La post-avanguardia

MARIANTONIETTA PICONE PETRUSA
Dai tempi di Hegel la formula della «morte dell’arte» ha avuto una straordinaria fortuna, accompagnando fino ad oggi le sorti dell’avanguardia. Questa, anzi, si è nutrita di ciò, contrapponendosi ad ogni forma di arte ufficiale e celebrando la corrosione sistematica di tutti gli stereotipi artistici fino all’abolizione dello stesso oggetto d’arte.
L’avanguardia tende alla «morte dell’arte» — scrive Fortini — distruggendo la comunicazione (pseudo-afasie, linguaggi criptici) o identificandola con qualsiasi atto pratico; sostituendo il comportamento all’opera: esaltando i prodotti culturali di massa o il kitsch. Anzi secondo Pedullà, le avanguardie tendono al suicidio. E in realtà è da più di un secolo che l’avanguardia interpreta la parte della moribonda, e di questo vive.
Tuttavia la morte dell’arte nel sistema filosofico di Hegel doveva avvenire con la confluenza di questa nella filosofia e dunque nella speculazione dell’Idea Assoluta con la cessazione della bellezza come forma sensibile dell’Idea. I vari filoni dell’avanguardia — pur facendo le debite differenze — si sono adoperati a dare credibilità a questo assunto ereditando proprio dalla filosofia idealistica l’attitudine a spostare il discorso dal suo specifico «sensibile» appunto all’Idea.
È il fenomeno — già rilevato ampiamente a livello di teoria dell’arte — che Argan ha in varie occasioni sottolineato come passaggio dall’artistico all’estetico. Il rifiuto della «materialità» dell’arte (o la sua trasfigurazione simbolica) derivava dalla stessa mentalità antipositivistica (che allora era tutt’uno con antiborghese) che aveva fatto proprio il concetto di morte dell’arte. Campione esemplare di questa situazione è Marcel Duchamp.
La sua eredità non bisogna valutarla oggi dalla qualità degli oggetti — del tutto vanificata — quanto rispetto al procedimento critico che vi è dietro. Rendere inagibili le categorie artistiche fino al punto di fare un’opera che non sia un’opera d’arte: questo è lo scopo principale delle sue ricerche.
E se dall’impressionismo, al postimpressionismo, ai fauves, al cubismo si era scardinato il sistema visivo di basi prospettiche, rimanendo però su un piano rigorosamente pittorico,
Duchamp fa un balzo in avanti, spostando il discorso su un piano prevalentemente mentalistico. Sono note le sue ricorrenti affermazioni contro la pittura retinica, a favore, invece, di un’arte mentale.
L’arte dunque, sposando le sorti dell’avanguardia, decreta la sua morte, rinuncia al suo statuto consolidatosi nei secoli, abolisce tutti i tipi di tabù e barriere, dilata la prospettiva estetica sconfinando in tutti i campi del reale, mentre paradossalmente è proprio dal reale che divorzia definitivamente.
A parte pochi e limitati episodi novecenteschi, l’intellettuale «organico» è finito con le barricate della Comune. Da allora in forme diverse l’intellettuale è stato «disorganico», «disgregato» (o se vogliamo «laterale» e «obliquo»), un figlio scomodo e fastidioso della borghesia che alla scomposizione in segmenti intercambiabili dei processi di divisione sociale del lavoro e all’organica marginalizzazione dell’artista, in quanto figura esemplare di lavoratore improduttivo,… reagisce attribuendo all’arte il compito specifico di una percezione integrale della realtà.
L’artista costituisce così la cattiva coscienza della borghesia. Ma nel momento in cui si assume questo ruolo ratifica la propria improduttività e condizione superflua (eccezion fatta per la linea razionalistica che emerge in architettura e nel disegno industriale).
L’emarginazione, istituzionalizzata con la creazione nel 1863 del «Salon des refusés», da condanna si risolverà in privilegio e un privilegio che ben presto avrà i suoi risvolti nel successo economico. Non senza contraddizione.
Vivere contro il sistema e alle spalle del sistema sarà il nuovo contraddittorio statuto che alimenterà tutto il dibattito sulla mercificazione dell’arte. Le radici di questo problema coincidono con l’origine stessa del fenomeno dell’avanguardia, che nasce al primo irrompere della società industriale e precisamente da un diverso rapporto rispetto al passato fra lavoro intellettuale e divisione sociale del lavoro.
Con l’esaurirsi della committenza (privata, pubblica e religiosa), con la cessazione di una funzione documentaria (ora affidata alla fotografia e al cinema), l’arte è lasciata in balia del mercato. Nel sistema economico liberistico, tipicamente borghese, l’artista ha l’illusione di guadagnare la sua libertà, ma che ben presto si rivela come libertà di morire di fame. Altri e più insidiosi condizionamenti si profilano così per l’artista sottoposto alla dittatura del mercato.
Si potrebbe dire, paradossalmente, che la civiltà di massa costituisce per l’arte moderna, al tempo stesso, la garanzia di un incremento infinito delle proprie possibilità espressive e comunicative e la negazione ben definita, oppressiva e perfino demoniaca, del concetto stesso di fare arte come operazione individuale, libera, formale ed autentica.
L’arte trova il «suo» mercato proprio in quanto rifiuta certe leggi dominanti della produzione capitalistica…; però nella misura in cui si crea un «suo» mercato, accetta le regole del mercato capitalistico ed è perciò costretta… ad accostarsi sempre di più agli umori, ai gusti, alle abitudini, alle tendenze e alle richieste delle masse che chiedono visioni di libertà e di riscatto ma impongono poi lo spessore delle proprie mediazioni intellettuali e morali per accettarle (e «comprarle»).
In queste condizioni è dunque inevitabile che gli esiti dell’avanguardia siano due fatti apparentemente in contrasto: il consumo e la protesta; che, viceversa, sono fatti paralleli dello stesso sistema capitalistico il quale, d’altra parte, non esita a metterli in relazione generando il consumo della protesta. Il mercato mercifica il rifiuto del mercato. Ed è proprio per questo che per sopravvivere l’avanguardia deve continuamente morire.
Perché è solo nel breve spazio dello choc che trova la sua ragione di essere. Il successo la tramuta subito in accademia. Per sfuggire all’accademia bisogna rinascere dalle proprie ceneri con nuove istanze, nuove dissacrazioni, nuove barriere infrante. Se questa è la storia e il destino perenne dell’avanguardia, una svolta si è avuta nel secondo dopoguerra con le cosiddette neo-avanguardie.
È allora che si crea la nozione di «avanguardie storiche» a proposito delle esperienze dei primi tre decenni del secolo, sia per prendere le distanze che, all’opposto, per crearsi una genealogia, storica appunto. Questa attitudine a rifare la propria storia — che, tra l’altro, negli ultimi tempi è molto aumentata — costituisce un elemento significativo di differenziazione dalle prime avanguardie che, viceversa, si presentavano volutamente sradicate e senza storia.
In definitiva, diminuisce la carica negativa e aumenta quella sperimentale con l’intento di ridurre a nuovi linguaggi, e dunque di ribaltare in positivo, anche le negazioni delle avanguardie storiche (vedi il neo-dada, ad esempio). In questo, quindi, trovano qualche giustificazione le accuse, peraltro sommarie, di manierismo, accademismo e revivalismo che da taluni si rivolgono alle neo-avanguardie.
In ogni caso è certo che la carica eversiva (velleitaria e utopistica quanto si vuole) delle prime avanguardie arriva molto smorzata alle seconde, che accantonano, o quanto meno pongono in secondo piano, l’obiettivo di palingenesi totale per concentrare la loro attenzione, e dunque la loro vocazione politica, sul potenziamento della specificità, ossia sul linguaggio.
Diverso si presenta così l’atteggiamento dell’operatore artistico, ma non mutano, invece, le leggi del mercato, che anzi, in connessione con la nuova fase di espansione del capitalismo, inaspriscono i loro condizionamenti sulla ricerca artistica creando dei cambi di guardia, veri o fittizi, a ogni passaggio di stagione. Si innesta in tal modo un ritmo di successione delle varie tendenze così forsennato da far apparire sempre più le sperimentazioni artistiche come una corsa ad ostacoli.
Le avanguardie conoscono così la doppia e contraddittoria situazione di un elitarismo sempre più narcisistico e di una progressiva massificazione neutralizzante indotta dal mercato, senza che peraltro si istituiscano dei nuovi canali di rapporto diretto con il pubblico che non siano la galleria e il suo inverso speculare, il museo.
In questa situazione, secondo Asor Rosa, la negazione non fu più un ponte gettato verso il futuro sull’infinito abisso del-l’alienazione contemporanea … bensì un calcolato e programmato elemento di una dialettica produttiva ormai ben nota e accettata. Da quel momento l’avanguardia entra nella sua fase manieristica.
Che l’orgia di etichette (veri e propri marchi di fabbrica) non corrispondesse al ritmo reale, direi quasi biologico delle esperienze, è sempre stato chiaro agli artisti che hanno diffidato di queste più o meno forzate aggregazioni, rivendicando un ruolo di ricercatori autonomi (e individualisti). La situazione degli ultimi anni ha dato loro ragione. Dal ‘69 al ‘73-‘74 c’è stata una grande espansione del mercato d’avanguardia con una vera moltiplicazione dei prezzi.
La parte del leone è stata fatta dall’America che ha imposto i suoi artisti, soprattutto pop, e ha giocato al rialzo, gonfiando i prezzi, come non si era mai visto, e penetrando con vero spirito colonizzatore in tutti i mercati europei. Nel momento in cui è venuta a mancare la spinta mercantile, per effetto dell’inflazione che ha contratto enormemente il mercato dei generi superflui (e cosa è più superfluo dell’arte?), come per incanto le etichette sono sparite.
Gli artisti restano, ma la ricerca ha subito senz’altro un rallentamento per effetto della concorrenza, più che mai spietata, che privilegia i valori assestati e taglia fuori i giovani.Dalla morte dell’arte stiamo passando così alla fine delle avanguardie, cioè alla fine della «fine dell’arte».
Ma questa volta non è solo la vocazione al suicidio tante volte preconizzato, ma un’esecuzione capitale decretata dal mercato, il quale per sopravvivere deve incrementare tutti gli aspetti passatisti dell’avanguardia (è una contraddizione in termini, ma è così): siamo all’antiquariato del moderno e del contemporaneo lamenta Lea Vergine a proposito di Documenta a Kassel, con la complicità della critica sottolinea Bonito Oliva, che nella recensione alla mostra di Torino sull’«Arte Italiana 1960/77» cosi si esprime: Come risponde la critica d’arte a questa crisi? Spesso con il progetto del riciclaggio e della storicizzazione, mettendosi di spalle al futuro e privilegiando il passato prossimo, scavalcando un presente seppure problematico in una posizione che oscilla tra «archeologia del presente» e «futurologia del passato».
Sotto l’urgenza innegabile di una coscienza politica che comprenda ogni produzione materiale qual è anche l’arte, la critica si interroga sulla possibilità di un livellamento dei valori e di una «messa in orizzontale» delle presenze artistiche.
Del resto di questa tendenza all’accademia da parte dell’avanguardia era già stato facile profeta Harold Rosemberg con il libro La tradizione del nuovo del 1959, così come ancora prima nel 1949 Cesare Brandi aveva anticipato l’attuale dibattito con un saggio che si intitolava La fine dell’avanguardia. E in realtà sempre più spesso si parla oggi di post-avanguardia. L’ultimo numero dei «Problemi di Ulisse» è dedicato a una raccolta di saggi dal titolo apocalittico (anche se attenuato dal dubbio dell’interrogazione) Fine delle avanguardie?
Che cosa possa succedere dopo, ancora non lo sa bene nessuno. Qualcuno ipotizza, o crede già di intravedere, un ritorno al figurativo; e non è del tutto escluso, anche se più che di un ritorno si tratta di un rafforzamento di un settore del mercato già esistente e florido. Fra le lamentele generali Claudia Gianferrari ha onestamente riconosciuto che il mercato del nostro settore (quello figurativo, appunto) non ha risentito grosse crisi.
Le ultime rassegne internazionali «Documenta 6» a Kassel, la «Biennale dei giovani» a Parigi, le ultime edizioni della «Biennale» di Venezia, hanno registrato una battuta d’arresto. Nessuna novità di rilievo si è di fatto verificata nel panorama artistico degli ultimi tre o quattro anni.
Leggendo alcune recensioni da parte di critici anche diversamente orientati tra loro, questo senso di fine, di caduta storica della parabola, di svuotamento appare in tutta evidenza; ne diamo qui qualche esempio: la cosidetta nuova avanguardia… divenuta fin dalla nascita una copertura ideologica dell’efficientismo neo capitalistico è ormai pervenuta, e a parere quasi unanime, all’esaurimento; e ancora: ora tutti, anche gli organizzatori — della Biennale di Venezia del 76 — sembrano concludere che non c’è niente di nuovo nel campo dell’arte ma già si sapeva, e si poteva evitare una mostra ingombrante e «disfattista» come «Attualità ‘72-‘76»; o più recentemente: è evidente la caduta di punte di interesse avanguardistico, sperimentale, giovanilistico o di recupero storico per oggetti, artisti, situazioni nuove inedite, o di rottura, e, di conseguenza, l’attestarsi dei prodotti esposti su una media che sta fra l’idea di qualità, il buon tono mondano e il pezzo da salotto, sia per i modelli «moderni» che per quelli «in stile».
La sensazione è che si stia regredendo ad un clima presessantottesco, e che nella fuga delle etichette e delle tendenze si torni, magari solo per finta, alle vecchie polemiche: astratto o figurativo? impegnato o disimpegnato?
Un parere simile lo ha espresso Celant a proposito della Biennale di quest’anno: nell’antitesi tra astrattismo e realismo, tra «finestra interna» e «finestra esterna» («iconosfera urbana»), tra «Natura e Antinatura» la critica attesta definizioni e metodologie da anni ‘50, dove l’arte era pensata e sentita come contrapposizione di movimenti di ottiche o di semantiche visive e non come «ricerca linguistica».
Ma si deve aggiungere, che, a differenza degli anni ‘50 quando quelle contrapposizioni, magari grossolane, erano però reali ed anche dure, oggi, proprio puntando sull’autonomia linguistica — peraltro legittima ed autentica — delle varie sperimentazioni si tende ad un vero e proprio pareggiamento delle esperienze, con uno svuotamento ancora maggiore della carica negativa di ciascuna, ammesso che ci sia.
Ciò che colpisce, e colpisce per il senso profondamente reazionario dell’operazione, non è tanto, ad esempio, la contrapposizione in sé realismo/astrazione ma, viceversa, il loro sostanziale livellamento in nome della «grandezza», la categoria più stantia e più equivoca che potesse rispolverarsi nella nostra storia dell’arte. Ed è proprio in nome della «grandezza», cioè della «qualità» che il mercato cerca di rilanciarsi fingendo delle contrapposizioni.
In mancanza di nuove tendenze si riciclano vecchi antagonismi, beninteso non per fare politica culturale attiva puntando al futuro, ma per rimestare fra i «valori consacrati», fra i «prodotti di qualità», fra i «grandi». Di ciò aveva lucida consapevolezza già nel ‘75 Gianfranco Pardi: La distinzione fittizia «astratto» – «figurativo» è il prodotto di un approccio arcaico, inadeguato e potremmo dire, sottoculturale (cultura dei mass media) ai problemi attuali della ricerca estetica.
Questa distinzione però è anche il risultato del processo mercantile di differenziazione del prodotto arte, che è uno dei meccanismi elementari del funzionamento del mercato… che cerca di mimare e riprodurre in questo modo il concetto di concorrenza delle merci.
Con varie sfumature e intonazioni, sempre più frequenti e reiterati sono gli appelli alla «qualità»; questi da un lato esprimono un giusto risentimento verso il mercato che ha gonfiato valori e favorito spesso produzioni scadenti, dall’altro però possono incoraggiare le attuali tendenze conservatrici del mercato che barricandosi dietro la «qualità» non vuole più scommettere sulle forze giovani.
Esemplari in proposito sono i pareri contrapposti di Guttuso da un lato e Baj e Nigro dall’altro. Dice Guttuso: Dipende solo da noi rendere questa crisi un fatto salutare per ricondurre il problema in termini di cultura, di giusto equilibrio mercantile e di dibattito delle idee. E che dall’era dei «prezzi» si passi all’era dei «valori».
Dissentendo dichiaratamente da Guttuso, Baj sostiene che: È vecchia teoria biblica attribuire a disgrazie, crisi e catastrofi potere purificatore e catartico: a mio giudizio è vano pensare che tutte ‘ste sfasature possono spingere a ripensamenti e alla scoperta di valori più veri. Ancora più puntuale e preciso è il giudizio di Nigro: Per me l’attuale crisi non cambia niente, anzi può addirittura essere pericolosa per una reazione di conservazione che oggi porta il mercato già in un orientamento di antiquariato.
E in effetti non è un caso che tra gli stralci di interviste pubblicati da Caroli emerga la particolare soddisfazione per l’attuale crisi purificatrice da parte di Casimiro Porro, amministratore delegato della Finarte e di Claudia Gianferrari gallerista nel settore figurativo, i quali si trovano d’accordo sul fatto che l’opera d’arte di qualità ha tenuto ottimamente.
Se andiamo a riesaminare le sorti del concetto di «qualità» nell’arte contemporanea osserviamo che esso, in quanto collegato alla bontà di manifattura, era stato messo in crisi soprattutto dal dadaismo, e in particolare da Duchamp. Questi aveva rifiutato il termine arte proprio perché le oscillazioni di qualità buono/cattivo erano del tutto relative e non spostavano il problema.
Pertanto aveva coniato il termine di anarte e aveva creato la pittura meccanica e il ready made, due modi per mettere in ridicolo e quindi vanificare il concetto stesso di qualità. Tuttavia il vizio idealistico-borghese del concetto di qualità non si sradicherà tanto presto e lo stesso Duchamp sposterà la ricerca di qualità dal campo animale della pittura a quello intellettuale dell’elaborazione critica.
Che cosa infatti, se non una nuova idea di qualità, gli faceva rifiutare di identificarsi nella figura del pittore, ormai da lui per sempre legata all’espressione bête comme un peintre?
Il mercato capitalistico attento a valorizzare come merce tutto quello che sia vendibile, e anche quello che sembrerebbe non esserlo, coglierà al volo quest’ultima contraddizione dell’avanguardia per cui non potendosi valutare come beni il soggetto, l’armonia, il contenuto etc, saranno valutati come tali l’originalità, l’accostamento inconsueto di materiali, l’intensità dello choc, la capacità di produrre orrore, la rilevanza delle connessioni con taluni sentimenti alienati dello spirito contemporaneo ecc.
Se è vero che le neo-avaguardie sono profondamente debitrici a quelle storiche e in special modo a Duchamp, è anche vero che da questi precedenti hanno ereditato pure tutte le contraddizioni, compresa quella inerente il concetto di qualità.
La corsa attuale al recupero della «qualità» nell’ambito dell’avanguardia — e si badi non solo da parte dei critici ma anche da parte degli artisti preoccupati di trovarsi un posto al sole nella storia — rende del tutto fittizia almeno una delle finalità che si erano poste le neo-avanguardie, quella di spezzare l’esclusivismo della «creatività».
Se osserviamo quanto è accaduto negli anni ‘60: da un lato il filone dell’arte programmata (con la poetica dei gruppi), dall’altro le varie esperienze pop (fondate sull’obiettività della visione e sulla pittura meccanica); e se esaminiamo anche le novità degli anni ‘70, i vari esiti dell’arte povera, della land art e del comportamento fino alla body art, sembrerebbe che il concetto di qualità sia stato, se non bandito del tutto, certamente messo da parte a favore di un’idea (del tutto utopistica) dell’arte che coinvolge lo spettatore, fino a contagiarlo e a indurlo a manifestare la sua creatività secondo un ideale di «creatività diffusa», non più prerogativa del genio isolato e qualitativamente eccezionale, l’artista appunto.
E del resto il senso degli sconfinamenti successivi dell’arte quale altro era se non rompere (almeno velleitariamente) certe barriere e promuovere la liberazione degli individui? A scapito, s’intende, della qualità che però, in questa prospettiva politicamente coinvolgente (nelle intenzioni), era davvero una misera cosa, roba da bottegai taccagni.
Guardando indietro, in fondo già l’arte concettuale assume una funzione di ‘rappel à l’ordre’, almeno per quanto riguarda il ritorno dell’arte al concetto di autonomia e di specifico che però è ancora del tutto mentale.
Mentre su due versanti opposti e inconciliabili qualità, autonomia e specifico artistico, connessi all’idea recuperata della fattualità materiale, saranno alla base della nuova pittura e dell’iperrealismo: la prima, soprattutto in Europa, è rimasta legata alle attitudini riflessive del concettualismo e in base a questo legame cerca di esorcizzare attraverso più o meno copiosi attestati teorici la «materialità» della propria ricerca; l’altro, puntando sui virtuosismi mimetici più difficili, si è di nuovo trasformato in un nuovo trionfalistico pompierismo anni ‘70 che in area capitalistica fa da curioso pendant al realismo socialista.
Il fenomeno di riscoperta del «realismo» è stato da molti messo in connessione con l’attuale crisi, tuttavia non bisogna pensare che riguardi solo l’America se, ad esempio, all’ultima Biennale troviamo la retrospettiva dell’iperrealista italiano ante litteram, Domenico Gnoli e nel padiglione della Francia un certo spazio è riservato alle ricerche, fra gli altri, di Gontard. Già nel 1973 «l’Espresso» dedicava il suo fascicolo speciale alla pittura di soggetto storico-politico che stava tornando di moda.
Da anticamera a questa forma di realismo ha fatto la pop (che del resto ha aperto anche all’iperrealismo) oltre che la cultura dei fumetti e la cartellonistica cinese. Sempre dalla pop, o meglio dal «nouveau réalisme», sono poi derivate altre manifestazioni europee legate al problema del realismo con l’idea però di differenziazioni sia dall’iperrealismo che dal realismo politico e con l’ambizione (almeno a livello di giustificazione critica) di trovare una legittimazione nella sfera dell’avanguardia attraverso un’attitudine analitica di eredità concettuale.
La pittura di Proweller, di Gontard, di Morley, di Gasiorowsky ecc., non si limiterebbe quindi ad avere una funzione «rappresentativa» o «narrativa» ma punterebbe ad un atteggiamento di riflessione sul processo stesso del montaggio pittorico, del lavoro della pittura.
Nel panorama di revivals realistici di discendenza pop vanno anche annoverate le esperienze che, senza pretendere di formare una nuova tendenza, si riconoscono nella formula di James Collins di romanticismo post-concettuale, con l’idea di rivalutare gli attributi romantici (bellezza, estetismo, sentimento, amore, mistero ecc.) filtrati attraverso le esperienze del minimalismo e del concettualismo e nello stesso tempo di contrapporsi nei suoi risvolti materiali e intellettuali sia al minimalismo sia all’arte concettuale.
Si tratta, tuttavia, di un romanticismo abbastanza disincantato, ultima trovata pubblicitaria di un mercato stanco e in vena di restaurazione di vecchi valori appena un po’ imbellettati. E di questo è spavaldamente consapevole lo stesso Collins che afferma: Il romanticismo per me non è che un cartellino, un’etichetta, trucco del mercato.
Un vero romantico quasi non esiste!… fa appunto parte della mia strategia quinquennale per spandere arte e idee nel mondo con il marchio «James Collins». E come ogni prassi aziendale che si rispetti il riconoscimento del marchio di fabbrica arriva prima della diversificazione.
Mentre dunque tutte le forme comportamentali e concettuali si vanno esaurendo, si è registrato negli ultimi anni un ritorno ai quadri da cavalletto e alla pittura nel senso tradizionale del termine. In questa prospettiva, come già in passato abbiamo avuto occasione di notare, anche la nuova pittura viene incontro alle esigenze del mercato fornendo oggetti più facilmente mercificabili.
In proposito il parere di Fossati che abbiamo già citato veniva a confermare quello che Rita Cirio l’anno scorso aveva espresso rispetto all’Arte Fiera: Molto sfoltito il reparto video tapes e concettuali, grande spazio alla pittura analitica e ancor più alla fotografia… I sintomi, se davvero sono tali, sembrano indicare tutti un ritorno all’oggetto da appendere.
Contemporaneamente si registra la crisi della grafica ma a questa supplisce la nascita di nuovi astri nell’universo mercatile: prima di tutto la fotografia, la quale sia a livello editoriale che di mostre sta avendo un vero e proprio boom, in secondo luogo il disegno, forma d’arte che sembrava desueta e che invece sta vivendo una nuova giovinezza.
È esemplare in proposito la mostra che si è tenuta alla Kunsthalle di Amburgo nel 1977 II mondo disegnato, da Mantegna a Beuys, che sembrava proprio voler esprimere l’atto di rifondazione di un genere facendo appello agli antenati.
Mentre solo recentemente il disegno ha guadagnato un suo posto nelle grandi mostre (vedi Documenta), si sta scoprendo che artisti d’avanguardia, che sembravano molto lontani da questa pratica, hanno avuto una loro ininterrotta, ma nascosta (finora), attività di disegnatori: è il caso, ad esempio, di Kounellis che nell’inverno scorso ha tenuto a Roma alla Galleria di Pio Monti una mostra di disegni di inaspettata ascendenza espressionista ma decantata in un suo personale intimismo.
Al confronto suscitano minore meraviglia le gouaches, peraltro molto raffinate, di Burri, che però le tiene ancora seminascoste. Accanto alle fotografie e ai disegni sono comparsi da qualche tempo i progetti degli architetti che, non trovando altra ospitalità, sono approdati al mercato delle immagini, dove c’era ad accoglierli nientemeno che Leo Castelli.
I vari sintomi che siamo andati esponendo finora ci attestano che siamo in piena restaurazione. La confusione è grande.
Ed è aggravata dalla crisi globale che investe la nostra società. Ci si domanda allora: Che ruolo ha l’arte in questa crisi? In che modo i tentativi di restaurazione che stanno passando nella società (tregua sociale, strategia del consenso, esorcizzazione del ‘68, sì alle riforme ma sui programmi più arretrati ecc.) si fanno sentire anche nel campo artistico? Si ha l’impressione che proprio nel momento di massima disgregazione dei valori da ogni parte si stia correndo alla ricostituzione, magari artificiosa, dei valori, e proprio di quelli più sclerotizzati, con l’ansia di stabilire, comunque sia, dei punti fissi.
In materia di restaurazione anche negli altri campi della cultura ci troviamo di fronte a fenomeni significativi: ad esempio la ricomposizione di discipline che sembravano volgere al tramonto, come la poesia (si pensi alla moda che si sta diffondendo delle serate di poesia, con la presenza del poeta, novello show-man) e la filosofia.
Questa ultima dopo anni di ibridazioni con le scienze più varie del nostro secolo, torna alla sua specificità, alle questioni ontologiche di tipo universale: l’Essere, il Nulla… e magari la Storia, il Potere il cui ingresso negli universali è stato aperto dalle delusioni post-sessantottesche dei nouveaux philosophes.
Ma non è un caso che, riducendo faticosamente i brandelli, di questa crisi, dietro tutti i tentativi di restaurazione troviamo sempre la stessa presenza incombente: quella del mercato. Anche nel campo letterario e filosofico, infatti si è trattato di una accurata strategia elaborata dalle case editrici che poi ha coinvolto programmaticamente anche i mezzi di comunicazione di massa.
Tornando alle arti visive, sono in molti a intravedere lo spettro della restaurazione. Anche il modo in cui quest’anno è stata allestita la Biennale sembra avallare questa preoccupazione. Secondo Pier Giovanni Castagnoli la presente edizione è l’atto ufficiale del ritorno alle formule e ai metodi preses-santotteschi. C’è la grande mostra storica, le nazioni straniere, ci sono mostre personali, mancano solo i premi, mentre si è accentuato il potere (e l’arbitrio) del critico.
Tutti i dibattiti, le dichiarazioni, le intenzioni riformatrici e i migliori propositi sono rimasti lettera morta… Le si inventi un tema ad esempio e tutto, come per incanto, riprenderà a funzionare.
E in realtà questa del tema, a giudicare dal numero di mostre così congegnate negli ultimi anni, sembra essere l’ultima panacea anti-crisi. Ma in questa situazione c’è anche chi, come Barilli, insospettabile sostenitore delle avanguardie e dei loro numerosi sconfinamenti, non ravvisa nell’organizzazione della Biennale una involuzione, ma piuttosto un sano ritorno alla tradizione. Intanto va aumentando il senso di noia e di stanchezza verso questa situazione di esaurimento, questo girare a vuoto.
Secondo Quintavalle la gente da questi problemi sembra lontana ed anche la «base» degli addetti ai lavori sembra più stanca, ironica, disincantata certo meno partecipe del solito. Secondo Briganti dai giardini della Biennale si esce con una grande depressione nel cuore, con un senso di noia, di disfacimento e di morte.
E non è solo la Biennale che ha suscitato questa impressione così tetra e squallida; anche Documenta dello scorso anno non era da meno, se Lea Vergine ha potuto esprimersi in questo modo: Non c’è fulgore né profezie; ma neanche la drammaticità dell’apocalisse; solo la noia prolifera.
Contemporaneamente proprio partendo dalla considerazione della crisi e del disfacimento si è aperto un vero e proprio processo alle avanguardie, e non solo alle seconde ma anche alle prime, per ricercare le origini di certi errori, di certe ambiguità, di certi fallimenti impliciti, ma anche di certe responsabilità storiche e di certe connivenze.
Su questo fronte i pareri si dividono: da un lato ci sono le sconfessioni (ce ne sono da «destra» ma anche da «sinistra») che tendono ad un giudizio globalmente negativo delle esperienze d’avanguardia e indurrebbero a cercare fuori di essa nuovi, inesplorati e magari più autentici «valori»; dall’altro c’è la critica che sostiene e ha sostenuto le avanguardie, ma nello stesso tempo cerca di individuare anche i limiti oggettivi che, storicamente, queste esperienze hanno dimostrato; vanno invece sempre più diminuendo (e questo è significativo) i critici disposti a «sposare» le tesi dell’avanguardia in prima persona, secondo una figura del critico militante in qualche modo esemplata su Apollinaire (ma se vogliamo anche Zola, Baudelaire ecc.), critico/artista per antonomasia, fino ad identificarsi con una determinata tendenza a «vivere» e a «morire», sul piano intellettuale, con essa.
I punti centrali del dibattito, su cui si sono accese infinite polemiche, sono i seguenti:
1) c’è coerenza tra l’ipotesi globale estetico-politica delle avanguardie e il ruolo politico reale che svolgono nella società di oggi?
2) In che misura le avanguardie sono responsabili, moralmente e politicamente, di certi aspetti preoccupanti della situazione attuale e in definitiva che nesso c’è tra le loro esperienze e quelle, poniamo, degli indiani metropolitani, degli autonomi, dei terroristi? Inutile dire che le critiche francamente reazionarie di Testori e Terranova vedono l’avanguardia perdente su entrambi i punti: rispetto al primo perché alleata del potere, che però Testori identifica brutalmente con il PCI, e rispetto al secondo, molto più genericamente, perché si sarebbe fatta interprete della crisi di valori e avrebbe favorito la diseducazione estetica ed etica del pubblico senza raggiungere alcun obiettivo di equilibrio o anche di benessere.
Su questa via Terranova arriva fino a stabilire, con scarso senso storico, una relazione tra i balconcini del Bauhaus o dell’architettura organica e quelli di tante palazzine della periferia romana; tra i prototipi dei quartieri razionalisti ed i ghetti di edilizia popolare della cintura urbana-dormitorio, tra l’ambiguo macchinismo vitalistico dei futuristi ed il caos ambientale nel quale oggettivamente ci ha messi lo sviluppo «anarchico» del capitalismo industriale.
Nei primi due casi, come giustamente ha fatto notare Menna, si confonde fra le premesse delle avanguardie ben diversamente orientate e gli usi sconsiderati e a fini speculativi di queste premesse da parte di precise forze sociali e politiche, mentre nell’ultimo accostamento si mettono in rapporto due fenomeni del tutto estranei fra loro (futurismo e speculazione selvaggia), sul filo del tutto esteriore dell’«anarchia» che, invece, ha connotazioni e significati ben diversi nei due fenomeni in esame.
Il pericolo di una posizione del genere è che può trovare (e di fatto sta trovando) facile consenso in quella fetta di pubblico che, senza interrogarsi sulle ragioni e magari sulle contraddizioni dell’avanguardia, la rifiuta in blocco, nel timore che questa possa mettere in discussione anche minimamente l’ordine stabilito.
Ben diversa, anche se in qualche disattento e frettoloso lettore ha potuto generare confusione, è la posizione di chi, come Bologna, critica le «avanguardie da sinistra», cioè valutandone le contraddizioni e imputando loro di non essere riuscite a sganciarsi sufficientemente dai condizionamenti del sistema capitalistico, così da compromettersi troppo con quest’ultimo, fornendogli in definitiva una copertura ideologica.
Tuttavia, come in parte abbiamo già visto attraverso le citazioni precedenti, anche la critica che più ha cercato di penetrare le tendenze dell’avanguardia, negli ultimi tempi ha cominciato a manifestare preoccupazioni, lamentazioni, o speranze di «purificazione» affidate alla catastrofe finale.
Non sono rari gli atteggiamenti da esami di coscienza o le tempestive separazioni di responsabilità come nel caso esemplare di Calvesi che ne fa una questione di distaccata professionalità, in questi termini: Vero è che l’arte si difende male; col sospetto di anarchismo, di misticismo, di sbandante fumosità che espande dal proprio corpo quasi ormai a folate intermittenti un lezzo di putrefazione: ma ammesso e non concesso che di cadavere si tratti sia consentito almeno di farne con calma l’autopsia.
E in realtà, proprio col tono di chi vuole fare l’autopsia al cadavere, nel saggio che si intitola Avanguardia di massa pone a fuoco il problema scottante della possibile relazione tra le avanguardie e la cosiddetta ala creativa del movimento del ‘77. Non siamo per carità alle generiche accuse di Terranova di fomentare il caos, ma viceversa, a un tentativo di storicizzazione più ampia del fenomeno dell’avanguardia.
Provandoci a riassumere al massimo, la tesi di Calvesi si incentra sull’ipotesi che il Beaubourg a Parigi e gli indiani metropolitani siano due aspetti complementari della massificazione di una cultura e che entrambi si siano serviti come modello dell’avanguardia rispettivamente nei due opposti risvolti del consumo e della protesta.
Mentre quindi finora l’avanguardia si è posta sempre come modello a se stessa, ora fa da modello a qualcos’altro da sé e questo qualcos’altro adotta nei suoi confronti la stessa tecnica assunta da ciascuna avanguardia rispetto alla precedente, cioè quella che Calvesi chiama la logica dello «spossessamento e sorpasso».
A partire dal ‘68 le avanguardie sono state rinnegate, in quanto residuo di cultura borghese, ma nello stesso tempo sono state spossessate sia della carica provocatoria, che di tutta una serie di modelli di comportamento, oltre che di precisi costumi linguistici.
Sono noti i numerosi slogans di origine futurista e surrealista (il più famoso è l’immaginazione al potere), così come sempre più frequente diviene l’uso di una scrittura trasgressiva che spezza l’unità della parola (A/traverso, di/mostra/azione) anzi è proprio sul piano linguistico che Calvesi, sulla scia di Eco, ravvisa i nessi più stringenti fra futur-dada-surrealismo e indiani metropolitani.
Come sia potuto accadere questa, per molti versi imprevista e imprevedibile, moltiplicazione del messaggio delle avanguardie si è chiarito da Eco, Kristeva e Calvesi stesso che puntano molto sul ruolo primario giuocato dai mezzi di comunicazione di massa, che avrebbero fatto a distanza di parecchi anni dalle prime avanguardie, da vera e propria cassa di risonanza.
In tal modo quelle che erano operazioni di laboratorio, tendenti a focalizzare attraverso la disgregazione del linguaggio la disgregazione dell’intellettuale, ma più in generale dell’uomo nell’attuale società, verranno tradotte, diluite e massificate dalla cultura hippy, pop e underground fino alle canzoni dei vari cantautori. A questo quadro sostanzialmente condividibile — ricco di molte altre sfumature e precisazioni che qui non si possono ripetere — bisogna aggiungere qualche considerazione: in primo luogo si deve ben distinguere tra prime e seconde avanguardie.
Mentre dal nostro punto di vista c’è un nesso stringente con le prime (anche attraverso i canali culturali che hanno fatto i conti con le avanguardie storiche e cioè gli esiti moderni della linea negativa approdata ai filosofi del «desiderio liberante» Deleuze e Guattari, o anche Foucault ecc.), non c’è invece un rapporto diretto con le seconde, se non in modo del tutto episodico e casuale.
E, dove c’è, non si tratta tanto di una comunicazione diretta tra i due fenomeni quanto di una derivazione da prototipi comuni, cioè le avanguardie storiche.
L’attuale neo avanguardia, come abbiamo già notato, a differenza dei suoi precedenti storici ha molto ridimensionato l’aspetto di progettazione socio-politica generale per delegare la propria presenza nella società al linguaggio, cioè al suo campo specifico; con un atteggiamento da un lato più maturo — in quanto cerca di sfuggire al velleitarismo — dall’altro più incline alla separatezza elitaria che ben conosciamo.
Stando così le cose, la spirale di violenza, più o meno accompagnata da una pioggia di discorsi dis/aggregati, ha veramente spiazzato la neo-avanguardia che o ha rifiutato addirittura di riconoscersi nel fenomeno «avanguardia» o sta cercando, per ora solo episodicamente, di cavalcare la tigre, ripetendo l’esperienza del ’68.
Una seconda considerazione cerca poi di entrare nelle ragioni di questo collegamento con il movimento studentesco. Perché prendere a modello le avanguardie? A queste lo apparenta, oltre che la condizione di emarginazione-separatezza fino ai limiti della disoccupazione, l’accentuazione dell’aspetto individualistico dell’opposizione e la volontà di superare lo status quo attraverso un progetto che non rispetta i tempi reali della politica ma viceversa vuole «tutto e subito».
Su questo terreno è facile che alligni la tematica della violenza di soreliana memoria (che però andrebbe indagata più a fondo), ora come sogno (avanguardie) ora purtroppo, come tentativi reali (autonomi). Su questo piano avviene il divorzio dal marxismo in quanto questo gioco tra individualità e universalità … non può essere tradotto in linguaggio politico dal momento che questa operazione richiederebbe dalla politica una sua totale deistituzionalizzazione, ovvero una realizzazione, sic et simpliciter e seduta stante del comunismo.
Sia nelle avanguardie che nel movimento dunque ci allontaniamo dal campo della «politica» per approdare a quello più generale dell’«etica» proiettando alla fine anche l’etica nella dimensione «estetica».
A questo punto la differenza di fondo, ma sostanziale, tra avanguardie e movimento è che, mentre le prime hanno accettato di riportare il loro discorso nel ghetto, il movimento non lo ha accettato e con tutta la carica di ribellismo narcisistico ed estetizzante che si porta addosso sta tentando il momento della prassi.
In questa situazione, che purtroppo sembra avere precedenti poco confortanti nella nostra storia (per un verso il momento che precedette l’avvento del fascismo e per un altro quello che preparò l’avvento del nazismo con il fallimento della socialdemocrazia di Weimar), la responsabilità delle avanguardie non è da sottovalutare. Se è vero che non hanno prodotto il movimento, è vero pure che costituendosi come una delle matrici culturali, ne hanno per così dire provocato l’accelerazione.
Ma in questo caso devono allora dividere la responsabilità con tutto l’enorme, e per molti versi contraddittorio, filone di pensiero che chiamiamo «negativo». Non a caso uno dei temi centrali del dibattito attuale è su razionalità e/o irrazionalità. Un tema attuale perché scottante ma che rischia anche facili schematizzazioni.
Se dalla confusione dei tempi è emersa una certezza questa consiste nell’avere acquisito una volta per tutte che come esistono vari tipi di razionalità così ne esistono altrettanti di irrazionalità. Le facili accoppiate capitalismo/irrazionale, rivoluzione /razionale o anche borghesia/razionale, rivoluzione/irrazionale, sembrano ormai definitivamente tramontate. Come sempre, la storia richiede distinzioni ma anche scelte difficili.
tratto dal numero 43