Il design tra «radicale» e «commerciale»

GABRIELLA D’AMATO
Lampadine colorate, archi, cornici, laminati stampati a macchie di leopardo, attaccapanni totemici, fili in tensione, superfici laccate con colori aggressivi o tenerissimi e dappertutto una profusione di decorazione e colori: sono gli ingredienti del più attuale design apparso nelle recenti mostre del settore. Ma in che cosa consiste questa linea di design da alcuni battezzata post-radicale, da altri Neomodern, da altri ancora New International Style e per la quale sicuramente altri nomi non tarderanno a venire?

Innanzitutto va precisato che il Neomodern affonda le sue radici in quel radical-design sorto all’indomani del Sessantotto e protrattosi più o meno fino alla metà degli anni Settanta; e, benché questo tema sia stato oggetto di una rassegna nel n. 26 della nostra rivista, riteniamo utile, in questa sede, richiamarne alcuni concetti fondamentali.
Il radical-design o contro-design nasceva con aspetti e modi in linea col fenomeno delle avanguardie degli anni Sessanta generalmente ad opera di giovani architetti formatisi nel clima della contestazione studentesca e trovatisi all’indomani della laurea in una realtà di aperta crisi professionale.
Quindi già dall’inizio si faceva portatore di un’aporia di fondo: da m Iato, infatti, costituiva uno sbocco verso settori disciplinari fin aperti e praticabili — e come tali esulanti, per le loro implicazioni con la pratica, dalla nozione specifica di avan-guardia — e dall’altro si poneva come atto di contestazione al sistema perciò riconducibile proprio al discorso delle avanguardie.
Infatti, come si notava in quegli anni, consciamente o no il modello a cui si fa riferimento è quello del designer-artista, che con un ruolo culturale d’avanguardia crea nuove sollecitazioni secondo un procedimento di novità e provocazioni tipico delle arti figurative. Il radical-design si presentava pertanto con una tale varietà di atteggiamenti da renderne difficile una definizione, tuttavia tra le sue caratteristiche esponenti vi erano quella di caricare l’oggetto di significati in maniera formalmente provocatoria e di rivendicare un’area creativa in cui esercitare l’invenzione poetica al di fuori di paralizzanti considerazioni funzionalistiche.
Intenzioni, queste, che mentre nello specifico disciplinare si muovevano contro tutta la linea di design scaturita dal Bauhaus in poi, erano più in generale conformi al concetto di liberazione dell’uomo da una cultura tradizionale, concetto di cui si erano, peraltro, resi portavoce i protagonisti della pop art, dell’arte concettuale, di quella comportamentistica, della land art, ecc.
In altre parole il radical-design tentava in maniera più o meno lucida e contraddittoria di superare il discorso disciplinare del design, cioè la ricomposizione delle contraddizioni a livello formale, distruggendo proprio a questo livello l’abituale immagine del prodotto, negando l’elargizione di una correttezza formale in grado di appagare nei termini obsoleti del «buon gusto».
Si progettavano, quindi, nei casi più eversivi, mobili dall’uso impossibile e dalla chiara discendenza dadaista: sedie zoppe, tavoli inginocchiati, letti chiodati ma, almeno in un primo tempo, i modi di manifestazione del radical-design non si limitavano alla sola produzione di oggetti, avvalendosi peraltro di scritti teorici, immagini, filmati, happenings.
Gli oggetti, anzi, come notava Raggi, rappresentano solo gli aspetti commercialmente assorbibili dal mercato, che tra l’altro li può ancora una volta recuperare come «mode», ma sono solamente le punte e neanche le più aguzze e incisive dell’iceberg che ha come dato originale comune lo stato di disagio politico-esistenziale che… è l’espressione più istintiva e immediata della crisi generale di valori in cui si dibatte la coscienza della società moderna, tutta protesa attraverso la religione dei consumi e della produzione all’autodistruzione e all’annullamento.
Intanto, alcune tra le più note e specializzate riviste di architettura, tra cui spicca la «Casabella» diretta da Mendini, si facevano portavoce del dibattito sul radical-design e sui suoi interpreti. Questi ultimi, generalmente riuniti in gruppo, si chiamavano Archizoom, 9999, Ufo, Superstudio, oppure erano autori singoli come Ettore Sottsass jr., Ugo La Pietra, Gaetano Pesce, Gianni Pettena, Riccardo Dalisi, Alessandro Mendini. Benché accomunati da una stessa ideologia di fondo, le loro ricerche erano svariatissime.
Sottsass infatti era curiosamente in bilico tra la rigorosa razionalità di design di produzione per la Olivetti e la libera ricerca di una poetica liberatoria, gli Archizoom si facevano portatori di un’utopia negativa, Pettena batteva la via del concettualismo, gli Ufo quella del comportamentismo, Dalisi quella delle tecniche povere, ecc.
Fin qui, sia pur in termini molto schematici, il radical-design; a questo punto però va preso atto che da un certo momento in poi esso perde la sua carica eversiva e dissacratoria. Infatti gli operatori, vuoi perché non credono più che mediante il design si possano attuare rifondazioni totalizzanti ed estranee allo specifico progettuale, vuoi perché l’allettamento di una professionalità conquistata proprio con l’autoreclame di gesti provocatori è più forte di un elitario e scomodo predicare nel deserto, tendono ad aggiustare il proprio tiro nella direzione di una prassi progettuale in collusione col mondo produttivo.
Si passa così dal radical-design a quello che viene denominato Neomodern, più o meno con gli stessi progettisti, salvo qualche aggiunta di nuove leve e taluni mutamenti di formazione.
Il Neomodern tuttavia si presenta con modi e tecniche molto diverse dal radical-design innanzitutto perché, a fronte di quella «distruzione dell’oggetto» insistentemente perse-dal progetto dell’ideologia «radical», sembra ormai essersi saldamente insediato una sorta di disinibito e felice all’affabulazione descrittiva, alla testualità, insomma dell’oggetto, indagata fin dentro le squame della sua pelle decorata.
Abbandonata infatti l’interdisciplinarietà, questi oggetti piuttosto occupano zone infradisciplinari, innescano pratiche interstiziali, evitano soprattutto i perniciosi moralismi di nostalgici progetti di rifondazione e di sintesi. Per alcuni le ragioni di tale mutamento di rotta consisterebbero nel fatto che molte delle premesse su cui si fondava il radical-design si erano rivelate inesistenti: prime fra tutte la creatività e la manualità appannaggio di una classe proletaria mai formatasi.
Inoltre come nota Mendini le istanze radicali… prevedevano una specie di congiunzione tra la progettazione coltissima e il sottoproletariato ed esiste invece la progettazione di massa perché l’intellettuale si va a perdere; la progettazione diretta da parte della massa si è rivelata un’illusione in più, esistono invece una progettazione indiretta e un progettista piccolo borghese.
Di fronte alle innumerevoli delusioni, contraddizioni e crisi del mondo contemporaneo, il design neomoderno reagisce, quindi, indicando un infinito mondo, forse capovolto di oggetti tutti da inventare… oggetti non solo giusti, necessari, austeri, antiautoritari ma pure fantasiosi, allegri, creativi, meditativi, divertenti da comperare, vendere, scambiare, prestare, regalare, distruggere.
Nascono così tavoli con basi in legno laminato e piani d’appoggio in cristallo sorretti da gambe contorte da misteriose energie, centrotavola in celluloide colorata sfacciatamente, lampade smaltate a forma di puntaspilli oppure di stilizzati steli rampicanti, letti a forma di ring dalle corde colorate e la base zebrata, «mobili infiniti » composti da una teoria di elementi che si snodano attraverso gli ambienti e sui quali ci si può sbizzarrire col calcolo combinatorio; insomma si assiste a tutto un universo di riferimenti tratti dalle immagini del mondo contemporaneo:
il paesaggio suburbano, il caotico scintillio del luna-park e del circo, i laboratori spaziali, i giocattoli dei bambini, i colori delle caramelle, dei maquillages e della «moda giovane», il tutto in forme essenziali, assemblate senza complicati nodi strutturali, oppure acute, pungenti, composte al limite dell’equilibrio, o ancora antropomorfe, zoomorfe e monumentali.
Nel suo complesso — scrive Raggi — il Neomodern stabilisce una analogia tra design e moda (fashion) assumendo la variabilità e la mutazione continua degli stilemi come un dato di comportamento accettabile. In contrasto all’elitario concetto di «stile» che è «hard» la moda è un comportamento «soft». Lo stile tende all’assoluto, la moda alla relatività. Non a caso nella presentazione al pubblico di alcuni prodotti del design Neomodern si preferisce parlare di «collezione» e quasi di sfilata, nelle quali stagione dopo stagione le forme si alternano velocemente (e questo anche per dire che i prodotti non sono «definitivi»).
Pescando nel Pop, nel Kitsch, nella Banalità, nella storia il neomodern-design offre una immagine di rinnovamento alla quale riassumendo attribuirei la seguente serie di caratteri: Acido, Decorativo, Discontinuo, Ebete, Episodico, Individuale, Inclusivo, Irritante, Ironico, Isolato, Ludico, Metafisico, Ottimista, Paradossale, Poetico, Pop, Rituale, Schizofrenico, Sconveniente, Sereno, Simbolico, Solitario, Tollerante.
Il Neomodern si presenta oggi come una tendenza culturale vastamente diffusa in campo internazionale, tanto da provocare dei fenomeni indotti anche nel settore della produzione «ufficiale». Noi però ci occuperemo in questa sede delle sue manifestazioni in Italia, dove si coagula intorno ai due « studi» milanesi Alchimia e Memphis la cui linea sta diventando un punto di riferimento sempre più condiviso e imitato.
Alchimia è una fortunata iniziativa commerciale che, all’insegna della denominazione «Studio di progettazione di immagini del XX secolo», attua nel senso più ampio possibile i progetti e i programmi del design sperimentale d’avanguardia.
L’attività di questo singolare studio, fondato nel 77 da Alessandro Guerriero, non è univocamente definibile: da una parte, infatti, progetta, manipola, ridisegna e produce in piccola serie arredi «firmati»; dall’altra «vende e diffonde idee» con mostre (tra le quali ricordiamo quelle di Ferrara, 1978; Milano, 1979; Linz e Venezia, 1980), pubblicazioni e con una serie di operazioni d’architettura eterogenee, spesso contraddittorie, a volte paradossali.
Un progetto diventa una mostra, mostra un libro, un disegno diventa progetto. Lo studio si struttura in due raggruppamenti: uno interno coordinato dallo stesso Guerriero che si avvale di giovani progettisti tra cui Stefano Bianchi, Donatella Biffi, Bruno e Giorgio Gregori, Mauro Panzeri; ed uno esterno, mobile e fluttuante in cui di volta in volta si avvicendano architetti e designers come Sottsass, Mendini, Branzi, Raggi, Navone, ecc.
Pertanto, seguendo il cliché dell’alta moda, Alchimia sfoggia collezioni annuali l’ultima delle quali, «il Mobile infinito», ha richiesto uno staff di progettisti da kolossal hollywoodiano ed è stato letteralmente «rappresentata » nel cortile del Politecnico di Milano, per poi passare al Piper dì Roma e a Londra, con una didascalia di accompagnamento che con le varie voci: Progetto, Coordinamento, Decori, Regia, Scenografia, Lampade-ombra, ecc., sfida i titoli di testa di un film.
Per questa sorta di «puzzle domestico», come lo hanno definito alcuni, costituito da quattordici elementi (sedia, tavolo, letto, angoliera, ecc.) dalle superfici scure e magnetizzate sulle quali si applicano le più svariate decorazioni, hanno lavorato circa trenta fra architetti e designers.
Ne è risultato un progetto eclettico, complesso, spostato rispetto ai metodi di progettazione tradizionale… punto d’incontro voluto e casuale ad un tempo di transiti mentali, progettuali, filosofici, artistici, artigianali, teatrali, di un insieme di individui che operano nel campo dell’architettura, design, arte e teatro in questi anni.
Mendini, l’ideatore, sottolinea l’istanza dinamica che ne è alla base e che scardina completamente il concetto statico e rassicurante del «mobile reale». Il mobile infinito — egli sostiene — propone un concetto disomogeneo dell’arredo, perché afferma che gli oggetti dentro la casa sono un accumulo, una foresta, un groviglio di avvenire e di passioni.
Il nome Memphis contraddistingue una società di recentissima formazione e dalle idee molto chiare sulla produzione e diffusione a scala internazionale di arredi per un nuovo modo di immaginare la casa e gli oggetti di tutti i giorni.
Circa il nome, evocatore di due luoghi differenti per tempo e cultura, non è certo se la fonte d’ispirazione sia stata Memphis, capitale dell’antico Egitto dove sorgeva il grande tempio del dio Ptah, «l’artista fra gli dei» oppure Memphis nel Tennessee, terra di blues e di canzoni, di rock and rolle di periferia urbana americana, di tutto quel contesto socioculturale, cioè, che da tempo affascina l’ideatore dell’iniziativa, Ettore Sottsass al quale si sono uniti produttori di mobili, titolari di negozi di arredamento e i contributi di numerosi operatori culturali, artisti e critici.
Per la prima collezione di trenta pezzi sperimentali sono stati chiamati a progettare, oltre ad artisti italiani (Andrea Branzi, Aldo Cibic, Michele De Lucchi, Alessandro Mendini, Paola Navone, Bruno Gregori, Marco Zanini), designers stranieri come Michael Graves, Hans Hollein, Arata Isozaki, Shiro Kuramata.
Di qui scaturisce la caratteristica peculiare di Memphis, la sua internazionalità, che ha funzionato da cartina di tornasole per verificare come più o meno in tutto il mondo, anche se con precedenti culturali e previsioni diverse, esiste un desiderio irreprimibile di caricare il design di valori e di uno spessore comunicativo sempre più densi, come se il design ideologicamente schematico e quella che è stata per tanto tempo l’utopia di una possibile soluzione progettuale compatta e semplice non riuscissero più a rispondere a quelle che sono invece la mobilità sociale, le necessità pubbliche, la spinta storica.
A questo punto, però, sarà meglio entrare maggiormente nel merito del design neomoderno analizzando la produzione di personaggi e tendenze peraltro molto diversificate in un ambito propositivo abbastanza omogeneo.
Ettore Sottsass — «capo storico» del radicai design — che già negli anni Cinquanta, mediante l’uso prepotente del colore, cercava di prendere le distanze dal design ufficiale, tende ora a dimostrare come tra gli objets trouvés di un’architettura popolare ci possono essere anche dei moduli razionalisti, dei parallelepipedi, dei piedestalli massicci.
Ci propone quindi due diverse morfologie sovente mescolate fra loro: quella dove domina un massiccio equilibrio ottenuto con tozze zoccolature, in cui si incastrano poderosi montanti parallelepipedi e mensole dall’esagerato spessore, e quella affidata ad un inquietante squilibrio di serpeggianti strutture o ad elementi assemblati secondo angolature che favorire slittamenti e cadute di oggetti e persone.
I suoi mobili, come sostiene egli stesso, non stanno quasi da nessuna parte e comunque non «legano», non possono neanche produrre coordinati. Stanno soltanto da soli come i monumenti nelle piazze, e non riescono neanche a fare stile… Li decora con brandelli dell’iconografia delle culture popolari o con spunti tratti dal mondo animale (reti stirate, graniglia dei gabinetti pubblici, maculate pelli di serpente, colorate colture batteriche) non contaminati dagli schemi del buon gusto corrente.
Gli piacerebbe proporre una iconografia della non cultura, di una cultura di nessuno (non di una cultura dell’anonimo) ma l’iconografia di una cultura della cultura non usata e non usabile, non perché non c’è, neanche perché non si usa, ma perché non si guarda, perché non si prende in considerazione, perché non c’entra, perché non sembra esìstere nella cultura che si sa, e forse addirittura non produce cultura.
Alessandro Mendini, direttore di « Casabella » dal 71 al ’76 e ora di «Domus» e «Modo», un intellettuale sofisticato e ininterrottamente «diviso» tra la professionalità che indossa come una pelle con disinvoltura e il ruolo di fantasista che ha scelto dì giocare, sadico, ma anche ottimista e lucido fino in fondo, smessi gli atteggiamenti del tempo radicai quando incendiava sedie e progettava valige per l’ultimo viaggio o lampade senza luce, da alcuni anni interpreta il design come risemantizzazione del quotidiano in una forma da lui definita «Banal design».
Come progettista opera mediante due tipi di ridesign: quello su arredi famosi dei Maestri (Rietveld, Thonet, Colombo, Breuer, ecc.) e quello su oggetti di tutti i giorni, credenze, scrivanie, sedie, rinvenuti dal rigattiere e sui quali egli applica rosee nuvolette di plastica, decori alla Kandinsky, oppure macchie alla Seurat come nel caso della scocca in falso barocco piemontese e della tappezzeria dell’immaginaria poltrona di Proust da lui disegnata per Alchimia (1977).
La situazione vive di uno slittamento continuo per cui se su una credenza acquistata da un robivecchi si dipinge un Kandinsky, la credenza diventa ancora più banale e il Kandinsky ancora più Kandinsky; lo stesso vale per gli interventi su Rietveld, Breuer, ecc., e in altro modo per gli interventi su oggetti neutri d’uso comune come tostapani, posaceneri e lampadine con palline, bandierine e colorini che ne celebrano la quotidianità.
Andrea Branzi, ex Archizoom, dopo aver teorizzato proposte integrali quali il primo modello di città senza architettura, No-Stop-City, tenta ora una rifondazione dell’architettura partendo dal microcosmo decorativo delle arti applicate a cui si dedica dall’inizio degli anni Settanta.
Perciò si occupa di ricamo, come tanti grandi architetti da Morris a van de Velde a Le Corbusier, a Nizzoli e a Ponti, giudicandolo un atto costruttivo lento e individuale, che incastona il segno con tanti atti ripetitivi, in cui ogni centimetro quadrato corrisponde a ore di lavoro, genera un manufatto che non è né grafica né pittura, né d’arredamento, ma piuttosto una sorta di circuito energetico stampato che esalta il segno con una radiazione simile a quella dei mosaici, dove la lentezza della costruzione diventa qualità semantica.
Su un altro fronte la sua produzione di arredi: il Mobile-bar-Milano, la Libreria-Libera, la Chaise-Longue-Ginger, si fonda su accostamenti di forme semplici, piani, lastre, coni rovesciati, fili in tensione in una composizione di rete e semicerchi che rimandano a taluni stilemi novecenteschi anche se l’inevitabile ricorso alla memoria non si traduce… in venerazione antiquaria della storia. Anzi il passato è volutamente «tradito» per amore del presente.
Interessante sul piano della ricerca coloristica e decorativa è il lavoro di Paola Navone da qualche tempo sperimentatrice di nuovi stampati per laminati plastici: cerca «un’identità» fantastica e gioiosa per « gli artificiali » finora soffocati da un complesso d’inferiorità nei riguardi di quelli naturali e quindi in continua competizione mimetica con essi.
E poi ci sono ancora gli Ufo (Lapo Binazzi e Sandro Bachi) con le loro divertenti lampade-parodia del dollaro e delle sigle cinematografiche della MGM e della Paramount; Michele De Lucchi progettista di una serie di elettrodomestici colorati all’insegna di un design «amabile e gentile»; Trix e Robert Haussmann che manieristicamente interpretano una forma prescelta (ad esempio una colonna) cambiandone la scala, la funzione (può diventare un mobile coi cassetti) e la decorazione; per non parlare dei recentissimi contributi della mostra Memphis: i contenitori di Shiro Kuramata appollaiati su lunghissime gambe, gli orologi maculati come serpenti di Walt Disney di George James Sowden, la monumentale toilette di Michael Graves, i tavoli a piramide rovesciata di Hans Hollein.
Ma più che continuare in questa rassegna di prodotti del Neomodern preferiamo soffermarci su alcune posizioni teoriche che ne costituiscono, per così dire, la filosofia.
Alessandro Mendini propone il «Banale», sorta di punto d’incontro — all’interno di un ipotetico mondo «piccolo borghese» — delle istanze, ambedue fallimentari, di un progetto elitario e demiurgico e di uno proletario che, con le sue speranze di manualità e di fantasia, in pratica non si è mai verificato.
Non resta quindi, a suo parere, che rifugiarsi nel mondo infinito della «fantasia banale» dell’uomo di massa con tutto il suo repertorio di Kitsch. Il Banale, quindi, con il suo impossibile obiettivo di «qualità alla rovescia», è un fatto politico direttamente legato alla forza della classe media, è il mezzo delle masse popolari per riappropriarsi delle arti. Il banale piace all’uomo di massa perché è fatto da lui stesso; perché è un fenomeno di quantità per definizione, perché ha il merito di rifiutare l’isolata intelligenza del capolavoro.
Ma proprio perché capace di instaurare, ora per ora, le relazioni assieme «vere e false» dell’uomo con gli oggetti che usa e che lo circondano, il banale rivela di essere quella certa estetica, quella reale capacità creativa, quel modello formale che si stabilisce davvero nel maggior numero di individui.
La posizione di Sottsass, invece, stando alle sue parole che hanno accompagnato il varo di Memphis, potrebbe essere definita «la consapevolezza dell’eclettismo». Paragonandosi infatti ironicamente ad un esploratore che, oramai forte della sua esperienza, può addentrarsi in mari e giungle ostili, egli ci indica il punto d’arrivo di una ricerca espressiva intesa alla progressiva liberazione da ogni impaccio e costrizione modernista di cui è stato il caposcuola.
Adesso — sostiene — possiamo finalmente procedere con passo leggero, il peggio è passato. Possiamo anche sederci senza troppo pericolo e possiamo lasciarci scivolare addosso serpenti anche se velenosi e ragni oscuri, possiamo anche evitare zanzare e possiamo benissimo mangiare carne di coccodrillo; senza escludere del resto le cioccolate con la panna e crèpes suzettes al Grand Marnier… Il fatto è che ci è passata la paura: voglio dire la paura di dover rappresentare o di non dover rappresentare qualche cosa o qualcuno, siano élites o derelitti, siano tradizioni o cafonaggini.
Ci è passata la paura che ci manda il passato e anche quella più aggressiva che ci manda il futuro.
C’è poi chi come Andrea Branzi, parla di «nuovo artigianato» a proposito dei modi di lavorazione e produzione in piccola serie dei prodotti Alchimia e Memphis.
Un «nuovo artigianato» che si avvale di tecniche costruttive aggiornate che abbassano i tempi di lavorazione rispetto a quello tradizionale e nel contempo funge da luogo sperimentale sia nei riguardi del mercato che verso gli aggiustamenti e le modifiche inevitabili nella produzione in serie che esso non contrasta polemicamente, ma anzi anticipa e favorisce.
Tale operazione è dovuta in gran parte — come nota acutamente Branzi — al fatto che nell’attuale produzione industriale del mobile l’aggettivo «industriale» indica più uno stile che una reale produzione di serie per cui il «nuovo artigianato» si colloca all’interno dell’intero quadro di produzione dell’arredo industriale con una propria funzionalità culturale e tecnica che chiarisce molti equivoci diffusi: proponendo il «pezzo-fuori-serie» risponde ad una domanda crescente di oggetti che «fanno arredamento» nel senso più figurativo del termine, a confronto con una produzione di serie sempre più omologa e anonima.
È evidente a questo punto che, quali che ne siano le tecniche di lavorazione, il Neomodern tende a colludere sempre più strettamente con l’industria e il mercato. Collusione dalla quale, benché con esiti più modesti, non si salvava neanche l’eversivo radical-design, che, malgrado le proprie istanze ideologiche avverse al consumismo, agli status symbols, e alla mercificazione in genere, finì, col trovare proprio nel pubblico più facoltoso il fruitore dei suoi oggetti divenuti costosissimi una volta entrati nel ciclo produttivo dell’industria.
È chiaro — notavano giustamente, all’indomani di questa operazione, Paola Navone e Bruno Orlandoni — che tutto il fenomeno del cosiddetto controdesign d’avanguardia italiano ha trovato proprio nelle tendenze e nelle strutturazioni interne del mercato la condizione indispensabile alla propria sopravvivenza.
È infatti plausibile una lettura di questo fenomeno… nei termini di una vasta, precisa operazione pubblicitaria e promozionale interna ad un momento di espansione dei consumi o di organizzazione di questa espansione. Ora, se l’industria, con la sua logica cinica, inglobò nella sua produzione gli oggetti eversivi del radical-design, che costituivano comunque una novità commerciale, bisogna pur dire che gli operatori di quel design da sempre «strizzavano l’occhio» all’industria malgrado le professate ideologie contestatrici.
Se c’è qualcosa di cambiato attualmente è l’intesa uscita allo scoperto e divenuta programmatica. Gli aspetti dell’odierno design neomoderno, infatti — come scrive Barbara Radice — oltre che cambiamenti nel panorama domestico privato, prevedono e suggeriscono anche un mutamento di base degli atteggiamenti manageriali e della logica tradizionale dell’industria.
Non necessariamente l’industria continuerà a percorrere una specie di fissazione entropica dell’immagine o potrà sempre costringerla ad aderire come una pelle stretta alla sua logica acida.
Può anche succedere che la forza delle immagini, l’utopia pubblica, il destino pubblico costringano l’industria a fissarsi e a registrarsi sull’opulenza dell’immagine… e che la cultura industriale finisca con l’accettare il « funzionale » non tanto come aderenza ai processi produttivi previsti o come riduzione paranoica dei costi o come possibilità di diffusione planetaria o come soluzione esistenziale integrale e immediata ma come « quantità » immaginifica, carica metaforica, sofisticazione linguistica.
Pertanto proprio l’immissione dei mobili del design d’avanguardia nei circuiti commerciali è una questione che solleva non pochi nodi problematici. Già nel 75 quando si assisteva alla prima commercializzazione dei cosiddetti «mobili impossibili», Dorfles, pur apprezzando l’aspetto sociologico dell’operazione, emetteva alcuni giudizi molto calibrati sull’intero fenomeno: un giudizio solo parzialmente positivo se li consideriamo (i mobili del radical-design) alla stregua di «opere d’arte concettuale»;
poiché in questo caso avrebbero dovuto rimanere allo stadio di progetto e non tradursi in vere e proprie realizzazioni che come tali saranno acquistate, magari a caro prezzo, e non potranno servire che a mistificare maggiormente la coscienza arredatrice della grassa borghesia; e un giudizio negativo se ancora una volta, questi mobili si tradurranno in feticci, come è accaduto per tante opere d’arte (o di non arte) del nostro tempo, dove il «valore d’uso» è andato del tutto perduto a favore di un valore di scambio sempre più ferocemente incalzante.
Il discorso di Dorfles ci sembra mettere in luce un punto fondamentale circa il fenomeno del radical-design e derivati: quello, cioè, della sua perdita di un ruolo d’avanguardia una volta entrato in collusione con la prassi. A tal proposito, peraltro, è indicativo quanto scrive De Fusco sul rapporto tra sperimentalismo e avanguardia nella storia dell’architettura moderna dimostrando come per l’architettura realizzata (ma lo stesso ragionamento lo possiamo applicare anche al design) non si possa parlare di vera e propria avanguardia nei termini di quella letteraria e figurativa.
Infatti, come precisa l’autore, se si parte dall’ovvia constatazione che non si attua nessun edificio al di fuori di alcune condizioni socio-economiche, indipendentemente da una qualsiasi normativa e ignorando le esigenze della committenza (fattori tutti contro i quali si appunta l’avanguardia) risulta che quella valenza gratuita, quella reale o apparente mancanza di senso, così frequente nelle esperienze dell’avanguardia, è inesprimibile in architettura. Al limite, seguendo una rigorosa idea dell’avanguardia, possiamo dire che per il fatto stesso di attuarsi in edifici l’architettura non può entrare nel fenomeno di cui ci occupiamo.
Comunque, alla luce di tali riflessioni, è evidente che particolarmente ora è improprio parlare di avanguardia — come da più parti si continua ad insistere — per il Neomodern. Del resto alcuni critici più avvertiti notano l’ambigua posizione tra avanguardia e mercificazione di questo tipo di design; Koenig, ad esempio, interpretando il passaggio dal radical-design al Neomodern in termini di teoria dell’informazione, scrive: Gli oggetti degli avanguardisti davano un alto numero di informazioni, ovvero presentavano una grossa emergenza — quasi uno scandalo estetico —, che si pagava riducendo al minimo (quasi al pezzo unico) la loro capacità di diffusione.
Ciononostante, qualche permanenza l’avevano; altrimenti sarebbero stati oggetti misteriosi, incomunicabili. Ebbene, è bastato insistere su questa permanenza, cancellando la carica eversiva originaria, per ribaltare, a mo’ di boomerang, la traiettoria dei proiettili sparati dall’avanguardia.
Questi mobili sono diventati delle novità comprensibili anche dalla massaia di Treviso in vena di rinnovamenti casalinghi, o dal bracciante lucano diventato imprenditore cittadino. Invece di colpire il consumismo imperante, si è fatto un servizio al più imbecille, restando con un palmo di naso.
Almeno ci si fosse arricchiti — ogni anima ha il suo prezzo — e invece no. Le ditte che hanno appoggiato l’avanguardia hanno fatto la parte di Mecenate mentre i furbetti e i desìgners più caserecci si godono le royalties (e, lavorando per i petrolieri, il termine calza perfettamente).
È possibile opporsi a questa mercificazione a così basso livello? Un possibile tentativo appare quello operato dalla Memphis, che ha chiamato a raccolta i migliori designers dell’avanguardia mondiale, commissionando loro una serie di mobili che dovrebbero avere la seguente caratteristica: abbassare il tasso d’informazione a vantaggio della capacità di diffusione, in modo da garantire un possibile numero di «giusti consumatori»… È un’operazione rischiosa, e come tutti i compromessi può finire in vacca lo stesso.
E da due parti: o restare egualmente avanguardia, per giunta di serie B (come gli hippies di Empoli) oppure automercificarsi. Col che la Memphis, mercé il Dìoquattrino, si salverebbe; non altrettanto, invece, il povero progettista. Il quale è come Pigmalione: non ha potere sul buono o cattivo uso che si fa del suo progetto.
Per parte nostra, per esprimere un giudizio ovviamente provvisorio, ci rifacciamo alla filosofia classica del design. Questa, com’è noto, attraverso un progetto rigoroso di oggetti particolarmente adatti alla lavorazione meccanica puntava alla qualificazione della quantità, a dare un prodotto che fosse esteticamente valido quanto economico. Questa filosofia è fallita tra l’altro perché il pubblico non ha mai accolto la quantificazione di quei rigorosi prototipi che battezzava «sedie da ospedale ».
Di fronte a tale resistenza l’industria si rifugiava nello styling perché gli oggetti fossero più graditi, oppure — secondo la teoria che il valore fosse legato all’alto costo — produceva sì i classici del design caricandoli tuttavia appunto di un prezzo eccessivo.
Attualmente essa sembra unificare i due espedienti: infatti, mentre mantiene alto il prezzo dei mobili neomoderni (accreditandoli del loro valore di scambio) in pari tempo li usa come una sorta di neostyling nel senso che si ritiene soddisfino maggiormente il bisogno dell’immaginario popolare. E, comunque, anche se tali prodotti entrano o entreranno nel suo ciclo lavorativo, non importa tanto il loro successo quanto l’arricchimento del catalogo che in tutti i casi comportano.
Pertanto, sul versante della progettazione, le proposte attuali del Neomodern trovano la loro maggiore giustificazione nel fatto di condividere il giudizio sui «mobili da ospedale» e di venire incontro alle esigenze del decorativo, del kitsch, degli stilemi che il grosso pubblico non ha mai cessato di amare.
Ora, sospendendo il giudizio estetico sui vari prodotti Alchimia e Memphis, questi avranno un senso se, concedendo al gusto del pubblico, saranno in grado di spiazzare i cosiddetti «mobili canturin» — vero emblema del kitsch nazionale — con oggetti che siano al tempo stesso graditi al pubblico e comunque portatori di una cultura figurativa più recente (i revival, la pop art, l’happening, ecc.).
Se essi viceversa supereranno tale prova e resteranno ancora una volta prototipi costosi, allora si porrà l’interrogativo se continuare a scegliere «l’artigianale» e carissima «Barcellona» di Mies, che comunque aveva una sua motivazione e una sua premessa, ovvero la poltrona «Proust» che resta lo stesso carissima, dice di intervenire sul kitsch, ma forse non riesce che a rimanere tale.
D’altra parte nell’ibrido panorama della ricerca attuale va dato atto che, a parità d’ironia e di dissacrazione, se in architettura l’ultima trovata espressiva sembra essere quella del postmoderno, o più correttamente del premoderno, al confronto l’operazione del design ci pare più significativa e vitalistica. Infatti mentre la prima si rifà a una storia senza luogo e senza tempo, il Neomodern trae solo spunti dalla «tradizione del nuovo» e comunque punta più sull’invenzione e la fantasia che sulla stessa manipolazione storica.
Ma, ripensandoci, in questo clima in cui praticamente agli operatori tutto è permesso, perché il critico dovrebbe sospendere il giudizio? Per contro come affrancarlo dall’inibizione ad esprimersi quando è stato giustamente osservato che parlare di kitsch è kitsch?
tratto dal numero 53