Una terza via per il design

VANNI PASCA
Com’è noto, non si dà critica senza storia e viceversa, mentre sembrerebbe che nella cultura del design la riflessione storica non abbia trovato un suo ruolo tanto da poter considerare l’antistoricismo il vizio di nascita di questa cultura. Si tratta di un’importante affermazione, contenuta in un articolo apparso sii questa rivista, che evidenzia il problema non più eludibile da parte della cultura italiana dei design. Che, malgrado le apparenze, non si segnala oggi per la particolare vivacità del dibattito, nemmeno sulle riviste specializzate.

Non fa contraddizione il fatto, sottolineato da D’Auria in un recente acuto articolo, che l’Italia detiene probabilmente il singolare primato di riviste più o meno specializzate che si occupano di arredamento, di bricolage e, appunto, di design. Come si sa, ciò è stato portato spesso a riprova della vitalità della cultura del design.
Ma ormai non dovrebbe sfuggire a nessuno come questo primato sia connesso più che altro alle crescenti esigenze promozionali delle industrie in un mercato che, almeno per ciò che riguarda l’arredamento, si presenta alquanto stagnante. Se nel 1966 gli investimenti pubblicitari costituivano il 6,7% degli investimenti totali annui delle industrie del mobile, nel 1976 ammontavano già all’11,7% (nello stesso periodo la ricerca tecnologica passava dal 2,7 al 4,3%) sarebbe interessante conoscere dati più recenti.
Ciò, tra l’altro, è fonte di sempre maggiori conseguenze sull’informazione fornita da buona parte delle riviste.
Per tornare alla citazione iniziale, essa è senz’altro esatta. C’è forse solo da aggiungere qualcosa per quanto riguarda le cause del fenomeno. Non c’è infatti solo carenza di riflessione storica autonoma. C’è anche una mancata attenzione al dibattito sulla storia dell’architettura che si è sviluppato in questi ultimi venti anni con molto vigore.
Dibattito e processo di revisione storiografica troppo avanzati perché sia accettabile che i loro termini non filtrino o filtrino poco e male nella cultura del design (il che è tanto più grave se si tiene conto del fatto che questa dedica gran parte della sua attenzione proprio al design dell’arredo).
E quel processo di revisione ha investito questioni che con la storia del design sono fortemente implicate. Basti pensare che uno dei suoi punti di partenza è stato fornito dal libro di Wingler sul Bauhaus; e che uno dei libri che ha prodotto maggiori discussioni in Italia negli anni ’70 è stato quello di Manieri Elia su Morris.
Si potrebbero fare molti esempi a questo proposito: qualcuno risulterà evidente nelle considerazioni successive. Qui basti accennare a uno dei libri più recenti, La casa calda, di Andrea Branzi. L’autore, per raccontare le magnifiche e progressive sorti del neodesign (Il Nuovo Design italiano si assume però un ruolo guida ben più importante del semplice rinnovamento linguistico e superficiale della produzione corrente, in tutto il campo d’azione che va dal design all’architettura, verso la città… L’arco di ricerca quindi a cui il Nuovo Design si applica, tende a collocarlo tra i punti di rifondazione della stessa architettura), fa precedere i capitoli sugli anni recenti, in buona misura autobiografici, da un riassunto delle vicende del design a partire dalla metà dell’800.
Ciò che sorprende è come questa ricostruzione ripercorra, sia pur rovesciandoli in negativo, i termini della più classica storiografia «canonica», per usare un termine caro alla quella del mito del «moderno», «da Morris a Gropius», per intenderci.Il libro di Branzi sembra scritto apposta per confermare una tesi di Tafuri: Chi ha inventato il “post-moderno” non ha fatto altro che confermare, per antitesi quella storia sacra.
Probabilmente questa assenza di osmosi tra cultura dell’architettura e cultura del design ha alla base la ormai consumata separazione tra mestieri che oggi hanno articolazioni completamente diverse e sono a loro volta alla ricerca di identità diverse. Ma questa separatezza si sta rivelando sul terreno culturale un gravissimo limite per le possibilità del design di costruire una propria identità anche sulla consapevolezza storica e non mitologica dei propri percorsi.
Ciò può chiarirsi meglio se si osserva come in questi ultimi anni questioni storiografiche riferite al design siano in realtà emerse: prima fra tutte quella che si può definire la questione delle origini o del termine a quo. Eppure sono rimaste formulate dai singoli autori senza che ne sia nato non dico un dibattito ma neanche la necessaria attenzione all’importanza delle questioni poste. Sembra utile, quindi, tentarne una sommaria ricognizione.
Ma, oltre a ciò, sembra utile parlarne perché, come si sa, l’interesse delle questioni storiografiche non è costituito solo dai problemi che esse di per sé pongono: è costituito anche dal fatto che determinate domande maturano non a caso in certi periodi e non in altri. Esiste cioè un rapporto, mediato e indiretto, con l’operare progettuale. E qui, per semplicità ma in realtà anche per scelta, si fa riferimento particolare d’ora in poi al design dell’arredo.
La prima questione riguarda la data di nascita dell’industrial design. Dorfles, tempo fa, scriveva: Non è possibile discorrere di disegno industriale riferendosi a epoche prece. denti la rivoluzione industriale anche se sin dall’antichità si sono dati alcuni oggetti eseguiti in serie e con il parziale intervento di macchinari primitivi.
E con questa affermazione intendeva anche polemizzare con le opinioni diverse espresse in precedenza da altri studiosi come Read. Tale posizione, fino a pochi anni fa, era largamente accettata. Gregotti pone la data di nascita del design italiano al 1860, data convenzionale di inizio del processo di industrializzazione nel nostro paese’.
A proposito del design più in generale scrive: la fissazione del ruolo possibile del designer è già individuata con chiarezza nel rapporto che Josiah Wedgwood instaura intorno al 1870 con lo scultore John Flaxman quando gli commette i modelli per le proprie ceramiche industriali.
Ma in questi ultimi anni è emersa da più parti una impostazione differente. E possibile riassumerla con le parole di Quintavalle secondo cui la progettazione industriale nasce con l’industria e quindi, per il bacino mediterraneo, almeno dall’età greca e dalla romana in avanti, per cui risulta ridicolo leggere storie che cominciano dalla rivoluzione industriale (così detta) settecentesca inglese, ed ottocentesca per il resto dell’Europa.
Quintavalle è certo studioso troppo avvertito per sottovalutare la differenza tra produzioni isolate con l’impiego di macchine e la diffusione dell’industria e della divisione del lavoro come modo di produzione generalizzato. Né le affermazioni sue o di altri possono intendersi come ovvia riconferma del fatto che mobili e suppellettili si fanno da sempre.
È evidente quindi come questa polemica vada approfondita. Ma, per ora, può essere utile leggerla come “spia” di un diverso problema.
L’interpretazione che si può avanzare è la seguente. E venuta meno da tempo l’ipotesi di una progettazione globale dell’ambiente, dagli spazi urbani a quelli abitativi agli arredi, centrata su quella che Gropius definiva la ricerca di soluzioni fondamentali, passibili di sviluppo, crescita e ripetizione.
Entra in crisi quindi la legittimità e l’utilità di leggere il design dell’arredamento come percorso autonomo fondato sulle ricerche degli anni Venti e iniziato a partire dalle prime forme di produzione seriale e industriale: con esclusione o funzionalizzazione’ ad esso di ogni altra ricerca che si presenti con caratteri eterodossi.
La querelle sulle origini fa emergere quindi la difficoltà di continuare a mantenere una frattura concettuale con la storia del mobile, delle sue tipologie, delle sue invarianti e delle sue variabili: o almeno di continuare a scrivere la storia del design dell’arredo secondo il paradigma finora adottato.
Un punto ulteriore, ancora connesso con la questione delle origini, emerge da un articolo di Frateili che, in polemica con Gregotti, contesta l’opportunità di assumere come data di nascita del design italiano l’inizio del processo di industrializzazione. Egli interpreta la storia del design italiano di Gregotti come animata da una concezione integralista design-industria di matrice produttivistica, in ultima analisi alternativa alla concezione a sostegno della autonomia culturale del design».
E aggiunge in nota: «si rischia di sovrapporre nella retrodatazione del design […] matrici culturali abbastanza diverse. Di conseguenza sul piano ideologico, proprio in questa ottica, viene cancellata la relativa autonomia del progetto rispetto al mondo della produzione.
L’uso del termine «retrodatazione» diventa chiaro se si pensa che il libro di Fratelli, Il disegno industriale italiano, prende le mosse dal 1928 e ha come presupposto implicito ideologico-culturale una tesi pregiudiziale che sta nella esistenza della matrice del design unicamente nel grande alveo razionalista, di eredità bauhausiana .Non importa qui discutere la concezione del design di Frateili: importa mettere in rilievo come il suo intento sia ribadire l’esigenza di autonomia del design dai condizionamenti produttivi.
Gregotti, dal canto suo, concepisce il design come pulito di intersezione di cultura industriale e cultura progettuale: la sua autonomia quindi non si pone in un principio di autofondazione. Ritiene che la cultura del progetto […] è definibile […] solo a partire dagli aspetti quantitativo-ripetitivi e dai modelli di metodo offerti dalla rivoluzione industriale: e da questa inizia il suo discorso. In un articolo, scritto con Aulenti e Bohigas, dal titolo significativo Avanguardia come professione, scrive: il reale non è un’impurità da eliminare, un compromesso a cui sottrarsi ma invece materiale portante della produzione architettonica.
Ci troviamo quindi di fronte a due interpretazioni: una assume come data di fondazione il definirsi di un pensiero teorico unitario con il Bauhaus, garanzia contro il riassorbimento del design come attività subalterna alle esigenze produttive. Gregotti invece, per quanto riguarda l’autonomia del progetto, crede nella necessità di una tensione ideale» e ritiene che «il mito positivo del movimento moderno, sino a quando è rimasto autenticamente tale, non ha affatto determinato declini negli strumenti disciplinari.
Ma si trattava di un mito, appunto, ed oggi è venuta meno la tensione ideale che esso portava con sé. Oggi quindi l’autonomia va fondata altrove: in una tensione verso una necessità collettiva, verso “un principio di speranza”.
A questo punto la polemica tra Frateili e Gregotti non può non essere vista anche come esigenza di risposta da parte di entrambi ai rischi di perdita di identità e di autonomia del designer nella situazione odierna. Che è problema connesso al carattere sempre più market oriented delle industrie, alla frantumazione del mercato e alla modificazione dei ruoli che il designer è chiamato a giocare in questa situazione.
E ancora Gregotti a rilevare come in Italia c’è una posizione particolare del designer in quanto intellettuale con tutte le sue contraddizioni, ma anche con la preoccupazione di far corrispondere un’azione ad un pensiero. E una posizione, come si sa, che sembra incontrare difficoltà crescenti.
Intanto è sotto gli occhi di tutti il processo involutivo dell’ADI, l’associazione dei designers italiani, che non a caso ha posto nel 1979, come atto fondativo del rilancio della sua attività, l’annullamento della mostra progettata da Mari come tentativo di analisi e di demolizione dei miti residui di fronte alle modificazioni intervenute nel rapporto del design con la produzione e il consumo. Mostra sostituita con un’altra che, in orrore ad ogni problematicità, si presentava come una sorta di fiera promozionale di prodotti delle industrie.
In definitiva al di sotto della polemica di Fratelli con Gregotti, il problema che si avverte è: ci sono ancora possibilità oggi di mantenere aperta una distanza, uno spazio di non coincidenza, tra le aspettative istituzionalizzabili dei gruppi sociali e le proposte della creatività progettuale nel senso più globale del termine. La questione delle origini, quindi, rinvia o perlomeno si pone in parallelo a una crisi del concetto di industrial design e a una simultanea crisi del ruolo stesso del designer.
Ciò si ricollega, probabilmente, ad un ulteriore problema che qui ci si limita ad accennare.È emersa da più parti in questi anni una proposta di variazione terminologica che non ha niente di nominalistico. Così D’Amato e De Fusco, nell’articolo già citato, affermano essere il design, quali che siano tutte le altre definizioni, certamente arte applicata.
E in un numero di Casabella, in parte dedicato al design, Dal Co scrive: E di «arti applicate», appunto, si dovrebbe ancora oggi parlare. Nell’espressione arte applicata vi è molto più spazio di quanto non ve ne sia in quello ora usualmente utilizzato di design, sebbene i due concetti si implichino.
Si pongono qui due temi di notevole interesse. Il primo riguarda la distinzione concettuale design-architettura; che ci riconduce al problema non solo della distinzione delle figure professionali ma dell’autonomia e della diversità delle due discipline. E in questo senso Dal Co scrive: Ripensare al «design» in termini appunto di «arti applicate», significa innanzi tutto tentare di approfondirne la specificità, coglierne le peculiarità […]. Ma d’altro lato ciò implica anche il riconoscimento delle diversità di quanto è «arte applicata» rispetto all’architettura.
Il secondo deriva dalla maggiore estensione del concetto di arte applicata rispetto a quello di design. Ciò permette non solo di ristabilire un rapporto con la storia del mobile ma di evitare aporie che nella storia del design sono presenti. Si pensi, tra l’altro, al tema enunciato su questa rivista secondo cui quel fenomeno che fu in modo incerto definito Protorazionalismo non è un fenomeno esauritosi […] con gli inizi del razionalismo, ma si svolse in parallelo con questo ed è riscontrabile ancora oggi.
Come si vede, discorrendo per lo più di date, sono emerse questioni abbastanza complesse: e sarebbe interessante a questo punto tentare di sovrappone al quadro che offre oggi il design. Accenniamo alcune brevi considerazioni. È sotto gli occhi di tutti come il design di matrice razionalista sia approdato in gran parte a stanchi e ripetitivi esiti.
Del resto, a parte le condizioni produttive e di mercato che sono alla base di questo processo, è il filo teorico cui i designers ortodossi facevano riferimento che si è interrotto. È la stessa nozione di «movimento moderno» ad essere andata in crisi. Intanto gli anni passati hanno visto l’esplosione del «neomoderno», come si è autodefinito in un implausibile sforzo di distinguersi dal «post» (da cui si distingue ben poco, va aggiunto, anche perché si è definito, al pari di quello, come liberalizzazione rispetto al «puritanesimo» del moderno).
Proseguimento del «radical design», al di là dell’estinguersi del suo «punto incandescente», ha sostanzialmente perseguito due ipotesi. Una, quella della costruzione di una nuova Gesamtkunstwerk, una nuova opera d’arte totale in cui vita e arte si intrecciano, sviluppando modelli elaborati in tutto l’arco della sua lunga esperienza da un caposcuola come Ettore Sottsass nel piacere del gioco colorato e della presenza magico-rituale degli oggetti. Nell’illusione, direbbe Menna, che ci possa essere tra pulsione e linguaggio una continuità felice e senza problemi.
Dall’altro lato, la critica al progetto «razionalista» come metafora della prima età della macchina è slittata dolcemente nella proposta della stessa metafora aggiornata ai tempi: la metafora dell’universo elettronico e informatico, con la decorazione come spia di un rapporto irrisolto con l’innovazione tecnologica, in una sorta di neo-futurismo che gioca intertestualmente a combinar citazioni dal vissuto e parodie e rivisitazioni delle avanguardie storiche e di immagini desunte dalle comunicazioni di massa.
E, superato l’uso criticoeversivo della cultura pop, resta la protrazione non dichiarata di quel Warhol con cui già negli anni ’60, come ha scritto Trimarco, l’arte si fa ornamento come vuoto e assenza di valore, come silenzio e morte, come ciò che è banale, quotidiano, residuale. Ma se questa è cronaca recente, tuttavia è già consegnata al bilancio.
E da un lato il proliferare di oggetti colorati e futili è diventato testimonianza di un atteggiamento diffuso per cui essere creativi in modo sfrenato sembra essere diventato un obbligo e insieme una scorciatoia, con esiti di assuefazione misti a noia. Dall’altro lato lo stesso Mendini si è accorto dei rischi costituiti da schiere di proseliti trascinati dal flauto magico del «neodesign» verso il gorgo di un decorativismo allo sbando. E con abile iha lanciato l’allarme e nello stesso tempo ha proposto una nuova serie di oggetti in cui congela la sua ricerca formale in esiti di glaciale eleganza: dal «neofuturismo» al «neodéco», si potrebbe dire.
Durante lo svolgersi di questi processi, mentre il design è sembrato dividersi a forbice tra stanchezza ripetitiva del «moderno» ed epidermica effervescenza del «neomoderno» (e in realtà si tratta di due aspetti di un’unica impasse) altre ricerche si sono andate svolgendo e sono in corso. Se ne potrebbe indicare più d’una, se si facesse riferimento a singoli designers o se si guardasse, interessante a dirsi, anche fuori dall’Italia.
Ma, se si cercano invece tratti comuni, si può parlare di un’area che si è andata progressivamente delineando, pur senza costituirsi come tale, con personalità anche molto diverse tra loro e proposte che nel corso degli ultimi anni sono cresciute di numero. Mentre si sviluppava la polemica tra design «ortodosso» e «neodesign», questi progettisti hanno tentato di scavalcare trasversalmente l’impasse, rifiutando insieme riduzionismi «modernist» e scorciatoie «neomoderne».
La loro tensione è rivolta a un recupero di complessità dell’oggetto, al di là del moderno o nel tentativo di rimetterlo in rapporto con le tipologie storiche e gli archetipi del mobile, senza enfasi «postmoderne».
Per citare alcune di queste ricerche, si può iniziare con Aldo Rossi, che nel 1980 presentava una forma «analoga», la «cabina dell’Elba», piccola architettura domestica proposta come armadio ma in realtà allusiva di molte funzioni possibili.
E poi ha continuato progettando oggetti che interrogano la storia e possibile, ripropongono forme persistenti nella memoria, che sembrano voler riannodare itinerari interrotti, ripercorrere tracce sospese, recuperare presenze scomparse che hanno lasciato zone d’ombra e momenti d’assenza.
Anche Adolfo Natalini, in altro modo, ha intensificato da alcuni anni i suoi progetti di arredi, solidi come architetture, archetipi radicati nel mito più che nella storia. A volte sono quasi oggetti rituali, spesso hanno sapore antico di mobili contadini. Ed è proprio Natalini a ricordare come le pratiche rituali derivino da antiche pratiche agrarie; e ad affermare come memoria collettiva e originarietà siano ottimi antidoti all’arbitrio dell’individualità e dell’originalità.
Ancora si può parlare delle forme e architetture per interni di Luca Scacchetti, delle geometrie elementari e laconiche di ascendenza «rossiana» e insieme dalla solida, «neoclassica» presenza; dell’eleganza ascetica degli arredi di Ungers per il museo di Francoforte.
E ancora, per allargare un po’ il campo, della delicata poeticità di certi piccoli mobili di Boris Sipek; del garbo sottile di ascendenza «milanese» degli oggetti di Umberto Riva, dove il nitore delle forme diventa finemente decorativo; di certi stipi di Antonia Astori, con «schinkeliane» cimase, recuperi di immagini familiari in cui l’autobiografia è percorsa da un filo di ironia.
E interessante ora sapere che Renato De Fusco ha scelto di progettare dei nuovi mobili, sulla base di un discorso teorico di recupero delle tipologie storiche, con attenzione dichiarata ai tipi piuttosto che alle forme, con volontà di verifica del patrimonio del passato e di riproposta critica attualizzata. E si è in attesa di conoscerne gli esiti.
Come si vede, è un panorama ancora poco indagato, non certo omogeneo. Non è, evidentemente, l’unica via che oggi si stia praticando né l’unica prospettiva aperta. Ma certo è una delle più interessanti.
tratto dal numero 64