convergere gli interessi produttivistici del neocapitalismo nascente con gli interessi degli utenti. Ciò che si rivelerà più tardi un grave errore di valutazione. Dal momento che ce ne rendemmo conto, e adottammo un atteggiamento di denuncia e persino dl rivolta.., il destino del nostro istituto era segnato. Da qui allo scandalo della sua chiusura, nel 1968, non c’è che un passo.
Senza entrare nel merito della complessa vicenda della HfG – alla cui chiusura, errate valutazioni politiche a parte, concorse più di una causa – si può sostenere che il forte impegno culturale, sociale e politico di alcuni docenti quali Maldonado, Bonsiepe e Schnaidt, ne fu uno dei fattori trainanti.
Tale atteggiamento – commentato con efficacia da Argan: il design è un servizio, si può essere servizievoli senza essere servili – nella prassi puntava sul tentativo di accedere ai centri direzionali del mondo produttivo e di eleggere un tipo di consumatori di prodotti di uso pubblico piuttosto che privato. E saranno soprattutto questi i temi che da UIm passeranno in Italia grazie anche all’osmosi di insegnanti ed allievi creata tra il nostro paese e la scuola tedesca.
La nostra rivista nel ‘71 pubblicava un articolo di Gui Bonsiepe estratto dalla prolusione tenuta al corso di disegno industriale svolto l’anno precedente a Santiago del Cile. L’argomento verteva sul confronto fra il ruolo del disegno industriale nei paesi opulenti e in quelli in via di sviluppo. Questi ultimi nella loro qualità di terreno vergine di qualsivoglia produttivismo, in un certo senso, sembravano rappresentare una sorta di committenza ideale per un disegno industriale orientato sulla razionalizzazione delle risorse e sulla considerazione delle necessità totali della società.
Da ciò sarebbe derivato, a detta di Bonsiepe, che il lavoro dei disegnatori industriali deve realizzarsi in istituzioni per lo sviluppo sociale, economico e tecnologico, ossia in quelle istituzioni nelle quali si prendono importanti decisioni per la qualità dell’habitat di una società.
Cosicché i disegnatori industriali devono lavorare in commissioni per la standardizzazione, in commissioni di esportazione, nei dipartimenti di acquisto ed approvvigionamento, nel ministeri dell’educazione e negli organismi comunali, che sono peraltro responsabili dell’arredo urbano… Inoltre affinché il d.i. non rimanga condannato ad essere una utopia fallita, alimentata solo dalla buona volontà di idealisti frustrati, dovrebbe avere quel potere che oggi è diviso da circoli di scienziati, ingegneri, amministratori e politici.
Se questo era un obiettivo da raggiungere nelle società in via di sviluppo, ben diversa, invece, appariva la situazione nelle società opulente e consumistiche dove il settore dei prodotti per uso privato è supersviluppato, mentre il settore dei prodotti per uso pubblico o comune è sottosviluppato, la qual cosa è in relazione diretta con le leggi del mercato. Salute, insegnamento e benessere pubblico non si lasciano trasformare in merce donde trarre grandi guadagni.
Prende così sempre più corpo l’aspirazione a quella che verrà definita la «committenza alternativa», grande speranza ed illusione praticata negli anni Settanta dai designers fortemente politicizzati formatisi nel clima delle lotte studentesche del ‘68.
Tale speranza parte da posizioni fortemente critiche; per Enzo Mari, Il committente si identifica con quella parte della società che ha il potere economico-politico-culturale e il destinatario con quella che non ha questo potere. L’oggetto della committenza è quanto viene comunicato, con diversi mezzi, secondo le necessità del rapporto intercorrente fra committente e destinatario. Tale rapporto, nella realtà storica, è sempre di tipo paternalistico e mira a preservare i privilegi della committenza.
Dal canto suo, Paolo Deganello in un’acuta analisi del Lavoro di progettazione nel settore dell’arredamento, storicizzando l’ordito sociale, politico, sindacale ed economico degli anni ‘50-‘70, tocca anche il ruolo del tecnico-progettista rispetto alla committenza.
Quest’ultima, a suo parere, si manifesta sempre in un’imposizione sulla qualità del lavoro e sulle condizioni di lavoro. Il rifiuto di questa imposizione, il diritto del tecnico di imporre la committenza, che poi altro non è che riappropriarsi del controllo sul proprio lavoro, non è praticabile a livello individuale, presuppone un’organizzazione politica.
Tale organizzazione avrebbe dovuto mirare, in sostanza, a capovolgere il rapporto che assegna ad una committenza tradizionale la funzione di innovare in positivo il ciclo e il prodotto, evolvere, trasformare dentro un sistema dato, i valori d’uso e di scambio di una data merce, subire o rifiutare la soddisfazione della domanda di una data merce o servizio che nasce dalla base cioè dall’utenza e al progettista sempre più solo e soltanto il compito di accettare e rendere operative le scelte della committenza.
A tale situazione il tecnico progettista di sinistra oppone la sua aspirazione: avere il potere di scegliere un’utenza quale suo committente, un’utenza che abbia però il potere di essere committenza reale e non ideale, e sia utenza da interpretare, contribuire a definire, fino a farla diventare oggetto fruibile attraverso anche il lavoro di progettazione.
In questa sede non abbiamo l’opportunità di rendere conto del perché l’obiettivo di una committenza alternativa e l’ipotesi di una cogestione dei servizi siano rimaste anche nel nostro paese un’istanza inevasa; vi concorsero, infatti, crisi sindacali, irrigidimenti padronali, ristrutturazioni aziendali troppo complesse, per la cui valutazione non possiamo che rimandare allo scritto di Deganello.
Dalle parole di quest’ultimo, tuttavia, vogliamo citare ancora un brano che sembra riassumere la sostanza di una tale disillusione: Anche quando esiste una nuova definizione della qualità del servizio, sia scuola o ospedale, non esiste… un potere di gestione capace di garantire la realizzazione di quella nuova definizione di servizio.
E anche quando, in particolari e fortunate occasioni di lavoro si riuscisse a progettare e realizzare quella nuova definizione del servizio, dentro quella scatola nuova e diversa continuerebbero a svolgersi attività e funzioni tipiche di quella vecchia definizione del servizio.
In altri termini finché non viene a costituirsi consolidata una struttura di potere capace di commissionare un dato prodotto e garantire il corretto e conseguente uso, non ha senso parlare di progettazione per nuovi valori d’uso.
Parlarne significa coltivare appunto speranze progettuali, autoemarginarsi in una progettazione utopica, produrre ricerca in attesa di una congiuntura che anche quando si realizzasse sarà necessariamente sempre relativamente diversa ed estranea, se non si accetterà un coinvolgimento totale nel processo politico che di fatto porterà alla costruzione di quella congiuntura.
Accanto a questa linea, per così dire, più «dura» e politicizzata non bisogna dimenticare, però, anche il fenomeno del cosiddetto anti-design o radical-design. I vari Sottsass, Mendini, Archizoom, Ufo, Sturm, Superstudio, vestendo, dapprima, i panni di un’avanguardia dissacratoria, ma senza ripudiare, almeno in un secondo tempo, la produzione industriale, puntavano su una potenziale committenza costituita dai portatori della controcultura giovanile degli anni ‘60.
Si è trattato di una tendenza progettuale basata su valori essenzialmente ironici, effimeri, spettacolari; ha avuto sì una sua committenza specifica, ma nel senso che ha conquistato una fascia di mercato elitaria, allettata dai contrassegni della cultura di massa purché riproposti a prezzi inaccessibili a questa.
Sull’epilogo della vicenda della committenza si può citare una riflessione di Alfonso Grassi ed Anty Pansera che ci ricordano come Fallita l’illusione di una committenza ‘alternativa’ – che comunque avrebbe utilizzato sistemi di produzione già consolidati e consueti -, fallito l’inserimento del designer/condotto nei quadri tecnici degli organismi di decentramento sulla falsariga delle già statuite ‘presenze’ di architetti e urbanisti, buona parte di questi operatori hanno ormai puntato con decisione sul mutamento di destinazione del prodotto.
Alla committenza ‘tradizionale’ i ‘nuovi’ designers offrono così la possibilità di allargare il campo d’intervento affiancando alla produzione consueta, e ormai visivamente stabilizzata, ‘firmata’ dal personaggio museificato e destinata al privato, i prodotti per l’uso collettivo, i progetti comunitari.
Non hanno certo rinunciato alla loro ideologia, al design sociale per il quale hanno combattuto per anni: hanno solo avuto la sensibilità politica di capire come l’acquirente di oggetti per uso collettivo (dai Comuni alle Regioni, ai Consorzi, dagli Enti ospedalieri al distretti scolastici) non si sarebbero mai impegnati nella produzione, e nella necessaria ricerca, se non in casi sporadici e comunque eccezionali.
Così è il vecchio tipo di committenza, quella privata che, correttamente stimolata, e ormai abbastanza sensibilizzata, è diventata disponibile ad assumersi la ricerca, e la produzione, tesa a risolvere le esigenze del consumo collettivo.
L’eterodirezione
La produzione crea il consumatore… La produzione produce non soltanto un oggetto per il soggetto, ma anche un soggetto per l’oggetto. Intorno a quest’assunto marxiano ruota, sia pur con varie accentuazioni, la critica riconducibile all’idea di eterodirezione, alla possibilità, cioè, da parte di chi produce le merci di manipolare i moventi e i desideri umani per creare la necessità di prodotti che il pubblico non ha preso in considerazione o che non desidera affatto acquistare.
Per David Riesman che coniò il termine e il concetto, ciò che è comune a tutte le persone eterodirette è che i contemporanei sono la fonte di direzione per l’individuo, quelli che conosce o quelli con cui ha relazioni indirette attraverso gli amici e i mezzi di comunicazione di massa… I fini verso i quali tende la persona eterodiretta si spostano con lo spostarsi della guida: è solo il processo di tendere a una meta e il processo di fare stretta attenzione ai segnali degli altri che rimangono inalterati tutta la vita.
Su questa condizione antropologica – dove gli altri saranno di volta in volta i genitori, gli insegnanti, i colleghi di lavoro, il proprio gruppo sociale, ecc. – gran parte della sociologia soprattutto statunitense degli anni ‘50-‘60 ha costruito l’immagine negativa di un consumatore in balia di agenti pubblicitari travestiti da psichiatri, di spacciatori di desideri inconfessabili, di registi del consenso e così via
La pubblicità, nella veste assunta con l’avvento della cultura di massa, è perciò analizzata nel suo passaggio dall’informazione alla persuasione e poi alla «persuasione occulta», intesa come facoltà di precondizionare attraverso parole-chiave o immagini-chiave il consenso sociale che il messaggio suggerisce.
Una volta scoperte le prospettive che offriva questa nuova dimensione – scrive Packard – gli agenti pubblicitari cominciarono a familiarizzarsi con i diversi ‘livelli di coscienza’ che coesistono nell’uomo e giunsero alla conclusione che tre di questi livelli riguardavano, in particolare, la loro professione. Al primo livello, consapevole, razionale, il pubblico si rende conto di ciò che avviene e ne conosce le ragioni.
Il secondo, detto ora subconscio, ora preconscio, indica quella zona della coscienza in cui una persona si rende confusamente conto dei propri segreti pensieri, delle proprie sensazioni e del propri atteggiamenti, ma non desidera spiegarseli. E il livello dei pregiudizi, delle credenze, dei terrori, degli impulsi emotivi, e così via.
Al terzo livello, infine, noi non soltanto siamo ignari dei nostri sentimenti e atteggiamenti reali ma ci rifiuteremmo di discuterli anche se ci fosse dato di farlo. L’esame del nostro comportamento verso i beni di consumo a questi due ultimi livelli di coscienza costituisce il nerbo della nuova scienza che va sotto il nome di analisi o ricerca motivazionale.
Cosicché su tali premesse si sarebbe costruita non solo l’arte di capire gli uomini, ma di controllarne il comportamento nel mondo delle merci; in altri termini, di influenzare la scelta di un’auto sfruttando i dati caratteriologici di alcuni individui, quella di un detersivo attraverso l’impressione data dal colore della confezione, quella di un elettrodomestico dalla promessa di prestazioni non sempre indispensabili e così via.
Nella critica a questa situazione e, in senso più generale, alla società di massa, non è difficile riconoscere l’influenza dell’Institut für Sozialforschung legato all’Università di Francoforte fino all’avvento del nazismo e, successivamente, alla Columbia University. Di esso facevano parte Fromm, Neumann, Marcuse, Horkheimer e Adorno. Proprio questi ultimi, nel celebre saggio L’industria culturale, avevano lamentato con estremo pessimismo la passività intellettuale a cui veniva condannato il lavoratore durante il suo tempo libero.
Il compito che lo schematismo kantiano aveva ancora assegnato ai soggetti, quello di riferire in anticipo la molteplicità sensibile ai concetti fondamentali, è levato al soggetto dall’industria. Essa attua lo schematismo come primo servizio del cliente. Nell’anima era all’opera, secondo Kant, un meccanismo segreto che preparava già i dati immediati in modo che si adattassero al sistema della pura ragione.
Oggi l’enigma è svelato. Anche se la pianificazione del meccanismo da parte di coloro che allestiscono i dati, l’industria cultura, è imposta a questa dal peso stesso di una società – nonostante ogni razionalizzazione – irrazionale, questa fatale tendenza si trasforma, passando attraverso le agenzie dell’industria nell’intenzionalità scaltrita che è propria di quest’ultima. Per il consumatore non c’è più nulla da classificare che non sia già stato anticipato nello schematismo della produzione.
Inoltre, quello che Riesman, Packard e altri teorici della società dei consumi hanno messo in evidenza è anche come nella pubblicità il prodotto sia giudicato non tanto per il suo valore intrinseco, quanto per l’atteggiamento subdolamente protettivo che la produzione ostenta verso il consumatore. Baudrillard, partendo da queste riflessioni, nel considerare il messaggio pubblicitario «consumabile» al pari degli altri «oggetti» di un «sistema», ne fa risaltare la funzione «futile», «regressiva», «inessenziale», ma profondamente «richiesta».
In una società industriale – egli scrive – la divisione del lavoro dissocia il lavoro dal suo prodotto. La pubblicità corona questa scissione dissociando radicalmente, nell’atto dell’acquisto, il «prodotto» dal «bene» di consumo: interponendo una potente immagine materna tra il lavoro e il prodotto, fa si che il prodotto non sia più considerato come tale (con la sua storia, ecc.), ma semplicemente come «oggetto».
Dissociando produttore e consumatore nello stesso individuo, nell’astrazione materiale di un sistema molto differenziato d’oggetti, la pubblicità si impegna a ricreare una confusione infantile tra oggetto e desiderio dell’oggetto, a portare il consumatore allo stadio in cui il bambino confonde la madre con ciò che ella gli dà.
C’è, tuttavia, anche una pars construens. Gli stessi critici della società eterodiretta, infatti, non hanno mancato di notare come la forza persuasiva della pubblicità sia meno potente di quanto si pensi, come le varie propagande si neutralizzino reciprocamente, come il comando o la persuasione provochino resistenze, contromotivazioni e reazioni alla ridondanza dei messaggi.
Scrive infatti Berelson: Una cosa deve finalmente apparire chiara nella discussione sugli effetti dei «mass-media» sull’opinione pubblica. Gli effetti sul pubblico non sono in conseguenza e in relazione diretta con le intenzioni di colui che comunica, né col contenuto della comunicazione. Le predisposizioni del lettore o dell’ascoltatore sono profondamente impegnate nella situazione e possono modificare o bloccare l’effetto atteso, e persino provocare un effetto boomerang.
Edgard Morin, dal suo canto, con un’immagine molto efficace assimila il dialogo fra produzione e consumo a quello tra un «logorroico» e un «muto»: la produzione elargisce racconti, storie, si esprime attraverso un linguaggio. Il consumatore – lo spettatore – non risponde che con reazioni pavloviane, col si o il no, che decretano il successo o l’insuccesso. Il consumatore «non parla». Ascolta, vede, o rifiuta di ascoltare o di vedere.
Per Morin, in definitiva, esiste una dialettica sui generis tra produzione e consumo per cui è impossibile porre l’alternativa semplicistica: è la stampa (o il cinema, o la radio, ecc.) che «fa» il pubblico, o è il pubblico che fa la stampa? E la cultura di massa che si impone dall’esterno al pubblico (e gli fabbrica pseudo-bisogni, pseudo-interessi) o riflette i bisogni del pubblico?
È evidente che il vero problema è quello della «dialettica» tra il sistema di produzione culturale e i bisogni culturali dei consumatori… La cultura di massa è dunque il prodotto di una dialettica produzione-consumo, nell’ambito di una dialettica globale che è quella della società nella sua globalità.
Uno spiraglio per ridimensionare gli effetti negativi della eterodirezione, del resto, lo aveva aperto già lo stesso Riesman quando aveva descritto quel processo positivo che consentiva lo scambio di gusti, dall’alto verso il basso, fra gruppi sociali eterogenei.
Il gusto delle parti più avanzate della popolazione – egli notava – è sempre più rapidamente esteso… agli strati un tempo esclusi da ogni esercizio del gusto, che non fosse dei più elementari, e ai quali ora si insegna ad apprezzare e discernere fra le varietà di architettura moderna, di arredamento e di arte moderna – per non parlare delle conquiste artistiche dei tempi passati.
Per quanto controversa e problematica, tuttavia, l’idea di eterodirezione ancora oggi è molto tenace nel nostro modo di concepire la pubblicità benché essa abbia raggiunto livelli di diffusione tali da non consentire di immaginare una regressione del fenomeno. E questo espandersi delle tecniche pubblicitarie – nota recentemente Alberto Abruzzese – non poteva non provocare fenomeni di rigetto e meccanismi di difesa da parte delle culture, delle tecniche, dei valori e dei poteri preesistenti.
Così, questo impatto violento tra tradizione e pubblicità, esploso in modo definitivo a Madison Avenue trent’anni fa, torna ora con la stessa sostanza nei nostri anni ottanta. Ancora oggi molti “uomini di cultura” potrebbero affermare, come fece Galbraith, che la funzione della pubblicità è quella di «creare i desideri, di generare nelle persone quelle necessità che prima non esistevano».
Ed i pubblicitari a loro volta potrebbero controbattere nello stesso modo in cui aveva risposto Reeves. Prima con una “legge”: «Se il prodotto non soddisfa un desiderio o una necessità esistenti nel consumatore, la pubblicità alla fine fallirà il suo scopo». Poi con una tesi opposta alle teorie della persuasione occulta: «Non è vero che la pubblicità fa nascere i desideri. Sono i desideri che fanno nascere la pubblicità».
Sia come sia, il problema centrale ci sembra essere quello della difesa del consumatore dall’eterodirezione. Questa infatti appare un dato ineliminabile, per la semplice ragione che essendo strutturata la società, e non solo i processi lavorativi, secondo il principio della divisione del lavoro, il consumatore ha dovuto per forza delegare qualcuno all’informazione per essere orientato nel mondo delle merci.
Anche se con differenti sfumature, Anty Pansera nota qualcosa di analogo parlando specificamente del ruolo della pubblicità nel design: la pubblicità, ci si rende conto, – innestando un dualismo e una poetica non ancora superata né forse superabile – opera per interventi separati; la “tecnica persuasiva” si avvale di una netta divisione del lavoro, dove il grafico/visualizzatore viene a rappresentare il punto d’arrivo di un processo che affonda le sue radici molto lontano e che comunque non ha modo di controllare.
Al contrario, diventa sempre più chiaro come nel pianeta design non esistano ruoli subalterni e la metodologia d’intervento che lo caratterizza agisca non per divisioni e somme ma per integrazioni.
Ora, ammesso che tali integrazioni siano vere nella logica interna del design, non altrettanto ci sembra accadere nel rapporto tra il design e il pubblico dei consumatori. Abbiamo già espresso in precedenti interventi come al pubblico l’informazione «cada dall’alto» in maniera confusa e contraddittoria o addirittura talmente ermetica da poter essere commentata con le parole di un persuasore occulto in crisi: A volte penso che rischiamo di scendere a tali profondità da non capirci più niente.
Per cui, se al consumatore di design rimane una difesa, questa non può essere altro che istituire una dialettica criticamente avvertita con la produzione. Volendo infatti ipotizzare un black out di pubblicità, ma non di consumi, al consumatore verrebbe a mancare anche quel minimo di informazione che gli consente perlomeno «di dire si o no pavlovianamente».
È ovvio, nondimeno, che sia da auspicare qualcosa in più di una risposta così brutale e che l’obiettivo, invece, sia «da chi» farsi dirigere. E questo, nel campo del design, potrebbe essere un compito delegato alla critica, termine medio e, si spera, neutro nella dialettica di cui parlavamo.
Come scrive infatti De Fusco, La critica del design al di là della visione specialistica del designer, del produttore e dell’esperto di marketing, del commerciante, del consumatore, – è in grado di ridurre (nel senso di ricondurre, di trasmettere) alla produzione i valori-interessi del consumo e a questi valori-interessi di quella.
Solo operando questa sorta di travaso, solo agendo da cinghia di trasmissione, essa ha la possibilità, da un lato, di vincere le «resistenze» anticulturali di un pubblico conservatore e, dall’altro, di vincere le «insistenze» che spesso la produzione, in nome del mero profitto e del consumo nell’accezione deteriore, esercita sul pubblico .
L’alienazione
Per Marx, come si legge nel Dizionario di filosofia di Nicola Abbagnano: La proprietà privata produce l’A. (alienazione) dell’operaio sia perché essa scinde il rapporto dell’operaio col prodotto del suo lavoro (che appartiene al capitalista) sia perché il lavoro rimane esterno all’operaio, non appartiene alla sua personalità, quindi nel suo lavoro egli non si afferma ma si nega, si sente non soddisfatto ma infelice… E solo fuori del lavoro si sente presso di sé, si sente fuori di sé nel lavoro.
Ma, come continua lo stesso Abbagnano, l’uso del termine è diventato corrente nella cultura contemporanea anche a proposito del rapporto tra l’uomo e le cose nell’età della tecnica: giacché sembra che il predominio della tecnica ‘alieni l’uomo da se stesso’ nel senso che tende a farne l’ingranaggio di una macchina.
L’alienazione, quindi, produce un doppio ordine di problemi: da una parte quello del lavoro come proprietà dell’operaio o, meglio, quello della qualità e della professionalità del lavoro intese come bene sommo dell’operaio e, dall’altra, l’incalzare dello sviluppo del macchinario esaminato come mezzo di sfruttamento della forza lavoro. In altri termini, essa suscita due immagini: la perdita della morrisiana joy in labour e la folle frenesia dell’omino di Tempi moderni.
Sono due temi che spesso si intrecciano come accade nella critica all’approccio scientifico del lavoro produttivo, il taylorismo, o in quella alla diffusione della linea di montaggio emblematizzata dal fordismo.
Come nota infatti Bianchini: il taylorismo è riducibile alla scoperta che, all’interno dei processi lavorativi, un’operazione complessa poteva essere suddivisa in più operazioni semplici il cui tempo totale (tempi morti + tempi attivi) fosse minore del tempo necessario a compiere l’operazione complessa. Una conseguenza importante, anche se non dichiarata, della segmentazione delle operazioni complesse fu la distruzione della professionalità del lavoro, del mestiere e la sua sostituzione con la mansione.
Un lavoro ha un maggiore o minore contenuto professionale in relazione al fatto che esso comporti un maggiore o minore flusso d’informazioni atte a produrre un determinato bene a utilità finale. Quando il numero delle informazioni necessarie è semplificato di molto perché una parte della professionalità preesistente è stata trasferita al macchinario, si ha in realtà quello che tutti definiscono come “processo di dequalificazione del lavoro”.
A sua volta il fordismo appare allo stesso autore, un’applicazione su grande scala del taylorismo, un’estensione al settore dell’auto dell’uso (al posto dell’operaio professionalizzato) dell’operaio applicato ad una catena che gli impone mansioni semplici e ripetitive e, dunque, di un operaio in crisi politica profonda che non sarà più in grado per molto tempo di essere causa di disordine come prima lo era il vecchio operaio professionalizzato e di opporre la propria massificazione alla nuova organizzazione del lavoro.
Queste critiche, tuttavia, vanno ridimensionate proprio ricordando la posizione di Marx di fronte alla meccanizzazione. Come ci fa notare infatti Maldonado niente ci autorizza a fare di Marx un Rousseau, un nemico a oltranza dell’‘artificio’. Per Marx, il processo di ominazione è inseparabile dal processo di artificializzazione della natura; l’uomo diventa tale tramite la produzione di una natura umanizzata, cioè artificializzata… l’avvento della società senza classi non segnerà la ‘fine dei tempi tecnologici’ ma l’inizio di tempi tecnologici essenzialmente diversi da quelli attuali.
La tecnica perderà la sua funzione alienante e passerà a costituirsi in un fattore di riconciliazione tra l’uomo, la realtà e gli altri uomini.
Bisogna dire, però, che Lenin, molto più realisticamente aveva intuito proprio nel taylorismo un modo per eliminare l’alienazione almeno come lavoro prodotto per altri, anche se non come predominio della tecnica sull’uomo. Come scriveva infatti nel 1918: il sistema Taylor – come tutti i progressi del capitalismo – unisce in sé la crudeltà raffinata dello sfruttamento borghese e una serie di ricchissime conquiste scientifiche per quanto riguarda l’analisi dei movimenti meccanici durante il lavoro, l’eliminazione dei movimenti superflui e maldestri, l’elaborazione dei metodi più razionali, l’introduzione dei migliori sistemi di inventario e di controllo, ecc.
La repubblica sovietica deve ad ogni costo assimilare tutto ciò che vi è di più prezioso tra le conquiste della scienza e della tecnica in questo campo. La possibilità dl realizzare il socialismo sarà determinata dai successi che sapremo conseguire nel combinare il potere sovietico e l’organizzazione amministrativa sovietica con i più recenti progressi del capitalismo. Bisogna introdurre in Russia lo studio e l’insegnamento del sistema Taylor, sperimentarlo e adattarlo sistematicamente.
Veniamo ora al punto centrale. Cosa rimane del problema dell’alienazione? I tempi tecnologici «essenzialmente diversi» di cui parlava Marx sono certo in fase avanzata e non in virtù di una società senza classi. Anzi, con questi nuovi tempi dovranno fare i conti tutti i tipi di società industrializzate, in quanto essi forse saranno capaci di sconfiggere l’alienazione della catena di montaggio ma anche di generare mostri più temibili.
La follia dell’omino di Tempi moderni di fronte all’incalzare dell’automazione e della computerizzazione, rischia infatti di diventare un incubo sbiadito e tutto sommato inoffensivo. Marcello Lando, a tal proposito, nota come al cospetto di quelle immagini a molti sia sfuggita una ben diversa ipotesi e cioè che l’avvento in fabbrica di macchine così abili potesse produrre, in fase ultima, un’aggressività addirittura opposta nei confronti di quell’omino, fino a procurargli pause di lavoro tanto prolungate quanto da lui non richieste e non gradite.
I nuovi mostri, quindi, sono tutti quei processi lavorativi con capacità di controllo e di adattamento senza intervento dell’uomo. La nuova alienazione non è più quella di compiere sempre lo stesso gesto per otto ore lavorative, quanto lo spettro di perdere del tutto la possibilità di spendere quelle otto ore lavorando, in quanto sostituiti nelle proprie mansioni da un processo completamente robotizzato e computerizzato.
Paradossalmente l’assunto marxiano per cui, a causa dell’alienazione, l’uomo «solo fuori del lavoro si sente presso di sé» mentre «si sente fuori di sé nel lavoro» potrebbe essere completamente annullato. Inoltre il predominio della tecnica non alienerebbe più l’uomo da se stesso tendendo a farne l’ingranaggio di una macchina, poiché in molti casi quella macchina oramai può fare a meno di un ingranaggio tanto ingombrante preferendogli microprocessi sempre più raffinati.
Anzi, a quelle macchine si richiederà di divenire sempre più intelligenti e flessibili cioè adattabili ad un processo di lavorazione che assecondi un mercato dalla domanda estremamente diversificata.
Dopo la fabbrica disumana… si prepara, dunque, quella (unmanned) de-umanizzata?, si chiede Marcello Lando che però nota come l’immagine di “uomo flessibile” vada immediatamente ad associarsi a quella di “fabbrica flessibile”. Mentre si assiste alla patetica senescenza della tradizionale figura del “meccanico”, destinato a cedere la sua secolare leadership all’elettronico, va delineandosi chiaramente la generale evanescenza dei ruoli caratterizzati da mera ripetitività e da scarsa discrezionalità.
La rivoluzione microelettronica avanza in realtà come fenomeno elitario, che procede falciando i posti di lavoro più poveri, risucchiando ed aggregando le mansioni passive, difendendo e premiando le “professionalità attive”. E tuttavia… l’accresciuta produttività dell’industria può vivificare le economie esterne fino ad innescare l’esplosione di una vastissima serie di nuove opportunità di lavoro, anche molto distanti dalla fabbrica.
Tali opportunità si presentano oltretutto in settori a tecnologia relativamente bassa, ovvero in settori in cui tecnologia si identifica con creatività, managerialità, imprenditorialità.
Già qualche anno fa aveva anticipato questo tema Victor Papanek, un designer il cui radicalismo nel perseguire una progettazione «socialmente utile» travalica ogni etichetta ideologica.
Egli infatti scriveva: stando al vecchio «cliché», in base al quale ‘la natura detesta il vuoto’, quando i calcolatori elettronici incominceranno ad assumersi l’onere di gran parte di quelle attività che fino al nostro tempo abbiamo ritenuto di esclusiva pertinenza del nostro intelletto – ma che in realtà sono semplice monotonia – nuovi campi di impegno inevitabilmente sorgeranno.
È proprio in questo punto che si incontreranno il ‘lavoro’ del calcolatore elettronico e il ‘tempo libero’ dell’uomo, è qui che si trova il gruppo di progettazione.
In un mondo in cui il lavoro agricolo e industriale sarà eseguito in modo sempre più preponderante da fabbriche automatizzate e quasi tutta la «routine» di supervisione, controllo e calcolo sarà a carico del computer, il lavoro del gruppo di progettazione (ricerca, pianificazione sociale, innovazione creativa) «sarà la sola attività allo stesso tempo significativa e decisiva che resterà all’uomo». Ineluttabilmente, compito dei progettisti sarà di concorrere a determinare i fini di tutta la società.
Allora, tutto andrà bene nel migliore dei mondi possibili? La professione del designer sarà fra le poche a non correre il pericolo dell’alienazione da inattività? Riuscirà ad essere tanto flessibile da inventare sempre nuovi campi di applicazione sì da determinare i fini di tutta la società?
Intanto Lyotard, al cospetto della marea montante della computerizzazione, pessimisticamente insinua qualche dubbio e lancia una provocazione col dire che di fronte al tentativo di ridurre il linguaggio all’unità mercantile dell’informazione esiste una sola possibilità: lottare per questo lavoro di incomunicabilità, cioè di articolazione della possibilità di frasi nuove.
Questa lotta è condotta principalmente dagli artisti. Ciò che è importante nell’arte è precisamente la produzione di opere nelle quali le regole che costituiscono un’opera in quanto tale siano interrogate all’interno dell’opera stessa.
È evidente, dunque, come anche in questo caso, dove lo spettro dell’alienazione riappare come nemico da sconfiggere, il design caschi in piedi. Grazie alla sua componente meta-operativa, che va oltre il puro dato funzionalistico, esso è infatti assimilabile ai procedimenti artistici i quali, con le loro riserve di creatività, fantasia e inventiva, hanno da sempre costituito un antidoto all’alienazione, tanto all’interno quanto all’esterno dello specifico disciplinare.
tratto dal numero 70