Architettura: tra proibizionismo e abusivismo

PASQUALE BELFIORE
Proibizionismo è termine colto, usato nel linguaggio dei chierici per indicare una stagione del passato prossimo nella quale sarebbe stato represso l’istinto verso la fantasia, la memoria, l’immaginario; ma è anche la più recente filosofia del legislatore che in materia urbanistica vieta, limita e sempre più non consente.

Abusivismo è parola dei mass media e, pur avendo una costellazione di referenti, designa oggi in particolar modo quello edilizio. Il proibizionismo colto ha provocato negli architetti delle inibizioni dalle quali si stenta a liberarsi. Quello legislativo non ha provocato inibizioni di sorta se è vero che il recente condono edilizio porterà in sanatoria l’equivalente di cinque città grandi come Napoli.
Da un lato, i discorsi degli architetti, ciò che di recente è stato definito il «sovrastrutturale» dell’architettura. Dall’altro, il problema della casa, l’equo canone, gli sfratti, le proroghe, il condono edilizio. Due mondi separati, un divario nel quale proibizionismo e abusivismo operano un paradossale raccordo facendo derivare in buona misura il confuso attivismo dei fatti dal carattere a volte perentorio a volte vago del dibattito.
È possibile che non esista una terza via che fermi il pendolo oscillante tra la noia dell’asfissiante cultura e la rabbia per i bisogni disattesi? È possibile che dalla valanga di carta stampata non esca un’idea in grado di mordere i fatti? Statisticamente, marciamo con un fascicolo di rivista al giorno (sono quasi sessanta le testate di architettura, urbanistica e design stampate in Italia) ed un libro a giorni alterni.
Sempre a scadenze giornaliere, conferenze, seminari, tavole rotonde (L’orecchio è stanco, diceva Ceronetti). I giudizi non collimano: abbiamo bisogno di architettura; chi ha stabilito che esiste un vero bisogno di architettura? Ritornano antichi dilemmi: dal Piano al Progetto o viceversa?
Il gioco degli opposti: necessità di conoscere la storia; necessità di ignorare la storia. I sussulti di scepsi totale: l’urbanistica non è una disciplina autonoma.Si vola alto sul campo delle opinioni. Di converso non si decolla su
un problema centrale e riassuntivo, la casa nelle grandi città. Come dire, dalla pianificazione urbana all’architettura, al tema dei centri storici, dell’economia, del mercato immobiliare, delle leggi.
Materia vasta, ma non incandescente perché ristagna in una palude di leggi, di limiti apparentemente insormontabili, di modi di pensare impigriti dal conformismo.I termini dimensionali del problema casa, desunti da statistiche ufficiali, già smentiscono alcune diffuse idee. Non è vero che ci sono più famiglie che alloggi e non è vero che si costruisce sempre meno.
Nel 1981, il patrimonio complessivo di alloggi era di 21.852.000 con un incremento percentuale di 25 punti rispetto al decennio precedente. Ai 320.000 vani costruiti negli anni sessanta, ritenuto il periodo del cosiddetto boom edilizio, corrispondono i 450.000 vani costruiti negli anni settanta. Ciò nonostante, due milioni di famiglie cercano casa e cinquecentomila sono gli iscritti nelle graduatorie dell’edilizia sovvenzionata.
Le società immobiliari confermano che la domanda più cospicua è riferita ad alloggi nel centro delle grandi città, cioè proprio laddove l’attività edilizia ha subito negli anni settanta una flessione del cinquanta per cento. È qui il vero nodo della questione abitativa, dove proibizionismo e abusivismo presentano gli intrecci più seri.
Perché non si costruisce nelle grandi città? Per il regime vincolistico delle leggi e per la presenza dei centri storici, si risponde. Questi, in verità, ci sono sempre stati, eppure si costruiva nelle città. La differenza è nel grado di maturazione attinto dalla odierna cultura che alla tradizionale concezione organica di una città che vive e cambia al suo interno, che rigenera funzioni, che sostituisce organi vitali, che muta di continuo pelle ha imposto un elenco paralizzante di concetti come ambiente, tutela, conservazione, vincolo.
È ovvio che tutto ciò è importante e necessario, ma è il modo radicale e esasperato di coniugare queste idee, a fronte dei modesti risultati fino ad oggi conseguiti, che dovrebbe indurre a rivedere tutto il contenzioso. E se il discorso deve incominciare daccapo, perché non partire dal modo di organizzarsi della produzione industriale?
Il design — è stato osservato — si articola nei quattro momenti del progetto, della produzione, della vendita e del consumo. L’architettura attraversa un ciclo analogo ma con un elemento aggiuntivo e specifico, il topos, che informa di sé tutto il processo. Il progetto deve tener conto del «genius loci»; la produzione è condizionata dalle capacità e dal livello della imprenditoria locale; la vendita, e quindi il valore commerciale, si diversifica proprio in ragione del luogo; il consumo, nei modi e nei tempi, è regolato dal grado di tutela della zona.
Quando l’insieme di questi elementi è ben sedimentato allora la casa, che è merce, o vale quanto un Raffaello, o non vale nulla. Sul piano economico, infatti, non conta l’autore del progetto, la qualità architettonica, la stagione del gusto che esprime; in misura trascurabile contano le condizioni statiche e di manutenzione. Detta legge solo il topos.
L’indubbia, maggiore razionalità con cui si organizza il settore della produzione industriale è inficiata, in architettura, da questa costante. Il mercato degli oggetti della più vasta produzione industriale si può preordinare, il valore prestabilirlo attraverso il nome del designer, i materiali adottati, il numero di pezzi prodotti, una programmata azione promozionale. In architettura, squallide costruzioni in luoghi privilegiati hanno un valore di mercato superiore ad un edificio da antologia.
L’attuale mercato immobiliare italiano, spiega Gabetti, è formato per l’87% dalla compra-vendita di case usate, dovute alla mancata immissione sul mercato di case nuove. Nel libero gioco tra domanda e offerta di alloggi, si creano delle situazioni congiunturali estremamente negative che portano in alcuni momenti ad impennate vertiginose, come è accaduto nel 1980, anno in cui i prezzi degli appartamenti usati aumentarono dal 40 al 60 per cento. Il bene-casa, pur restando sempre lo stesso, si rivaluta non per un suo miglioramento intrinseco ma per la sua rarefazione.
Tutte le leggi, egli continua, sono state fatte tenendo presente il problema dei meno abbienti e trascurando il ceto medio che rappresenta la parte più cospicua della domanda. Il mercato immobiliare muove risorse e agisce sulle leve del risparmio che è tipico del ceto medio. Se questo non può accedere al bene-casa, toglie spazio al livello inferiore che tradizionalmente, e secondo discutibili ma consolidate regole, occupa in terz’ordine gli alloggi liberati.
Divario tra domanda e offerta significa in primo luogo lievitazione non fisiologica dei prezzi. Il costo della vita è aumentato nell’ultimo decennio del 375%, il costo del danaro del 380%, il costo delle costruzioni del 500% circa. Chi ha comprato una casa agli inizi degli anni sessanta in una zona centrale o signorile di una grande città, vede moltiplicato per 15 il valore dell’immobile. Chi l’ha acquistata con le stesse caratteristiche in una zona periferica deve moltiplicare solo per 5 il valore iniziale.
Non sappiamo molto sul modo di scardinare la dittatura del topos che crea, soprattutto sul versante economico, situazioni grottesche. Probabilmente, una via praticabile è quella di una seria riflessione sullo zoning, seguita da concrete sperimentazioni sulla industrializzazione dell’architettura (cosa diversa da quella dell’edilizia). Ma è un argomento, soprattutto il secondo, ancora da impostare.
Topos per antonomasia è il centro storico, con una particolare natura dei problemi. Qui, il proibizionismo — esplicito nelle leggi e cordiale nelle Carte del restauro per l’uso della parola «raccomandazione» — attinge vertici assoluti. Chiusura al traffico veicolare, rigorosa selezione delle funzioni, uso delle sole categorie del restauro e del risanamento conservativo, rispetto delle densità edilizie esistenti, limiti di altezza, notarili prescrizioni di materiali e colori, dell’arredo urbano.
La pedante precettistica configura in questo caso un abusivismo sui generis, quello del potere politico che, attraverso provvedimenti sollecitati da una cultura di fatto conservatrice, rende difficile ed ansiosa la vita a quei cittadini che, per sventura a questo punto, abitano nel centro storico. Si premette di continuo che la città storica non deve diventare un museo. Ma si tratta del classico esorcismo, perché cos’altro sarebbe se non un museo un ambiente sottoposto a «rigide misure di salvaguardia»?
Tra tutti i precetti, quello più vessatorio è la chiusura al traffico automobilistico. Ma si fa anche di peggio, con soluzioni «intermedie» che ostruiscono parzialmente o totalmente alcune strade, che impongono divieti ad orario, che qualificano verde la zona totalmente inaccessibile e rossa quella accessibile a metà, che autorizzano perfino l’uscita in macchina a giorni alterni. Insomma, un sistema paranoico studiato — e questo è il risvolto più singolare — per rendere più vivibili le condizioni del centro. Tutti concordiamo che il vero nodo del problema è quello del traffico automobilistico. Allora, non è possibile rinunziare all’automobile? No, e non per principio. Si tratta d’altro.
Chi non conviene sui discorsi della libertà individuale a prendere o non prendere la macchina, si convinca almeno di un nuovo clima nei rapporti tra cittadini e potere. La società post-industriale, ha osservato Eugenio Scalfari, non sopporta il vincolismo e sembra avere come sua piattaforma programmatica la deregulation, cioè lo smantellamento delle bardature amministrative che pretendono di tutto prevedere e di tutto prescrivere. Ciò che l’apparato burocratico nega o limita, la società si procura per altra via. Ma c’è anche dell’altro.
Strutture, complessità, disordine, densità, sistemi, cambiamento, comunicazione, dinamica, società, mass-media, informazione, gestire il tempo, gestire lo spazio; energia, trafile, calcolatore, ideologie. Ecco venti parole, e perché non 20.000? Per farne che? Per farvi capire molto seriamente che le cose intorno a voi stanno cambiando.
Le cose? E cioè? Ebbene: i ritmi di vita, i ritmi di produzione, i processi di appropriazione… Rivoluzione culturale? No, state tranquilli; Mao non attira più le folle di intellettuali. Quello che ora li appassiona sono i sistemi, le strutture, i concetti… Guardatevi intorno. Si fanno circolare le automobili laddove circolavano carrozze. Si installano cucine elettroniche in spazi concepiti per tutt’altri sistemi di vita.
Si continua a produrre in edifici obsoleti, grazie a tecniche avanzate. Guardatevi bene intorno: viviamo in un mondo di contraddizioni e di divieti, dove viene mantenuto uno scarto continuo fra contenitore (il costruito) e contenuto (le attività) e ci avviciniamo ad un fatale punto di rottura.
Per i centri storici, questo punto di rottura è già arrivato perché essi stanno morendo di tutela, di ambiente, di vincoli. La precisazione scientifica di questi concetti ricorda molto da vicino i discorsi degli urbanisti negli anni sessanta. Dal quartiere alla città, alla conurbazione, al territorio, secondo un procedimento che finiva per pianificare il deserto dimenticando la città.
Così, allo stesso modo, dal monumento all’ambiente, al contesto storico ed ai rapporti di questo con la città al contorno. Oggi, però, sull’altro versante, si parla con decisione di fare progetti di architettura per la città e non piani. Allo stesso modo, sarebbe necessario ritornare a discutere sui monumenti, ridimensionando concettualmente e territorialmente l’invadenza della nozione di ambiente.
E questo almeno per due motivi: perché in pratica non è possibile tutelare intere parti di città e perché non è corretto da un punto di vista culturale. Ogni epoca ha operato delle scelte in ragione della «variazione e intermittenza degli ideali estetici». Queste scelte, solo nelle epoche della «damnatio memoriae» si sono appuntate anche sui monumenti, ma in genere sono state espresse dalla parte più disponibile del sistema monumentale, cioè proprio dall’ambiente.
Si modifichino allora la morfologia e le dimensioni dell’ambiente storico laddove ad una valutazione storico-critica ciò appare legittimo. In caso contrario, si invochino dalla tecnologia tutte le possibili e compatibili soluzioni — tunnel e parcheggi sotterranei, svincoli aerei, nastri trasportatori, scale mobili, ascensori — che consentono di attraversare il centro storico, a seconda dei casi, dentro, sopra o sotto.
Né è giusto considerare tali innesti come il male minore, perché le espressioni della moderna ingegneria nel campo delle infrastrutture per i trasporti sono tra le cose più belle e significative dell’architettura contemporanea.
Si rifletta ancora su uno dei numerosi corti circuiti prodotti da una esasperata cultura della tutela. Se in città è praticamente impossibile o economicamente non conveniente costruire, si costruirà all’esterno della città, cioè su suoli agricoli. E questo proprio nel momento in cui dal mondo dell’agricoltura vengono allarmanti rapporti sull’erosione dei terreni provocata dall’espansione della città che solidifica e addensa gli anelli periferici e svuota il centro.
Un’altra osservazione andrebbe fatta sulle nuove destinazioni funzionali del centro storico. Anche in questo caso c’è una compatta convergenza su destinazioni di tipo culturale che, a parte la vaghezza del termine, non tengono conto delle nuove tipologie sollecitate da modi inediti di usare la città. A Roma, ha osservato di recente Aymonino, c’è bisogno, ad esempio, di foresterie e seconde case di ridotte dimensioni per tutti coloro che sono legati in qualche modo all’apparato istituzionale e burocratico della capitale.
In ogni città, c’è bisogno di case per anziani, per gli studenti, di case-albergo a rotazione per gli abitanti del centro stesso i cui alloggi sono interessati da lavori di ristrutturazione o ricostruzione, di idonei centri per handicappati, di un numero sempre maggiore di sedi per associazioni, enti, partiti, movimenti e nuovi soggetti espressi dalla società.
Come mediare allora tra chi vuole che nulla cambi e chi vuole cambiare senza regole? Ancora una volta, tra chi proibisce, e proibendo abusa di potere, e l’abusivismo tradizionale sempre in agguato? Non abbiamo, naturalmente, soluzioni sicure e complessive, ma una semplice domanda da porre. Perché non tentare con la categoria della «sostituzione edilizia» gestita da privati? Aprire dunque una breccia nella cittadella assediata del centro storico per introdurre il famigerato cavallo di Troia? Sì, se agli occupanti del cavallo saremo in grado di imporre nuove e reciprocamente convenienti regole di azione.
Il discorso su questo tema, almeno nelle sue linee di partenza, è molto semplice. La società dei bisogni, s’è detto, non ha mai tollerato regimi troppo vincolistici e l’attuale clima di deregulation sembra incoraggiare maggiormente questa tendenza. Le leggi sono state disattese e lo Stato s’è rivelato imprenditore incapace e inadempiente (ed è sufficiente ricordare il fallimentare capitolo della «167»).
Su queste basi, la tutela non sarà mai assicurata. Occorre dunque scendere a patti con le richieste della società, pagando anche i dovuti prezzi, come una revisione complessiva di idee come ambiente, centro storico, paesaggio, bellezza, valore artistico, ecc.
Quanto all’imprenditoria privata, alle leggi dell’economia e della produzione, si registra oggi un diverso atteggiamento anche da parte di ambienti politici tradizionalmente sospettosi. Se il fiorire delle leggi volte al controllo minuzioso del territorio è coevo ad un diligente abusivismo — ha scritto Lucio Libertini, responsabile della politica della casa per il P.C.I. — non bastano le scomuniche e le condanne: occorre riflettere sulle ragioni profonde di quella contraddizione.
Forse è meglio programmare meno ma meglio, cogliere ciò che conta, proporsi di dire ciò che veramente si riesce a fare. L’importanza grande e decisiva del recupero, la crescente esigenza di questa scelta, non può sfociare nell’archeologia urbana, in un riflesso condizionato contro la produzione.
La sostituzione edilizia appare lo strumento più idoneo a mediare tra la volontà di haussmannizzare il centro storico e l’attuale condizione di passività totale. Questo, tipo di intervento è stato sempre guardato con sospetto perché comporta due pericoli: introduce il moderno nel centro storico e si presta a possibili speculazioni con aumenti di superfici, cubature e altezze.
Quanto al primo, la parte più progressiva della cultura architettonica ha ormai da tempo legittimato la presenza del moderno accanto all’antico. I pericoli di una speculazione, poi, andrebbero eliminati sulla base del nuovo significato che la sostituzione edilizia dovrebbe assumere. Perché, ovviamente, non pensiamo a quella definita nella vigente legislazione.
In sede di dibattito, già alcune idee vengono sottoposte a serrate critiche: lo zoning, gli standards, il carattere generale della legislazione, l’eccessiva difficoltà progettuale a destreggiarsi tra limiti di altezze, distanze, superfici, volumi. E, d’altra parte, concetti come uniformità, allineamenti, coerenza stilistica, rispetto dei tipi edilizi non appartengono certo alla cultura architettonica contemporanea.
La sostituzione edilizia potrebbe in tal senso diventare il punto di coagulo del complesso di queste revisioni. Si tratterà però, anche, di pensare ad un sistema di incentivi che incoraggi l’intervento dei privati, un qualcosa in più che bilanci gli alti costi derivanti dalla particolare natura dei lavori.
Gli obiettivi che un ragionato sistema di sostituzioni edilizie dovrebbero conseguire sono: un aumento della densità abitativa con l’offerta di nuovi alloggi nel centro della città; una necessaria operazione di medicalization in parti di città caratterizzate dalla fatiscenza edilizia; una struttura urbana meno ostile al traffico automobilistico.
Diciamo queste cose — che possono apparire espressioni di una cultura antistoricista — confortati proprio dalle esortazioni che ci vengono dagli storici più avvertiti. È proprio necessario ribadire che la storia è dinamica, azione, progetto del futuro? Chi sottoscrive le attuali idee e procedure sul centro storico è contro la storia o, quanto meno, contro una sua moderna e corretta visione.
La storia così intesa è un atto tra i più gravi di abusivismo.
L’incomprensione del presente nasce fatalmente dall’ignoranza del passato — ha scritto Marc Bloch. — Forse non è però meno vano tentar di comprendere il passato, ove nulla si sappia del presente. Già l’ho raccontato altrove: accompagnavo a Stoccolma Henri Pirenne, il quale all’arrivo mi disse: «Che cosa andiamo a vedere prima di tutto?
Mi pare ci sia un Municipio nuovissimo. Cominciamo di là». E poi aggiunse, quasi volesse prevenire il mio stupore: «Se fossi un antiquario, non avrei occhi che per le cose vecchie, ma sono uno storico. Ecco perché amo la vita».
Questa facoltà di apprensione di ciò che vive: ecco la massima virtù dello storico… Un grande matematico non sarà meno grande, suppongo, se passerà ad occhi chiusi attraverso il mondo in cui vive. Ma l’erudito che non ami osservare intorno a sé né gli uomini, né le cose, né gli eventi, meriterà forse — come diceva Pirenne — il nome di utile antiquario; e agirà da saggio se rinuncerà a quello di storico.
tratto dal numero 63