Historic Urban Landscape: un concetto in costruzione

ROBERTA AMIRANTE
In quanto fenomeno estetico e oggetto storico – scrive Michael Jacob – il paesaggio non potrà mai essere spiegato in modo esaustivo 1. L’aggiunta dell’aggettivo “culturale” alla parola paesaggio, da un lato contribuisce a complicare ulteriormente questa spiegazione dall’altro chiarisce un aspetto importante: il paesaggio non esiste in sé, non ha una natura “ontologica”, è sempre il frutto di una relazione tra un soggetto e un oggetto. Il paesaggio esiste quando viene “percepito”, e questa percezione (ce lo insegnano le teorie estetiche) è sempre legata a una interpretazione più o meno soggettiva. Ma in questo aggettivo c’è di più: c’è la consapevolezza che lo sguardo che “produce” questo paesaggio non è un semplice esercizio dei sensi, e non è neanche uno sguardo neutrale; e che il prodotto di quello sguardo non rientra solo nella sfera delle sensazioni, della sensibilità.

Quello sguardo porta con sé – consapevolmente o inconsapevolmente – una “cultura”, una tradizione, una storia; e proprio perché le culture, le tradizioni e le storie sono relative, sono plurali per definizione, oggi ciascuno potrebbe costruire il proprio paesaggio, ciascuno potrebbe avere diritto al proprio paesaggio e pretenderne il riconoscimento. D’altra parte se è vero che non esiste un paesaggio “in sé” è vero anche che esistono molti luoghi ormai storicizzati come paesaggi, che sono stati dipinti, raccontati, fotografati, filmati; che sono stati riconosciuti come elementi dotati di una propria identità, di generazione in generazione, da molti uomini appartenenti a tempi, paesi e culture diverse: a lungo andare questi luoghi hanno assunto le sembianze di paesaggi “in sé”, il loro riconoscimento è diventato automatico e si è presentato come un dato di fatto alle generazioni successive, immerse in una dimensione spaziale sempre più globale e in una dimensione temporale sempre più accelerata.
Non proverò neanche a tracciare una storia dell’idea di paesaggio e delle sue “conseguenze” sulla materiale costruzione dei territori abitati dagli uomini, sarebbe impossibile. Ne è prova il fatto che la bibliografia su questo tema è diventata sterminata, visto che “la cultura del paesaggio” sembra non avere limiti, tiene insieme i campi più disparati (dalla filosofia, alla ecologia passando per la sociologia, l’an tropologia, l’urbanistica, l’architettura, l’ingegneria, l’ar cheologia, l’arte, l’etologia, la botanica …).
Ma il fatto più significativo è forse un altro: anche il paesaggio, come tante altre cose, da argomento d’élite è diventato un fenomeno che da un lato incrocia il gusto collettivo, quello di massa (alcuni parlano apertamente di “moda del paesaggio”) e dall’altro si intreccia con la costruzione delle “comunità”, diventa un importante fattore identitario: e sono proprio queste due dimensioni antropologiche (e diversamente “territorializzate”) che vanno approfondite per capire in che direzione si sta costruendo il “concetto” di paesaggio culturale. Come vedremo, è proprio sulla natura delle collettività che producono i paesaggi culturali e sulla natura delle collettività che li riconoscono che si giocano le differenze tra il passato e la nostra contemporaneità, tra la cultura moderna e quella post-moderna: ed è all’interno di queste differenze (o meglio, come direbbe Jacques Dérrida di queste différances) che l’architettura – e in particolare la cultura architettonica italiana abituata a convivere con la diversità spaziale e la profondità temporale dei propri paesaggi – potrebbe disegnare il suo nuovo ruolo (da protagonista, da comprimario?) nella descrizione, nella trasformazione, nella costruzione dei paesaggi culturali contemporanei.
Uno spunto utile a sollecitare qualche riflessione si può ritrovare ragionando intorno all’origine, al senso e soprattutto alla possibilità interpretative di una delle più discusse tra le categorie inventate per classificare i paesaggi del mondo: riassunto nell’acronimo HUL, il concetto di Historic Urban Landscape prova a tenere insieme – con non poche ambiguità – la logica elitaria dei siti patrimonio mondiale dell’umanità e quella, molto più democratica ma molto meno operativa, della Convenzione Europea del Paesaggio. In realtà, nella sua interpretazione più convenzionale, il paesaggio urbano storico (per dirla all’italiana) mette semplicemente “in versione Unesco” la nozione di centro storico: ma, come provo a suggerire di seguito, la sua ambigua estensione semantica potrebbe trasformarlo in un grimaldello utile a costruire un “discorso architettonico” dentro la complessa trama dei paesaggi culturali.
Paesaggio, natura, cultura
La nascita dell’idea moderna di paesaggio, come molti hanno sottolineato, si può far coincidere con quella prima dimensione della modernità rappresentata dalla pittura di paesaggio, quando gli artisti mostrano con chiarezza la distinzione tra paese e paesaggio, la perdita dell’unità uomo/natura, il distacco dell’uomo dalla natura naturans, la sua immersione nella natura naturata che lui stesso costruisce; l’idea di paesaggio si consolida e si estende nel tempo delle Encyclopédies e dei Voyages Pictoresques; assume dimensioni molto più ampie nell’epoca di cui parla Walter Benjamin, quella della riproducibilità tecnica; esplode letteralmente nella nostra civiltà dell’immagine in cui i paesaggi (più o meno culturali) si moltiplicano fino a diventare infiniti.
In questi passaggi epocali quella che cambia non è solo la dimensione quantitativa del fenomeno “paesaggio”: cambia la qualità dell’idea di paesaggio, cambia la qualità del rapporto tra paesaggio e cultura, cambia la qualità del rapporto tra produzione del paesaggio e sua legittimazione collettiva; cambia in particolare la qualità delle authorities che sono legittimate a “riconoscere” i paesaggi in nome di collettività più o meno estese nel tempo e nello spazio.
E la situazione, in questa serie di passaggi, si complica molto.
Si complica innanzitutto a partire dall’idea di paesaggio, (anche nella sua interpretazione più tradizionale, come “altro” rispetto ai luoghi abitati dagli uomini, in particolare come “altro” dalla città) man mano che si complica il rapporto degli uomini con la “natura”. Man mano che la natura (naturans o naturata), oggetto di ammirazione estetica e di interpretazione artistica, diventa “natura-territorio”, oggetto dell’osservazione scientifica; e poi “natura-ambiente”, l’oikos, il luogo della vita umana, che per essere studiato richiede la creazione non solo di una nuova disciplina – l’ecologia – ma di una vera e propria dimensione culturale.
In questi passaggi l’idea di natura si scompone, si articola, si arricchisce; e, con essa, quella di paesaggio. La natura come “altro” dai luoghi abitati dall’uomo – che è stata il soggetto originario del paesaggio – ne diventa un attributo: il paesaggio naturale è solo una delle componenti del paesaggio culturale; non solo non è più la sua dimensione principale ma non è neanche più individuabile come elemento autonomo e separato.
Viaggi e paesaggi
Quanto al rapporto tra paesaggio e cultura, è quando si incrocia con la dimensione del viaggio che la nozione di paesaggio esplode in una serie di articolazioni talmente complesse da diventare incontrollabili: tutto è, potenzialmente un “paesaggio” e ogni paesaggio è inevitabilmente un “paesaggio culturale”. L’incrocio tra viaggio e paesaggio è legata trasversalmente alla divaricazione fondamentale di cui ha scritto Alain Roger2: il paesaggio oggetto dell’ar tialisation in visu (rappresentazione limitata e statica) è cosa molto diversa dal paesaggio “artializzato” in situ (realtà fisica, illimitata e dinamica). Ma, oltre a fondarsi su questa distinzione fondamentale, che amplia molto l’ambito del paesaggio e dà significati differenti all’aggettivo culturale, il viaggio contribuisce a far compiere all’idea di paesaggio un passaggio fondamentale, in particolare per chi studia il tema del paesaggio culturale dal punto di vista dell’architettura.
L’origine dei voyages settecenteschi è legata all’interesse per il paesaggio naturale e per quello archeologico che hanno in comune il fatto di appartenere a un tempo differente, a una longue durée (per dirla con il linguaggio di Braudel) che racconta storie molto distanti da quelle legate agli événements che misurano la vita degli uomini: lo spazio della natura è senza tempo per definizione, quello dell’archeologia lo diventa attraverso l’idea di “antico” che la cultura occidentale fa diventare “classico”, e quindi senza tempo.
E se i luoghi sono senza tempo (ce lo insegna Einstein) sono anche senza spazio: le bellezze naturali e le grandi testimonianze archeologiche sono quasi immediatamente – e poi definitivamente – sottratte alla loro “territorialità” originaria (di cui al massimo diventano “simboli” e oggi diremmo landmark). Fin da allora si comincia a costruire una rete di extraterritorialità di alcuni siti che sono riconosciuti come “luoghi della bellezza” in quanto “luoghi della cultura” e viceversa. In nome di questa doppia qualità questi saranno individuati per primi come i siti da proteggere.
Non è un caso che a queste due categorie appartengano all’inizio i luoghi individuati dall’Unesco come Patrimonio dell’Umanità: ma, moltopiù che nel Secolo dei Lumi, al tempo dell’Unesco è l’azione trasformatrice dell’uomo che mette a rischio i “patrimoni”: basta pensare che tutto nasce con la costruzione della diga di Assuan che costringe a “de territorializzare” l’area archeologica di Abu Simbel … e la natura di questa “prima volta” è un indizio importante della validità della riflessione che ho appena esposto: la deterritorializzazione può materialmente realizzarsi proprio perché è già in qualche modo “contenuta” nell’oggetto. Ma, tornando al cambiamento che il viaggio produce sull’idea di paesaggio, ben presto – molto prima che il viaggio diventi un fenomeno di massa – i viaggiatori cominciano a muoversi alla ricerca delle città. E se i paesaggi naturali e quelli archeologici potevano ancora tenere insieme l’idea dei paesaggi in visu e di quelli in situ, il viaggio nei paesaggi costruiti e abitati dagli uomini, nei paesaggi temporalmente e spazialmente indeterminati, il viaggio nelle città, sposta definitivamente l’asse nella seconda direzione e propone una impressionante moltiplicazione dei paesaggi in situ, nuovi “oggetti del desiderio”, nuovi oggetti della descrizione, dell’interpretazione, della narrazione dei viaggiatori che a loro volta producono nuovi paesaggi, in visu: le rappresentazioni delle città, i “ritratti urbani” costruiti nelle più diverse forme, letterarie, grafiche, cinematografiche si moltiplicano in maniera proporzionale alle esperienze di viaggio.
Agli albori della modernità l’”autenticazione” dei paesaggi, la loro trasformazione in oggetti culturali condivisibili da altri (ancora pochi, allora) spetta ai colti viaggiatori europei che alternano descrizioni soggettive a sforzi consistenti di oggettivazione del loro sguardo: rilievi, cartografie e poi dagherrotipi e fotografie dei viaggiatori contribuiranno alla conoscenza “parascientifica” dei luoghi di interesse – tra cui ormai sono compresi molti “paesaggi urbani” – in una forma olistica che verrà progressivamente sostituita dalla segmentazione scientifica delle differenti discipline applicate allo studio dei “territori”.
Poi, nel 1835, Karl Baedeker avvierà in Germania la pubblicazione di un tipo di guida di viaggio che aveva l’obiettivo di eliminare ogni forma di emozione soggettiva per proporsi come uno strumento utile al nuovo soggetto “impersonale” e “innumerevole” che si muoveva alla ricerca dei “paesaggi del mondo”: il turista.
È a partire da quei piccoli libretti con la copertina rossa che l’idea delle authorities che hanno il compito di orientare l’esperienza dei viaggiatori passa dai rappresentanti di una cultura d’élite a una nuova categoria di “funzionari della cultura”, impersonali e spesso anonimi, all’inizio raccoglitori di esperienze e scritture collettive, poi sempre più protagonisti – nella loro appartenenza a una rete specializzata – della creazione di “paesaggi” buoni per tutte le stagioni e useful per tutte le culture massificate.
Paesaggio e patrimonio
Se l’incontro con “il viaggio” produce un ampliamento significativo della “dimensione” e della “quantità” dei paesaggi (culturali) e l’ingresso ufficiale nella loro casistica di quelli che chiamiamo “paesaggi urbani”, l’intreccio del concetto di paesaggio con il concetto di patrimonio produce una vera e propria esplosione, anche perché il concetto di patrimonio, ancora più dell’idea di viaggio, è soggetto a una serie di cambiamenti e di continue integrazioni che ne rendono difficile l’identificazione.
Patrimonio … guardiamo l’etimologia latina: pater che significa padre e munus che significa compito: patrimonio è “compito del padre”. Il pater è il pater familias: è l’autorità riconosciuta dal nucleo fondativo di qualsiasi comunità umana, che è la più piccola delle comunità: la famiglia. Per estensione: costruire un patrimonio è compito dell’autorità archetipica riconosciuta dalla comunità archetipica. In francese e in inglese il termine diventa più esplicitamente heritage: il patrimonio è “un’eredità”. E l’eredità è quella che si lascia ai figli ma è anche quella che si riceve dai padri. Ho detto fin dall’inizio che le prime parole su cui costruire il discorso sul “paesaggio culturale” sono autorità e collettività: a queste ora dobbiamo aggiungere la parola eredità e, con essa, la parola tradizione.
Il discorso sul patrimonio è complesso quasi quanto quello sul paesaggio culturale: anche qui la bibliografia è sterminata. Un riferimento importante è il libro di Françoise Choay che ha come titolo L’allegoria del patrimonio3: tra le tante questioni trattate è utile qui ricordarne due. La prima rappresenta per certi versi lo sfondo delle riflessioni che vado esponendo.
Il concetto di patrimonio è universale ma la sua “materializzazione” non lo è affatto. Tutte le culture hanno un’idea di patrimonio ma queste idee sono molto diverse tra loro. E, nella contemporaneità, l’emergere di realtà culturali tenute ai margini dalle culture vincenti, con la complicità della storia o della geografia, già da tempo ha posto gli europei e gli anglosassoni di ambedue le sponde dell’Atlantico di fronte a un panorama globale molto complesso. Valga per tutte la diversità della cultura orientale che dà molto più valore alla conservazione dell’immagine nello spazio che non a quella della materia nel tempo, a cui gli europei sono invece indissolubilmente legati.
Ovviamente queste diversità (che a scala più minuta si trasformano in un “sistema di differenze” teoricamente infinito) rendono il discorso sul Patrimonio, e in particolare sul Patrimonio dell’Umanità, molto complesso e portano in primo piano la questione della natura (mondiale / sovrana-zionale / nazionale / societaria / comunitaria / individuale), della qualità (culturale / economica / sociale) e della quantità delle authorities, deputate alla identificazione e alla protezione dei beni: come testimonia del resto la lista dell’Unesco, qualificata a partire dal 1994 dagli aggettivi “rappresentativa”, “bilanciata”, “credibile” che dicono molto di questa complessità.
Questa dimensione del sistema delle differenze – nella condizione oppositiva tra globale e locale che è tipica della contemporaneità – è una delle spinte che portano alla continua decostruzione e ricostruzione del concetto di paesaggio culturale e rendono veramente difficile costruire un discorso generale su questo tema.
Le mie stesse riflessioni sono “viziate” da una prospettiva territoriale, quella italiana, innanzitutto, e poi quella europea: due prospettive storicamente molto importanti e molto prepotenti, che hanno orientato la politica culturale mondiale (in particolare, ma non solo, quella dell’Unesco) in maniera molto significativa almeno per tutta la seconda metà del secolo scorso.
Tra l’altro, come si sa, la cultura italiana è stata sempre particolarmente segnata dal tema della storia, della conservazione, della tutela non solo dei “beni culturali” ma anche del “paesaggio”. Il tema è richiamato addirittura in un articolo della Costituzione della Repubblica (l’art. 9) che recita: “la Repubblica tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione”; ed è utile ricordare che questa formula fu preferita (dai Padri della Costituzione che la scrissero nel 1946, subito dopo la fine della Seconda Guerra mondiale, in un paese devastato e diviso) all’altra che recitava “lo Stato protegge il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione”; una differenza importante sia rispetto al tema dell’authority (la Repubblica e cioè tutti i cittadini e non solo lo Stato che li istituzionalizza) sia rispetto al tema dell’azione, che da protezione diventa tutela; la protezione può anche essere un’azione passiva: la tutela no.
Ma tornando ai due temi sollevati dalla Choay, se il primo, quello della “diversità” rappresenta lo sfondo del ragionamento che stiamo seguendo, il secondo ne è invece parte costitutiva. Si tratta del ruolo epocale che la rivoluzione industriale svolge nella “nascita” dell’idea di patrimonio in Europa.
In epoca preindustriale, il patrimonio nel quale le comunità si riconoscevano era costituito dai “monumenti”, costruiti e legittimati dalle authorities (il potere temporale e quello religioso), che guidavano (anche culturalmente) le comunità. I monumenti (anche qui l’etimologia latina monere è importante) avevano il compito di “ammonire” e “rammemorare” con la loro bellezza e con il loro significato, con la loro grandezza e con la loro potenza: avevano una funzione rappresentativa e una funzione educativa. Erano quelli gli elementi da conservare e trasmettere ai posteri. Anche molte altre cose, in realtà, venivano conservate e trasmesse ma quest’altro tipo di eredità apparteneva a una cultura popolare implicita, non codificata e non controllata: a una “cultura materiale”.
Con la rivoluzione industriale tutto cambia: il patrimonio, da quel momento, non sarà più rappresentato solo dai monumenti ma anche dai documenti, e in particolare da tutte quelle testimonianze di un tempo e di una società fondati sulla cultura materiale. Da tutte quelle testimonianze che la rivoluzione tecnica e scientifica stava cancellando, distruggendo, sostituendo, e comunque rendendo “inattuali” o perfino “inutili”. Tutti questi materiali occupano uno spazio nel presente ma appartengono a “un altro tempo” e quindi si trasformano in “materiali archeologici”. Proprio in quanto tali e solo in quanto tali, in quanto testimoni di una tradizione (e tradere in latino significa “portare avanti”, “trasmettere”), possono/devono essere conservati.
Non è difficile comprendere, alla luce di questa importante “opposizione”: monumento/documento, perché le città entrino a pieno titolo nella casistica degli oggetti del patrimonio e dell’heritage. Se, come scriveva Victor Hugo, l’architettura è il gran libro dell’umanità, la città – lo scriveva Levi-Strauss – è addirittura la cosa umana per eccellenza. E qui non si può non sottolineare il ruolo importante che, tra gli anni Sessanta e Settanta del Novecento, la cultura italiana ha avuto nella costruzione di un discorso teorico, e a tratti perfino “scientifico”, sulla città e sugli elementi materiali che la costituiscono: sul rapporto tra tipologia edilizia e morfologia urbana; sulla forma e la relazione tra le parti di cui è composta; sull’idea di “monumento” che non è più guardato per le sue caratteristiche artistico-formali ma per la posizione che occupa nella città e per il ruolo di permanenza e di polarizzazione che assume. In quelle teorie si parlava della città come manufatto: uno “strumento” per la vita degli uomini fatto dagli uomini, come tanti altri strumenti costruiti. Un contributo importante. Ma siamo ancora lontani dall’idea di paesaggio urbano; anche se Aldo Rossi già nel 1966 parlava di memoria e di ritratti di città, di città analoga e di locus (oltre che del genius loci di cui parlava anche Christian Norberg Schultz): lo ha ricordato, quarant’anni dopo, Peter Eisenmann che ha sottolineato la capacità anticipatrice di Rossi rispetto alla costruzione dell’idea di un paesaggio urbano che si apre alla dimensione immateriale4.
Ma torniamo al tema del “documento”. Sappiamo tutti che la “dimensione” del patrimonio – una volta assunta la forma del “documento” – ha subito negli ultimi due secoli una impressionante amplificazione. I “monumenti” forse si possono contare, i documenti no, sono innumerevoli. Più dei monumenti i documenti possono essere riconosciuti come patrimonio da collettività molto piccole, perfino da un singolo individuo; i documenti assumono forme materiali diversissime, e non sono neanche necessariamente “materiali”5.
Quando si parlava di patrimonio pensando ai monumenti o finché si parlava di patrimonio pensando alle manifestazioni più stabili, più durevoli della cultura materiale (i centri storici per esempio), l’architettura e l’urbanistica erano in testa alla già folta schiera dei custodi della nozione di patrimonio. Man mano che l’idea di patrimonio si è estesa – e soprattutto da quando ha abbracciato una quantità di aspetti “immateriali” della cultura tradizionale – la sociologia, l’antropologia, le scienze umane nelle loro molteplici accezioni hanno conquistato immensi spazi d’azione e una grande autorità nella “costruzione del patrimonio” e nella sua “legittimazione”.
Si capisce allora perché le città, più e oltre che essere viste come “manufatti”, sono state viste come paesaggi in situ per eccellenza; e si capisce anche perché, molto più che i singoli monumenti/documenti, si propongano – come portatori di una specifica Stimmung – come emblema dell’heritage da ricevere, conservare e trasmettere. Ma a questo punto si aprono due questioni: una è legata al problema della classificazione, l’altra è legata al problema della legittimazione. E ambedue si incrociano con l’ambigua nozione di “paesaggio storico urbano”.
HUL (Historic Urban Landscape)
Il paesaggio della prima modernità era “altro dalla città”, quello della modernità industriale include la città nella sua forma “storicizzata” (quella che corre il rischio di essere cancellata dal progresso): nella post-modernità il concetto di città entra in crisi, entra in crisi l’idea della sua forma compiuta, entra in crisi la sua opposizione alla “campagna”, al territorio non urbanizzato. La città informale, la città generica fanno parte ormai dei “paesaggi urbani”. Cambia l’idea di spazio e cambia il ritmo del tempo: i cambiamenti si producono con una velocità sempre più accelerata.
Sappiamo dunque che oggi è difficile parlare di città e più difficile ancora è parlare di città storica, visto che l’accelerazione del tempo dei cambiamenti e il cambiamento dello stesso concetto di “storia” rende “storiche” sempre più cose (in Italia viene considerato “storico” qualsiasi edificio pubblico che abbia più di 50 anni; e il “centro storico di Napoli”, sito Unesco, comprende parti di città che si sono sviluppate nel Novecento) se poi invece che di città parliamo di paesaggio, è veramente difficile definire la “classe” dei paesaggi storici urbani, a meno che non si voglia pensare alla città storica come paesaggio in visu, (l’immagine della città storica) invece che come paesaggio in situ (la città come paesaggio da vivere e attraversare): ma questo sarebbe contrario all’idea stessa di paesaggio culturale …
Quanto alla legittimazione, a chi spetta definire quali e quanti sono i “paesaggi storici urbani” nel momento in cui la città non è più un organismo unitario e concluso? nel momento in cui alle logiche top-down si contrappongono le pratiche bottom up?6 nel momento in cui alla autorità culturale degli “storici urbani” si affiancano o si sostituiscono le parish maps delle comunità locali o gli itinerari delle multinazionali del turismo (moltiplicati, ambedue dalle straordinarie potenzialità delle ICT)?7.
L’idea di paesaggio urbano storico è dunque molto ambigua e si capisce perché sia “vista por multos como desnecessaria e redundante8. E per molti potrebbe essere anche pericoloso per la ricerca architettonica considerare il paesaggio urbano storico come una possibile enclave disciplinare: come la classe dei paesaggi culturali di cui l’architettura è legittimata a diventare l’authority principale.
Ma sappiamo dalle scienze della comunicazione che la “ridondanza” è una parte importante del messaggio, quella che spesso ne consente la comprensione; e sappiamo da Hölderlin che “lì dove c’è il pericolo c’è anche ciò che salva”. Partendo da queste due considerazioni, e questa è la tesi che propongo, ritengo che valga la pena di usare il concetto di paesaggio urbano storico, perché anche attraverso la decostruzione di questo termine l’architettura può contribuire alla costruzione del concetto di paesaggio culturale, provando a riempire un vuoto.
L’enorme vuoto che esiste tra il riconoscimento istituzionale che l’Unesco – con la sua Lista dei Siti Patrimonio dell’Umanità – attribuisce ai punti di eccellenza di una geografia e di una storia globali e il riconoscimento minuto e informale che piccole collettività costruiscono intorno a paesaggi locali, densi di bellezze, di memorie e di valori che anche altri (anche se magari non proprio tutta l’Umanità!) potrebbe riconoscere e condividere.
Riempire questo vuoto potrebbe anche contribuire a evitare le distorsioni contenute nei due estremi dell’opposizione locale/globale. Distorsioni di cui si discute molto, che hanno a che vedere con le due parole-simbolo della nostra condizione contemporanea dal punto di vista economico e dal punto di vista politico: mercato e democrazia.
Quanto incide sui meccanismi economici del turismo mondiale l’inclusione nella lista Unesco? La discussione è aperta, ma non c’è dubbio che l’appartenenza alla lista individua gli “hub” di una rete globale di eccellenza che incide sul mercato in molte forme; non c’è dubbio che, nel momento in cui questa lista diviene oggetto del mercato, il rischio di eterodirezione dei fini è molto forte; e non c’è dubbio soprattutto che la logica di un’authority mondiale garantisca una formale rappresentanza istituzionale top down ma sia incapace di gestire e di accogliere pratiche di riconoscimento non istituzionalizzate, bottom up.
Queste pratiche, d’altra parte, sembrano invece del tutto legittimate dalle considerazioni che vengono riportate nella Home page del sito della lista dell’Unesco a proposito del concetto di patrimonio: Patrimonio è ciò che abbiamo ereditato dalle generazioni passate, ciò in cui oggi viviamo, quello che lasceremo alle generazioni future. Gli elementi che compongono il patrimonio culturale e naturale sono insostituibili, fonte di vita e d’ispirazione. Tutti i luoghi sono unici e diversi.
In questo senso il fatto che delle piccole collettività, e perfino dei singoli individui, si riconoscano e si rappresentino attraverso l’appartenenza a un luogo e si dedichino alla sua valorizzazione ha molto a che fare con i principi base della democrazia. Ma il rischio che il legittimo discorso che mette in relazione paesaggio culturale e identità locale diventi chiusura, esclusione, localismo è molto forte. Si corre il rischio di costruire una nuova distanza tra gli abitanti e gli “altri”, incompatibile con l’idea contemporanea di paesaggio culturale. E su questo punto dice bene Marco Trisciuoglio: Questo riconoscimento dell’identità da parte dell’individuo o della comunità, serbando tutta la sua maggiore schiettezza rispetto all’identità preconizzata dalle istituzioni (attraverso la nozione di inalienabili “beni culturali”) deve tuttavia riuscire a fare il salto più importante: quello verso la comunicazione all’altro da sé che sono le altre e diverse comunità, gli altri e diversi individui9.
Sharing
Per dirla in breve: se il paesaggio culturale si definisce attraverso un’interpretazione, un “riconoscimento”, nella condizione contemporanea – in tempo di mercato e di democrazia – per cercare di evitare i “rischi” dell’uno e dell’altra dobbiamo ricorrere alla logica dello sharing.
Dentro il concetto ambiguo e potenzialmente pericoloso di paesaggio urbano storico sono contenute quasi tutte le contraddizioni, o potremmo dire meglio le “opposizioni”, che caratterizzano l’ordine del discorso (per usare l’espressione molto evocativa di Michel Foucault) sui paesaggi culturali tra globale e locale.
Queste tre parole messe in fila – paesaggio, urbano, storico – come in parte abbiamo visto, assumono un senso preciso solo se si accetta di ancorare ciascuno di loro a dei significati molto riduttivi, solo se si accetta una semplificazione schiacciante: tanto giustificabile quando viene usata dalle authority mondiali o sovranazionali (la Comunità Europea istituzionalizza Itinerari invece che Siti, ma il discorso è abbastanza simile) – quanto inaccettabile sul piano scientifico e culturale.
Se queste tre parole e le loro combinazioni vengono invece decostruite – come in parte abbiamo fatto finora discutendo della sola idea di paesaggio – la riflessione sui paesaggi urbani storici potrebbe diventare un luogo fertile anche per la cultura architettonica.
E allora, forse, se la cultura architettonica vuole continuare a contribuire alla costruzione del concetto di paesaggio culturale, potrebbe utilmente metterlo in contatto con l’ambiguità della città contemporanea, che mette in crisi per definizione la struttura lineare del paesaggio storico: che è contemporaneamente la polis greca, luogo di democrazia, la città dell’epoca post-antica, luogo del mercato, e la città generica, reticolare, informale, deterritorializzata del presente, hub materializzato della cultura della rete.
Tutte queste cose vengono ancora chiamate e riconosciute come città.
In più, la città è un concetto fortemente “politico” che garantisce una riconoscibilità istituzionale a livello globale; è il luogo delle forme istituzionali che riescono a tenere insieme società e comunità (Gesellschaft e Gemeinschaft). È nella città che la logica delle authorities più o meno legittimate può essere messa in crisi, nel senso migliore del temine. Perché lì il bottom up è più potente; perché lì la complessità e l’intreccio rendono più difficili le classificazioni a priori che tutelano ma anche uccidono la “diversità”.
Ma la città è anche una forma strutturale che garantisce “somiglianza” e “diversità” alle sue infinite manifestazioni materiali. E l’architettura è ancora legittimata a dare la sua versione sulle città (qualunque sia la loro definizione), sia perché il tema dei paesaggi culturali continua a incrociare le questioni formali, materiali, durevoli dei “fenomeni” urbani sia perché la cultura architettonica si confronta da sempre anche con quelli immateriali. Alcune città sono incluse nella lista Unesco ma dentro il loro stesso corpo, nella loro versione multiscalare, si possono scoprire tutti quei paesaggi informali, che non sono oggetto di uno sharing strutturato e ufficializzato, riconosciuti e condivisi solo da pochi “abitanti”; tutti quei paesaggi “intermedi”, di “soglia”, di “margine”, tutti quei paesaggi che ibridano natura e artificio, riconosciuti solo da chi vi appartiene e dai “viaggiatori curiosi e colti”.
Credo che questa operazione sia molto facilitata dall’esistenza delle reti (in tutte le loro forme); ma le reti non sono omogenee, alcune sono molto potenti e fatte di pochi punti: come le stelle più grandi del firmamento brillano molto, tutti le vedono e le loro geometrie relative disegnano figure che diventano simboli. Il firmamento è occupato però da un reticolo fittissimo di altre stelline, infinite: ma la loro luce è debole, sono invisibili e non costruiscono relazioni privilegiate; come la via Lattea sono visibili solo come “masse di punti accostati” che talvolta seguono una direzione. Queste stelline diventano individualmente visibili solo quando si trasformano in “supernove”, quando si bruciano, quando muoiono: e, fuor di metafora, non è difficile pensare ai tanti luoghi “invisibili” che vengono condivisi mediaticamente solo quando sono oggetto di una catastrofe, solo quando sono perduti.
Le reti non sono omogenee, dicevo: è evidente che le authorities praticano forme di sharing molto potenti (tanto potenti da diventare prepotenti, ordinative, come direbbe ancora Foucault); ma non c’è dubbio che la condizione reticolare nella quale ci muoviamo è un ambiente – verrebbe da dire un “paesaggio” – che rende possibile questa grande sfida culturale: misurare e abitare la distanza che separa la rete mondiale dalle reti locali.
Per raccogliere questa sfida non è possibile limitarsi a permettere alla rete minuta di esistere: bisogna aumentare le forme dello sharing, bisogna costruire relazioni il più possibile fitte tra la rete potente e quella debole; costruire percorsi che consentano al maggior numero di persone di passare da una rete all’altra, in ambedue i sensi, di saper interpretare il senso e i disegni della rete superiore e soprattutto di viaggiare dentro le reti intermedie, costruendo relazioni e disegni multiformi e molteplici, infiniti nuovi paesaggi culturali.
Per concludere: credo che la cultura architettonica debba conquistare un ruolo di authority nell’immenso spazio che oggi separa le liste elitarie del Patrimonio Mondiale e i tanti paesaggi locali distribuiti sulla superficie del mondo e che il concetto scivoloso e ambiguo di paesaggio urbano storico possa essere un utile punto di ingresso per affrontare questo compito.
La cultura architettonica deve essere capace di decostruire, articolare, ampliare questo concetto assegnando ai tre termini che compongono la definizione il loro significato più ampio, aggiornato e condiviso. Cosi lo spazio che separa globale e locale potrà essere finalmente riempito con infiniti paesaggi urbani storici che rappresenteranno le “stelle intermedie” nel firmamento dei paesaggi culturali, quelle che gli uomini riconoscono simili alle “stelle-guida” e che consentono a tutti di riconoscere alcune figure; ma anche quelle che consentono a ciascuno di intravedere figure diverse, di costruire in quel firmamento il proprio personale itinerario e di condividerlo con tutti quelli disponibili a riconoscerlo.


1.M. Jacob, Il paesaggio, Il Mulino, Bologna 2009, p. 125. Cfr. anche, dello stesso autore, Paesaggio e tempo, Meltemi, Roma 2009.
2.«Le pays, c’est, en quelque sorte, le degré zéro du paysage, ce qui précède son artialisation, qu’elle soit directe (in situ) ou indirecte (in visu)». A. Roger, Court traité du paysage, Gallimard, Paris 1997,p.18
3.Cfr. F. Choay, L’allegoria del patrimonio (1992), trad. it. Officina, Roma 1995.
4.“Il locus, come la permanenza, è un componente dell’artefatto individuale, determinato non soltanto dallo spazio ma anche da tempo, topografia e forma e, cosa più importante, dall’essere stato il sito di una successione di eventi sia antichi, sia più recenti. Per Rossi la città è teatro di eventi umani. Tale teatro non è più soltanto una rappresentazione: è una realtà. Assorbe eventi e sentimenti, e ogni nuovo evento contiene in sé la memoria del passato e la potenziale memoria del futuro. Il locus è dunque un sito che può accogliere una serie di eventi ma che allo stesso tempo costituisce di per sé un evento. È in questo senso un luogo unico e caratteristico, un locus solus”. P. Eisenman, Case della memoria, in Inside out, Scritti scelti 1963-1988, (2004), trad. it. Quodlibet, Macerata 2014, p. 228.
5. Il discorso sui documenti e sulla “documentalità”, che ha recentemente avuto una estesa trattazione soprattutto attraverso il contributo di Maurizio Ferraris, incrocia, seppur in modo trasversale, i termini del discorso sui paesaggi culturali. Cfr., in particolare, Documentalità. Perché è necessario lasciar tracce, Laterza, Roma-Bari 2009.
6.“Da criterio apparentemente insignificante nell’economia del Cyberspazio, oggi i luoghi stanno diventando la metafora più utilizzata per organizzare e ricercare l’informazione nel web, e anche una dimensione sempre più rilevante nei processi di costruzione ed espressione della propria identità in rete … Non stiamo assistendo semplicemente a un cambiamento nelle pratiche di mappatura o di visualizzazione dei dati geografici. La produzione di contenuti e conoscenza geografica attraverso il web e i social network sta di fatto modificando il modo con cui le persone conoscono e fanno esperienza dei luoghi producendo … le Net Localities: paesaggi ibridi di bit e atomi, di informazione e materia, nuovi spazi sociali in cui i confini tra flussi e luoghi, tra contesti remoti e contigui non possono essere più definiti con chiarezza e in cui le tecnologie location aware possono essere utilizzate in modo costruttivo per tessere legami tra persone, comunità e luoghi”. G. Bertone, S. Monaci, Gli strumenti ICT per la valorizzazione del paesaggio: dal cyberspazio all’ipermediazione dei luoghi, M. Trisciuoglio, M. Barosio, EGEA, Milano 2013, p. 215.
7.“Il turista investe tempo, sforzo e denaro per visitare luoghi e scenari dei quali possiede qualche notizia, ma le conoscenze del turista sono indotte dalla pubblicità diretta o indiretta … ha preso forma un immaginario turistico che, necessariamente, si basa su dei topici, ovvero su ‘luoghi comuni’ che è necessario ripetere affinché determinate immagini di luoghi, città e monumenti divengano immediatamente riconoscibili dalla maggior parte della popolazione mondiale”. J. Maderuelo, Iconografie del paesaggio: il territorio e l’immaginario, in I paesaggi culturali, cit., p. 100.
8.Questo giudizio rappresentava una delle premesse di un Colloquio organizzato recentemente dall’Università di Belo Horizonte in collaborazione con il locale Ministero della Cultura, in cui il concetto di Historic Urban Landscape è stato messo in discussione, in una prospettiva non eurocentrica.
9.9M. Trisciuoglio, L’abitante e il viaggiatore, in I paesaggi culturali, cit., p. 19.