Desiderio d’armonia

BENEDETTO GRAVAGNUOLO
Il tema emerso con maggior evidenza dal dibattito teorico sull’architettura degli ultimi vent’anni è senza dubbio il ripensamento sull’eredità culturale del passato. Si è trattato di una questione riproposta con motivazioni ed intenti diversi, ma con tale insistenza da far ritenere non eccessiva la definizione di «ossessione della storia».

Eppure, rivisto da tale ottica, il panorama dei primi anni sessanta sembrerebbe a prima vista dimostrare il contrario. È proprio allora infatti che quel vasto fenomeno internazionale che va sotto il nome di «neo-avanguardia» raggiunse una provvisoria ma significativa egemonia all’insegna del suggestivo slogan sulla «nostalgia del futuro».
E non è casuale che un autorevole compagno di strada della «internazionale dell’utopia», quale Reyner Banham, abbia dedicato un capitolo centrale del suo libro su Le tentazioni dell’architettura: Megastrutture proprio al 1964, eletto a «mega-anno», «annus mirabilis per idee e progetti… l’anno, tanto per cominciare, nel quale Fumihico Maki impiegò per la prima volta il termine stesso di “megastruttura”; in cui fascicoli fondamentali di “Bauen+Wohnen” e di “Architectural Forum” contribuirono a cristallizzare il corpo d’idee che si riferiva; in cui un certo numero di forze nuove, come Archigram, ebbero il primo influsso reale; e nel quale la maggior parte delle megastrutture realmente costruite venne progettata».
Quella «marea montante» di profezie avveniristiche, superstrutture utopiche e disegni fantascientifici operò una vistosa mitizzazione della tecnologia, caricandola di valori progressivi e di attese escatologiche evidentemente improbabili. Ma, a ben vedere, sotto la scorza della deformazione caricaturale e fumettistica della macchinolatria si celava già il seme dello storicismo.
Lo dimostrano, ancor più direttamente delle esplicite affermazioni di Peter Cook sulla necessità di «assorbire il nuovo nel tradizionale» e sull’importanza di «un dialogo tra conservazione e invenzione», i fotoromanzi di Arata Isozaki sulla città futura in cui i giganteschi piloni di cemento che reggono i grigliati spaziali degli «edifici ponti»
coesistono con la maestosa grandezza dei ruderi di antiche colonne, in uno scenario dominato da un’estetica delle rovine di vago sapore piranesiano.
Al di là di questi e di altri esempi che si potrebbero addurre a riprova, ciò che più conta è la constatazione dell’innegabile coesistenza della duplice tensione sia verso il passato che verso il futuro rintracciabile in quegli anni persino nelle elaborazioni più avanzate della «neo-avanguardia»; il che lascia ritenere legittima l’assunzione del binomio «storia-utopia» quale autentico contrassegno dell’ultima produzione architettonica — come già proposto da Renato De Fusco nel capitolo conclusivo della sua Storia dell’architettura contemporanea.
Il ripensamento del passato è peraltro ancor più evidente nelle coeve formulazioni teoriche e progettuali di alcune figure carismatiche degli anni sessanta. Si pensi al messianico neoilluminismo delle pure costruzioni geometriche di Louis Kahn; alle suggestioni vittoriane evocate dalle compatte masse murarie di mattoni rossi contrapposti alle trasparenti cascate di vetro degli edifici di James Stirling; alle esortazioni di Aldo van Eyck a portare «l’antico nel nuovo, riscoprendo le qualità arcaiche, senza tempo, nella natura umana»; alle reiterate polemiche di Ernesto Nathan Rogers contro i «custodi dei frigidaires» in nome di valori di «tradizione» e di «continuità»…
In questi progetti teorici il legame con la storia prevale sulla tensione utopica verso il futuro, senza tuttavia che quest’ultima componente venga mai meno. E un’analoga disponibilità ideativa a coniugare il nuovo con la riflessione retrospettiva sulla memoria storica è riconoscibile in quella fase anche nella produzione di alcuni cosiddetti maestri del movimento moderno, tra i quali soprattutto il Mies van der Rohe della Galleria d’arte di Berlino e il Le Corbusier de la Tourette.
Del resto l’etimo stesso della parola progetto implica il senso della proiezione, ovvero la volontà di prefigurare una trasformazione dell’esistente, che, nelle espressioni culturalmente più motivate, sottende spesso un intento etico di marca utopica, anche quando lo sguardo viene rivolto all’antico.
E il laccio latente che lega tra loro quei diversi pensieri d’architettura è, appunto, la critica al «cattivo presente», vale a dire la contrapposizione polemica della propria idea del costruire alla «terrificante volgarizzazione» della modernità diffusasi nella produzione corrente dei primi anni del secondo dopoguerra.
In ogni epoca una codificazione stilistica, una tendenza formale o, se si preferisce, un atteggiamento ideologico sul progetto acquista il suo senso — e il più delle volte anche un’egemonia culturale — proprio in forza dei «no».
Ma al mutare delle condizioni quelle stesse negazioni di un codice autoimposto finiscono spesso col perdere la loro ragion d’essere. Così la «rimozione» del passato, che nei primi anni del secolo aveva trovato il suo fondamento nell’opposizione ai tardi esiti dello sclerotizzato storicismo accademico (incapace di riflettere sulle ragioni delle forme), negli anni del secondo dopoguerra non aveva più senso.
Come ha ben chiarito Rogers (in Continuità o crisi?), «… era ormai caduta la ragione polemica che aveva sollecitato i precursori del Movimento Moderno a qualificare le proprie azioni “contro” quelle dell’ambiente nel quale avevano dovuto operare con spirito di crociata, con un massimalismo anche verbale, con i manifesti». Le questioni da affrontare erano ormai altre: era, per così dire, cambiato il nemico. Il nuovo avversario non era più l’eccesso di storicismo, ma — all’opposto — l’assenza di senso storico.
Episodi come la ricostruzione di Rotterdam e l’Interbau di Berlino — che sancivano anche in Europa il trionfo del funzionalismo banale dell’International Style — imponevano infatti un cambiamento di rotta. Non può sorprendere, quindi, che siano stati proprio i «pionieri» del moderno ad indicare la strada del ritorno alla storia.
Si può infatti affermare che in quella fase il rappel al passato esercitò un ruolo polemico e innovativo analogo — anche se di segno contrario — a quello esercitato dall’antipassatismo delle prime avanguardie storiche. In quelle date condizioni le nuove «avanguardie» intellettuali non potevano che guardare alla storia.
Ma a distanza di vent’anni il clima è di nuovo cambiato:sta montando la marea dell’internazionale della nostalgia. Il richiamo al passato è ormai inflazionato, banalizzato, involgarito. L’eredità della storia rischia di ridursi alla miseria dei facili bricolages di stilemi presi a prestito da altre epoche. Per questo proprio chi vede ancora «il passato come amico» deve porsi delle domande sul come relazionarsi alla storia.
È difficile infatti non condividere la considerazione di Nietzsche Sull’utilità e il danno della storia per la vita laddove afferma: «Certo, noi abbiamo bisogno della storia, ma ne abbiamo bisogno in modo diverso dall’ozioso raffinato nel giardino del sapere». Sul «modo» insomma è importante discutere.
Nei limiti di questa nota non è possibile dar conto della pluralità dei pareri sull’argomento. Ne sceglieremo pertanto solo alcuni che possono valere da paradigmi di orientamenti progettuali di stretta attualità — sostanzialmente antitetici nel modo di relazionarsi alla storia — eppure troppo spesso accomunati nella conciliante etichetta di «postmoderno». Schematizzando possono allora essere assunte come punte di icebergs di più vaste correnti le posizioni progettuali di Robert Venturi, Leon Krier, Peter Eisenman e Aldo Rossi.
Com’è noto Venturi è stato allievo di Kahn, così come in maniera più o meno diretta lo sono stati Giurgola, Moore, Tigerman, Vreeland, Millard ed altri architetti protagonisti dell’ultima stagione dell’architettura americana. Il lascito del «maestro» è riconoscibile senz’altro nella questione della storia. Tuttavia profondamente diversa si presenta la soluzione avanzata da Venturi al problema già formulato da Kahn: non solo sul piano formale — per il sensibile spostamento dell’asse renziale dal classicismo al barocco —, ma anche e soprattutto sul piano concettuale.
Alla mistica di un’estremizzata semplicità protesa verso forme archetipe elementari senza tempo, viene infatti contrapposta una teoria della Complessità e contraddizione in cui gioca un ruolo non secondario l’influenza esercitata dall’estetica della Pop-art. Il che vale soprattutto per la rappresentazione spregiudicata dell’attuale cultura di massa, osservata e accettata, con sottile ironia, per quella che essa è e per come essa si mostra, anche nei suoi aspetti pubblicitari, banali e di cattivo gusto.
La critica all’ascetico rigore del «less is more» miesiano — mossa appunto da Venturi nel suo libro-manifesto del 1966 — assume il senso inequivocabile di una rivendicazione del diritto all’eccesso, alla ridondanza, alla simbolicità, già espressa nel saggio Main Street is almost right e successivamente ribadita in Learning from Las Vegas.
Così il passato finisce con l’essere rivisto attraverso le lenti deformanti dell’effetto spettacolare, in bilico fra la trovata pubblicitaria e la meraviglia barocca. Questa singolare versione dello storicismo contemporaneo, lungi dal porsi come critica al presente, si traduce insomma in un’apologia dell’esistente.
In tutt’altra direzione si muove il passatismo di Leon Krier, che condivide con Maurice Culot e Quinlan Terry l’atteggiamento di radicale «resistenza antindustriale», il che equivale ad una virtuale negazione dell’intera fenomenologia architettonica degli ultimi due secoli. Il legame ombelicale col «maestro» James Stirling è stato reciso in modo ancor più netto.
Piuttosto che per allusioni o per metafore, il passato preindustriale viene infatti evocato con i disegni in tutta la sua spettrale integrità, senza cedimenti, senza compromessi col «maestro» James Stirling è stato reciso in modo ancor di questo itinerario progettuale sono il progetto per la casa-atelier per Giorgio Mayer, che rappresenta, per sua stessa dichiarazione, l’opera-manifesto del ritorno ad una condizione artigianale apoditticamente assunta come «genio di un linguaggio collettivo dove la forma è il risultato di un dignitoso sistema di produzione» (senza porsi dunque domande sulle ragioni storiche di quel modo di costruire) e poi i disegni per la città di Lussemburgo, che tentano di imbalsamare sulla carta «l’ordine gerarchico» della bellezza perduta delle città europee del XVIII secolo.
Le sue paradossali affermazioni — «Faccio dell’architettura poiché non costruisco» e «Non costruisco perché sono architetto» — risultano quindi a loro modo coerenti alla consapevolezza d’aver formulato una pura utopia; anche se — ma è forse superfluo aggiungerlo — si tratta di un’utopia regressiva.
Nelle acque dello storicismo naviga anche la ricerca di Peter Eisenman, a sua volta emersa verso la metà degli anni sessanta assumendo come stella polare le considerazioni di Colin Rowe sulle similitudini e le differenze tra il movimento moderno e il Rinascimento. Tra i «five architects» che si imposero nel 1969 sulla scena newyorkese, candidandosi a protagonisti del nuovo corso della nostalgia americana di una storia mancata, Eisenman è certamente colui che ha sviluppato con maggior rigore la linea analitica dell’autoriflessione sulle strutture profonde del linguaggio architettonico.
La prima sensazione di revival in chiave «minimalista» del purismo degli anni venti, trasmessa dalle sue prime «architetture di cartone», cede subito il passo, ad un’indagine appena più ravvicinata, alla comprensione del più autentico interesse «sintattico» che governa le sue composizioni.
Vengono infatti applicati all’architettura alcuni principi analitici della linguistica trasformazionale di Chomsky, che postulano una critica all’ideologia della «rivoluzione permanente» dell’invenzione, insinuando il dubbio della permanenza metastorica delle strutture profonde che regolano la sintassi stessa del progettare.
Non trascurabile inoltre, ai fini del discorso fin qui svolto, è la dimostrazione del possibile sviluppo di uno storicismo assolutamente alieno dalla mimesi di forme già viste: uno storicismo insomma che indaga sui rapporti costitutivi della struttura compositiva latente degli edifici del passato, piuttosto che sulla copia dei loro elementi simbolici, inevitabilmente legati alla cultura referenziale associativa del tempo in cui essi furono concepiti.
Peraltro la concezione stessa del passato viene dilatata fino ad includere al proprio interno la vicenda dei primi decenni del nostro secolo. Come ha dichiarito lo stesso Eisenmann, nella sua ricerca giuoca un ruolo determinante «il lavoro analitico e il suo contesto è essenzialmente storico. Si concentra su due periodi: i lavori rinascimentali del Palladio, Vignola, Scamozzi, Giulio Romano, ecc.; e il movimento moderno (in particolare il lavoro di Le Corbusier e di Giuseppe Terragni).
L’analisi è centrata sul rapporto tra forme e idee per definire la natura, e da questo estrarre ciò che io chiamerei le relazioni invarianti che si possono trovare in questo rapporto» (Cardboard Architecture, in «Casabella» n. 374).
Anche la riflessione di Rogers ha trovato sviluppi inediti ed originali nell’opera teorica e architettonica di Rossi, Bonfanti, Gregotti, Canella, Semerani, Aulenti, Aymonino, Grassi, Monestiroli ed altri. Rinviando ad altre sedi l’approfondimento di tale vasta e pluriforme area culturale, adotteremo qui come prova di sondaggio la teoria di Aldo Rossi.
La vasta risonanza che — nel bene o nel male — questa elaborazione ha avuto nel dibattito architettonico degli ultimi anni ci esime dal riassumerne i principi chiave, limitando qualche considerazione ai soli aspetti di più stretta attinenza al «modo» di relazionarsi alla storia. E a tal proposito va sottolineata innanzitutto l’insistenza — formulata nell’ormai celebre saggio del 1966, L’architettura della città — sul concetto di «permanenza» di alcuni caratteri urbani riconoscibili come invarianti della cultura del costruire di un dato «luogo». Si tratta di una ipotesi desunta dalla «teoria delle persistenze» di Marcel Poëte traslando nel dibattito architettonico le acquisizioni di fondo di un filone di pensiero storiografico francese di matrice strutturalistica.
«Il significato degli elementi permanenti nello studio della città — scrive Rossi — può essere paragonato a quello che essi hanno nella lingua; ed è particolarmente evidente come lo studio della città presenti delle analogie con quello della linguistica soprattutto per la complessità dei processi di modificazione e per le permanenze. I punti fissati da De Saussure per lo sviluppo della linguistica si potrebbero trasporre come programma per lo sviluppo della scienza urbana».
L’altro aspetto su cui vale la pena di soffermare l’attenzione è la scelta di un legame privilegiato con quella linea di pensiero della «architettura della ragione» che a partire dall’illuminismo di Boullée e Ledoux — passando attraverso le teorie dei primi moderni del novecento: Loos, Behrens, Tessenow… — giunge fino ai nostri giorni.
V’è un anelito dunque alla «continuità» e non alla negazione delle prime «teorie del moderno», anche se va precisato che si tratta di un virtuale prosieguo lungo un ben definito alveo concettuale pervaso dal desiderio d’armonia che altro non rappresenta se non la riproposizione attualizzata dei principi basilari della classicità.
Fin qui alcune distaccate osservazioni sulle idee-forza messe in campo sul tavolo dell’attuale partita progettuale. È ben vero che di solito il critico — come il poeta di Benjamin — «non partecipa al gioco. Se ne sta in un angolo, e non è più felice di loro, dei giocatori». Ma almeno una volta vorremmo provare anche noi l’emozione dell’azzardo e prender parte al gioco.
Diciamo subito che i modi più convincenti di relazionarsi al passato ci sembrano quelli che evitano di riproporre il simulacro o gli elementi simbolici e iconologici del passato stesso, privilegiando il lavoro analitico sulle strutture profonde o il procedimento analogico nella rappresentazione. A rigore questi atteggiamenti andrebbero ascritti alla dimensione «metastorica» piuttosto che a quella «storicistica» così come essa è stata tradizionalmente intesa.
Ma qui sta il dato di maggiore differenziazione della parte migliore dello storicismo contemporaneo da alcuni precedenti fenomeni solo apparentemente simili, quali ad esempio l’eclettismo storicistico ottocentesco. Alla radice v’è una nuova concezione del metodo storico che impedisce la ricaduta nelle costruzioni «in stile» e conduce alla «interpretazione» tesa a riprodurre il senso e non l’apparenza dell’antico. Certo questo vale solo per una parte dello storicismo contemporaneo, sulla quale la linguistica ha giocato un ruolo non trascurabile di «scienza pilota».
Non mancano, peraltro, esasperazioni «passatistiche», e valga ad esempio il neopalladianesimo pedissequo di Quinlan Terry. Ma ciò non può inficiare l’importanza di un autentico ripensamento sull’eredità culturale del passato, ma solo mettere in guardia contro le degenerazioni che si accompagnano quasi sempre alla divulgazione delle idee.
In tal senso le categorie di «moderno» e «postmoderno» ci appaiono troppo vaghe, troppo generiche, troppo povere di indicazioni per operare dei veri distinguo all’interno delle forze che si muovono sulla scacchiera dell’architettura contemporanea.
È ormai a tutti chiaro che ciò che è stato definito movimento moderno ha incluso al proprio interno una pluralità di antinomie concettuali irriducibili ad un disegno unitario, se non negli schemi narrativi dei «grands récits» dei primi storici di quell’esperienza, schemi in cui prevale la strategia di difesa delle idee in una battaglia di cultura, piuttosto che l’accertamento disincantato dei fatti.
Ma, a battaglia conclusa, possiamo riconoscere con serenità che ritroviamo dentro quel «movimento» tendenze vistosamente storicistiche opposte ad altre di impronta avveniristica; tendenze espressioniste opposte e talvolta confuse ad altre razionalistiche; tutto e il contrario di tutto. Per questo parlare dell’avvenuto superamento del «moderno» suona strano.
È forse più efficace — per quanto possa apparire provocatorio — rileggere la stessa vicenda del nostro secolo alla luce dell’antica millenaria antinomia tra apollineo e dionisiaco, armonia e dissonanza, ordine e disordine, esclusivo ed inclusivo, classico e anticlassico.
Ed è singolare notare come, nonostante le inequivocabili dichiarazioni in tal senso di alcuni «pionieri» di quel movimento, la genesi «classica» della linea razionale del «moderno» sia stata trascurata o sottovalutata dai primi narratori di quella vicenda. Solo poche voci isolate — come quella di E. Kaufmann (Da Ledoux a Le Corbusier, Vienna 1933) e, più di recente, di J. Summerson (Il linguaggio classico dell’architettura, Londra 1963) — si erano opposte al coro della storiografia ufficiale.
Pecca probabilmente di faziosità la tesi di Summerson che afferma che il linguaggio classico rappresenti «la modalità disegnativa più generale e stabile che il mondo abbia mai veduto». Noi sappiamo infatti che il principio dell’armonia ha generato dalle proprie stesse viscere l’impulso alla dissonanza e all’informe e che questo conflitto ha perennemente segnato le varie epoche storiche, contraddistinte dal relativo e provvisorio prevalere dell’uno sull’altro «gusto». Tuttavia è innegabile che il «senso dell’ordine» — come ha recentemente dimostrato Gombrich — sia «innato» e radicato nel fondo della psiche umana, legato all’istinto stesso di sopravvivenza degli esseri viventi.
I canoni della venustas classica e della quiete visiva — così come i ritmi dell’armonia musicale — non hanno nulla a che vedere con la mimesi della natura. È proprio là dove finisce la natura che comincia la costruzione logica dell’architettura, vale a dire la realizzazione di un ambiente adeguato alle più profonde esigenze psichiche e biologiche dell’uomo.
Se ciò è vero, se ne può allora dedurre che la stessa volontà di dominare il caos della civiltà epocale, piegandolo ad un progetto «forte», ad un ordine logico e coerente è un desiderio ineludibile di ogni teoria architettonica di impronta umanistica: passata, presente e futura. È un desiderio più forte dello stesso ragionevole pessimismo sulle effettive possibilità di riuscita allo stato attuale delle cose. Pur consapevoli della probabile sconfitta, non riusciamo tuttavia a non simpatizzare per questa linea dell’apollineo. Per questo, se qualcuno ci chiedesse di indicare due testi che segnano simbolicamente la partenza e l’approdo di questi vent’anni di dibattito architettonico, proporremmo i Principi architettonici nell’età dell’umanesimo di Rudolf Wittkower e Il senso dell’ordine di Ernst H. Gombrich.
tratto dal numero 61