L’idea della pittura in Lévi-Strauss

ANTONIO D’AVOSSA
Delimitazione del campo
Attraversiamo in diagonale l’opera di Claude Lévi-Strauss a partire dall’articolo The Art of Northwest Coast at the American Museum of Natural History, apparso nel 1943 nella «Gazette des Beaux Arts» di New York, sino alla più recente ricerca, pubblicata nel 1975, La voie des masques.
Sicuramente le tracce, a volte disperse, di questo percorso concorrono alla configurazione di una teoria dell’arte, e più ancora di un sistema della pittura, nell’opera dell’antropologo francese. Singolarmente, infatti, a più di trent’anni di distanza, l’analisi delle maschere della Costa del Northwest ripropone, ma con una metodologia ormai accertata, una polemica attenzione alle produzioni estetiche di quelle popolazioni.
I capitoli XIII e XIV dell’Antropologia strutturale, uno studio comparato delle arti dell’Asia e dell’America, e l’analisi della pittura facciale dei Caduvei, contenuta in Tristi Tropici, aprono l’orizzonte di un’ipotesi di grande interesse per comprendere l’evoluzione del suo pensiero estetico.
Ne Il pensiero selvaggio l’arte viene situata a metà strada tra la conoscenza scientifica e il pensiero mitico o magico. Nell’Ouverture a II crudo e il cotto, dopo alcune importanti considerazioni sulla pittura e la musica, Lévi-Strauss riprende la comparazione innescata nell’Antropologia strutturale per la lettura delle strutture dei miti come una partitura d’orchestra trascritta da un dilettante perverso, così come tutta la materia della Mitologica è organizzata sul modello della struttura pluridimensionale e sincrodiacronica delle forme musicali quali la cantata, la sonata, il preludio, la fuga, etc.
La musica viene a costituire, così, una via mediana tra l’esercizio del pensiero logico e la percezione estetica. Il Finale della Mitologica è interamente dedicato a una sorta di polemica chiarificazione-difesa di quelli che sono stati i temi sviluppati dallo strutturalismo lévi-straussiano fino a quel momento. Non a caso, la controcritica si snoda sulla fortuna che lo strutturalismo ha ricevuto in questi
ultimi anni e procede per linee d’attacco, a volte feroce, verso le arti figurative contemporanee, le ultime tendenze della ricerca letteraria, e le critiche ad esse collegate, per finire con una lucidissima analisi del «Bolero» di Ravel svolta con strumenti squisitamente strutturali.
Ma l’interesse dell’etnologo per l’arte non si ferma qui. Nel 1959 Lévi-Strauss concede alla radio francese una serie di Entretiens con Georges Charbonnier, che sono per la maggior parte dedicati specificamente al tema dell’arte. In Anthropologie structurale deux, con un articolo sull’opera di Pablo Picasso, l’autore ci offre la possibilità di completare la trama degli scritti e dei momenti in cui la sottolineatura dell’importanza dello studio dell’arte come una espressione, tra le altre, della cultura di una società, motiva i suoi interessi per questi temi.
Infine, ne La voie des masques, due volumi ricchissimi di riproduzioni scultoree, il tentativo di analisi è diretto verso una lettura strutturale delle maschere di alcune popolazioni del Nordamerica, con un metodo già sperimentato nell’investigazione sui miti.
I personaggi soprannaturali che esse rappresentano, la loro forma, i colori, i dettagli dei loro ornamenti, arbitrari ad una osservazione separata, trovano un senso se ogni tipo di maschera non viene osservata in se stessa e per se stessa, ma in funzione di altri tipi che presentano gli stessi elementi plastici, anche se in altro modo combinati.
Certo, questi interessi per l’arte possono sembrare naturali in un etnologo: l’arte è una espressione, tra le altre, della cultura di una società, merita perciò la sua attenzione.
Ma ci sembra che gli interessi dello strutturalismo lévi-straussiano vadano al di là di queste attenzioni alle produzioni estetiche dell’uomo, e che essi si pongano sicuramente ad un livello più alto, con la segreta, ma in parte dichiarata, ambizione di essere nello stesso tempo un metodo di conoscenza scientifico e un modo di lettura estetica del reale. È a questo proposito che Simonis scrive: Lo strutturalismo si rivela come arte e si ridefinisce da scienza in arte.
Per Simonis, uno dei più acuti lettori di Lévi-Strauss, lo strutturalismo è prima di tutto una logica della percezione estetica e il suo desiderio è di dire scientificamente ciò che è percepito esteticamente nell’arte.
E la conferma a tale ambizione viene data dello stesso Lévi-Strauss quando scrive: Ora il tipo di analisi alla quale mi affido tende precisamente a svelare nel mito un oggetto di un’essenza particolare prodotta precisamente dall’unione che si opera nel racconto mitico del sensibile (poiché dopotutto ogni mito racconta una storia) e di un messaggio intelligibile che può prendere forma di equazione quasi matematica.
E ancora, ciò che chiamiamo il sentimento, l’emozione, che non è solo qui. Questa ci viene non da un mito ma da un’opera musicale o da un quadro o da una scultura, l’emozione nasce da questo accesso immediato ad una certa intelligibilità (senza passare per le strade complicate del ragionamento), l’emozione è questa specie di urto in piena faccia che ci infligge la prensione globale di una configurazione sensibile.
Ed io penso che il mito, lo studio del mito possa dunque aiutarci a risolvere uno dei problemi più irritanti delle scienze umane, ossia: «che cosa è il Bello».
Pittura e linguaggio
Per iniziare un discorso sull’attenzione riservata da Lévi-Strauss alla pittura, è necessario mettere in primo piano l’insieme dei rapporti che fanno individuare nella pittura figurativa l’unica forma pittorica che abbia un potere di significazione.
La pittura merita di essere chiamata linguaggio solo nella misura in cui, come ogni linguaggio, si compone di un codice speciale i cui termini sono generati per combinazione di unità meno numerose e dipendenti anch’esse da un codice più generale. Così munito dell’apparato linguistico ereditato dalla fonologia, Lévi-Strauss si appresta, nell’ambito della pittura, ad una riflessione sui due livelli del linguaggio che ne garantiscono la significazione.
Ma seguiamo l’Ouverture e cerchiamo di vedere come procede Lévi-Strauss in questa analisi: C’è però una differenza rispetto al linguaggio articolato, dalla quale risulta che i messaggi della pittura sono ricevuti prima dalla percezione estetica, poi dalla percezione intellettuale, mentre nell’altro caso è il contrario. Trattandosi del linguaggio articolato, l’intervento del secondo codice, oblitera l’originalità del primo.
Di qui il «carattere arbitrario» riconosciuto ai segni linguistici. I linguisti sottolineano questo aspetto delle cose quando dicono che «(i) morfemi, elementi di significazione, si risolvono a loro volta in fonemi, elementi d’articolazione privi di significazione» (Benveniste). Di conseguenza, nel linguaggio articolato il primo codice non significante è, per il secondo codice, mezzo e condizione di significazione: cosicché la significazione stessa è isolata su un piano.
La dualità si ristabilisce nella poesia, che riprende il valore significante del primo codice per integrarlo al secondo. Infatti, la poesia, opera sulla significazione intellettuale delle parole e delle costruzioni sintattiche, e al tempo stesso su proprietà estetiche, termini in potenza di un altro sistema che rafforza, modifica o contraddice questa significazione.
È la stessa cosa in pittura, dove le opposizioni di forme e di colori sono accolte come tratti distintivi che dipendono simultaneamente da due sistemi: quello delle significazioni intellettuali, ereditato dall’esperienza comune, risultante dall’articolazione e dall’organizzazione dell’esperienza sensibile in oggetti; e quello dei valori plastici, che diviene significativo solo a condizione di modulare l’altro e integrandosi ad esso.
Due meccanismi articolati si innestano l’uno sull’altro, e ne determinano un terzo in cui le loro proprietà si compongono. Si comprende allora perché la pittura astratta, e più in generale tutte le scuole che si proclamano «non figurative», perdano il potere di significare: esse rinunciano al primo livello di articolazione e pretendono di accontentarsi del secondo per sussistere.
Questo passo, tra i più celebri e commentati dell’opera di Lévi-Strauss, è certamente emblematico di una visione dell’arte strategicamente linguistica. La lettura lévi-straussiana fa cadere la censura sull’arte astratta (e più in generale tutta l’arte non figurativa), la musica seriale, la musica concreta, che viste in questa prospettiva pagano la mancanza di uno dei due livelli di articolazione con la perdita del loro potere di significare.
Il non rispetto delle esigenze del codice corrisponde nell’opera alla perdita di significazione. Le esigenze del codice assumono perciò, in questa linea, una posizione di incontrastato dominio. Dall’avanguardia storica in poi, sembra invece che tutta l’operazione che è stata alla base dello sviluppo dei fatti artistici sia consistita in uno spostamento continuo dei due livelli di articolazione.
Sulla «guerra fredda» tra lo strutturalismo lévi-straussiano e le poetiche contemporanee l’attenzione è stata notevole, anche perché non si comprendeva bene come una metodologia così rinnovante, anche nel campo dell’estetica, rifiutasse di avere un qualsiasi rapporto con l’arte del suo tempo.
La radice del conflitto — scrive Annette Michelson — sembra risiedere, in primo luogo, nell’applicazione del modello linguistico e della funzione semantica alla nostra pittura e scultura contemporanee, le quali invece si ribellano alla nozione di qualsiasi autorità o modello, a qualsiasi nozione di codice e messaggio nella loro testarda pretesa di autonomia, immediatezza e assolutezza.
Ora, in quasi tutta la letteratura che si è mossa intorno a queste tematiche, troviamo una messa in discussione di questo rifiuto delle avanguardie contemporanee e delle estetiche ad esse collegate.
Un’attenzione tutta particolare è quella che riserva a questo passo Umberto Eco. È il mito della doppia articolazione che genera — per Eco — il rifiuto da parte dell’antropologo, di ogni scuola non figurativa.
La critica di Eco, che è attenta soprattutto ai fatti di ordine linguistico, fa del mito della doppia articolazione, che caratterizza la lettura dell’arte non figurativa, l’oggetto di un’analisi tesa a rilevare che le assunzioni lévi-straussiane possono ridursi a: 1) Non c’è linguaggio se non c’è doppia articolazione; 2) La doppia articolazione non è mobile, i livelli non sono sostituibili e intercambiabili: essa riposa su alcune convenzioni culturali che però si appoggiano ad esigenze naturali più profonde.
A queste affermazioni dogmatiche si devono opporre — continua Eco — le seguenti affermazioni contrarie: 1) Ci sono codici comunicativi con vari tipi di articolazione o nessuna e la doppia articolazione non è un dogma; 2) Ci sono codici dove i livelli di articolazione sono permutabili; e i sistemi di relazioni che regolano un codice, se sono dovuti a esigenze naturali, lo sono a un livello più profondo, nel senso che i vari codici possono rimandare a un Ur codice che tutti li giustifica.
Fermiamoci a questo punto, e cerchiamo di elaborare una riflessione sui modi del processo analitico che fanno rifiutare a Lévi-Strauss la pittura astratta o non figurativa. Intervengono qui le opposizioni di natura e cultura e i rapporti tra il mito, la musica seriale e la pittura.
Il mito ricava da una serie illimitata di eventi considerati come storici, un numero ristretto di elementi; ugualmente la musica si costruisce su di una gamma che è una scelta di altezze sonore di numero limitato tra le possibilità dei suoni fisicamente realizzabili; sotto un altro aspetto invece, il mito agisce sui tempi psico-fisiologici dell’uditore: la lunghezza della narrazione, la ricorrenza dei temi, le altre forme di ritorno e di parallelismo… esigono che la mente dell’uditore spazi in lungo e in largo, se così si può dire, nel campo del racconto a mano a mano che esso si dispiega di fronte a lui; nello stesso modo la musica fa appello, per essere compresa, al fisiologico e al viscerale sui quali essa si muove.
Il primo e il secondo livello di articolazione, impiegati da Lévi-Strauss per la musica e la pittura, rinviano reciprocamente alla griglia fisiologica che è dell’ordine naturale, e al sistema di interventi derivanti dalla gerarchia dei gradi della gamma che è dell’ordine culturale.
L’analogia con il livello fonologico del linguaggio è ancora più evidente se comparata a questo passo di Roman Jakobson: come le scale musicali, le strutture fonematiche costituiscono un intervento della cultura sulla natura, un artificio che impone principi logici all’ininterrotta sostanza fonica.
La comparazione si introduce nella pittura, e Lévi-Strauss scrive: Infatti, se nella natura esistono «naturalmente» dei colori, non esistono però, se non in modo fortuito e transitorio, suoni musicali: ci sono solo rumori. I suoni e i rumori non si trovano quindi allo stesso livello, e il paragone può essere legittimo solo quando avvenga fra i colori e i rumori, cioè fra modalità visive e acustiche che appartengono entrambe all’ordine della natura… Pittura e musica non si situano dunque sullo stesso piano.
La prima trova nella natura la propria materia: i colori sono dati prima di essere utilizzati, e il vocabolario attesta il loro carattere derivato perfino nella designazione delle sfumature più sottili: blu pavone o blu petrolio; verde acqua, verde giada; giallo paglia, giallo limone; rosso ciliegia, etc.
In altri termini, in pittura non esistono colori se non perché ci sono già degli esseri e degli oggetti colorati, ed è soltanto per astrazione che i colori possono essere staccati da questi sostrati naturali e trattati come i termini di un sistema separato… Questo asservimento congenito delle arti plastiche agli oggetti ci sembra derivare dal fatto che l’organizzazione delle forme e dei colori in seno all’esperienza sensibile (che, ovviamente, è già una funzione dell’attività inconscia dello spirito), esplica, per queste arti, la funzione di primo livello di articolazione del reale.
Solo per merito suo esse sono in grado di introdurre una seconda articolazione, che consiste nella scelta e nell’ordinamento delle unità, e nella loro interpretazione conformemente agli imperativi di una tecnica, di uno stile o di una maniera: cioè trasponendole secondo le regole di un codice, caratteristiche di un artista o di una società.
Lévi-Strauss costruisce dunque questa doppia articolazione della pittura in opposizione a quella della musica,ponendola in un preciso rapporto con le nozioni di natura e di cultura. Ma, ci potremmo chiedere se Lévi-Strauss non ceda al piacere di una configurazione troppo perfetta? Come ammettere, per esempio, che all’inverso di ciò che accade per la musica, i colori dell’opera pittorica sono esclusivamente quelli della natura? Ci sembra, tutto sommato, che, almeno in questa analisi, si lasci andare ad una sorta di abuso comparativo, soprattutto sullo stretto legame che la pittura, più della musica, intrattiene con il reale.
Questa combinazione dei due livelli di articolazione coinvolge dunque anche il rapporto con la natura da un lato, e con la cultura dall’altro. A questo proposito Tagliaferri, nell’Estetica dell’oggettivo, scrive: Il dogma della doppia articolazione… è introdotto più o meno di soppiatto negli scritti di numerosi teorici e critici della pittura moderna, ed è addirittura al centro di una più complessa dogmatica in quanto implica, anzitutto, una scissione fra natura e cultura, fra contenuto e forma, fra sentimento ed espressione.
Nei Colloqui con Charbonnier, con più precisione, troviamo: G. C.: Per lei l’artista è qualcuno che aspira al linguaggio? Cl. L.-S.: È qualcuno che aspira l’oggetto al linguaggio, se mi è permesso esprimermi così. Egli si trova di fronte a un oggetto, e veramente di fronte a quest’oggetto vi è un’astrazione, un’aspirazione che fa di quest’oggetto una entità culturale nonostante sia soltanto un’entità naturale; ed è in questo senso… che il tipico fenomeno a cui s’interessa l’etnologo, cioè la relazione e il passaggio dalla natura alla cultura, trova nell’arte un modo di manifestarsi privilegiato.
Anche Mireille Marc-Lipiansky insiste su questo punto: Se la pittura e la musica offrono entrambe la possibilità di vivere il passaggio dalla natura alla cultura, Lévi-Strauss lascia tuttavia intuire la sua predilezione per la musica che meglio della pittura riconduce alla natura, significa il naturale nell’uomo.
La relazione natura/cultura è sempre stata al centro degli interessi dell’opera di Lévi-Strauss e tutti i suoi scritti e la sua vocazione di etnologo rivelano una nostalgia ed insieme una coscienza dolorosa dell’impossibile ritorno al paradiso perduto dell’esistenza naturale. L’arte, ma più particolarmente la musica, rappresentano gli strumenti che permettono di effettuare questo ritorno sul piano dell’immaginario.
Yvan Simonis, quasi a giustificare la posizione lévi-straussiana nei confronti della pittura astratta, riprende un passo di Leroi-Gourhan: Lévi-Strauss rifiuta la pittura non figurativa. La posizione è poco sostenibile nello strutturalismo coerente ma difendibile in estetica, perché la pittura non figurativa è legata a un macchinismo e il suo rifiuto è il richiamo di ciò che la supera: una certa libertà tra la forma e la funzione.
Leroi-Gourhan sul quale ci appoggiamo dice: «Nella fase attuale, gli individui sono permeati, condizionati, da una ritmicità che ha raggiunto lo stadio di una meccanizzazione (più che di una umanizzazione) praticamente totale. La crisi del figuralismo è il corollario del predominio del meccanicismo… Colpisce vedere che nelle società in cui scienza e lavoro sono valori che escludono il piano metafisico, viene fatto il massimo sforzo per salvare il figuralismo, trasponendo i valori mitologici: pittura storica, culto degli eroi del lavoro, deificazione della macchina.
Sembra infatti che un equilibrio costante come quello che coordina dalle origini la funzione della figurazione e quella della tecnica non possa venire infranto senza che sia messo in discussione il senso stesso dell’avventura umana».
Più in alto, Leroi-Gourhan scrive della tendenza propriamente estetica che essa «risponde a una certa libertà nell’interpretazione dei rapporti tra forma e funzione». Pensiamo che il rifiuto del non figurativo è un’affermazione della libertà, un rifiuto del ritmo puro, salvataggio delle possibilità della libertà.
Il rimprovero fatto alla pittura astratta dunque è quello di avere un legame con il naturale estremamente precario. Un aspetto ci sembra importante: precisare che cosa intende Lévi-Strauss con la nozione di natura sulla quale si fondano i sistemi di base che assicurano ad ogni opera d’arte il potere reale di comunicare.
Per Lévi-Strauss la natura, che prende un senso strettamente positivista, si confonde con questo reale oggettivo comune sul quale si aprono i nostri sensi e che l’intelletto maggiormente spiega e l’inserisce in una rete di leggi sempre più dense. Ora questo punto domina l’idea che ci si fa della natura del mito, dei rapporti di quest’ultimo con la musica e finalmente sino alla significazione che si riconosce all’arte.
Nei Colloqui con Charbonnier, Lévi-Strauss ammette che la sua indifferenza per la pittura astratta possa essere il risultato della sua formazione personale, la conseguenza della biografia di un amatore i cui ultimi oggetti di entusiasmo, della serie delle innovazioni della storia delle arti, gli sembrano essere i quadri cubisti e le esperienze surrealiste. Sicuramente, nel determinare una presa di posizione tanto dura nei confronti delle ultime tendenze artistiche, il momento biografico è importante.
Ma, ci sembra che ridurre tutta l’analisi e la successiva condanna a fatti di ordine personale (come hanno fatto alcuni commentatori quali Caillois o Leach, e per alcuni aspetti anche Sergio Moravia) significhi sminuire il senso e l’ampiezza del pensiero lévi-straussiano, che trova radici profonde non solo nelle ricerche etnologiche, ma in tutta la costruzione della sua tesi.
In un capitolo dei Colloqui, dal titolo «Le tre differenze», Lévi-Strauss considera la maggior parte della pittura occidentale, storicamente data, soggetta a tre caratteristiche dominanti. Le prime due sono: l’individualismo della produzione e il figurativismo. La terza è l’accademismo, l’imitazione dei modelli figurativi stabiliti.
Così, l’impressionismo viene a rappresentare la liquidazione dell’accademismo, e il pittore impressionista colui che cerca di sfuggire alla visione dell’oggetto visto tramite la scuola; ma appena il cubismo, ritrovando la verità semantica dell’arte, va al fondo delle cose, nasce una delle tendenze della degenerazione: la perdita di significazione. In più il cubismo non è stato capace di superare l’ostacolo decisivo: l’assenza di funzione collettiva dell’opera d’arte.
La ragione di ciò — ci spiega Lévi-Strauss — è che l’accademismo e il figurativismo sono stati superati perché appartengono a ciò che i marxisti chiamerebbero ordine delle sovrastrutture, mentre… la funzione collettiva dell’opera d’arte, appartiene alle infrastrutture. Ormai non basta un’evoluzione puramente formale, non basta il dinamismo proprio alla creazione estetica per superarla. Nel momento in cui ci scontriamo con questa opposizione, l’arte, se mi consente l’espressione, s’innesta sulla realtà sociologica e si rivela impotente a trasformarla.
L’accademismo della pittura preimpressionista era, per usare il linguaggio dei linguisti, un «accademismo del significato»: gli oggetti stessi — viso umano, fiori, vaso — che si sforzavano di rappresentare, erano visti attraverso una convenzione e una tradizione; mentre con l’abbondanza di maniere che vediamo sorgere in una certa epoca e in un certo momento nei creatori contemporanei, l’accademismo del significato sparisce, ma a profitto di un nuovo accademismo che chiamerei «l’accademismo del significante».
Che poi è l’accademismo del linguaggio; in uno Stravinsky o in un Picasso, osserviamo una consumazione quasi bulimica di tutti i sistemi di segni che sono stati e che sono utilizzati dall’umanità da quando possiede un’espressione artistica e ovunque ne possieda una.
L’accademismo del linguaggio prende il posto dell’accademismo del soggetto: essendo rimaste individuali le condizioni della produzione artistica, non vi è nessuna possibilità che un vero linguaggio s’instauri, poiché il linguaggio è un fatto di gruppo e un fatto stabile.
Questo nuovo accademismo sta alla base della critica che Lévi-Strauss rivolge alla pittura astratta, non tanto nei Colloqui con Charbonnier, quanto ne II pensiero selvaggio e nell’Ouverture a II crudo e il cotto. Scrive infatti in una nota del Pensiero selvaggio: La pittura non figurativa usa «maniere» in guisa di «soggetti»; essa pretende di dare una rappresentazione concreta delle condizioni formali di ogni pittura.
Ne risulta paradossalmente che la pittura non figurativa non crea, come crede, opere altrettanto reali (o addirittura più reali) degli oggetti del mondo fisico, ma imitazioni realistiche di modelli inesistenti. È una scuola di pittura accademica, in cui ogni artista s’ingegna a rappresentare la maniera in cui eseguirebbe i quadri, se per caso ne dipingesse.
È nell’analizzare la produzione pittorica di Picasso che l’antropologo, cercando di adoperare una strumentazione linguistica, scrive: Il problema che pone Picasso — e il cubismo, e la pittura in generale al di là del cubismo — è di sapere fino a che punto l’opera compie essa stessa un’analisi strutturale della realtà. In altri termini, è essa per noi un mezzo di conoscenza?
È un’opera che apporta meno per quanto riguarda il messaggio originale che per quanto essa si dedichi a una specie di triturazione del codice della pittura. Una interpretazione al secondo livello; un ammirevole discorso sul discorso della pittura, molto più che un discorso sul mondo. Ecco per quanto riguarda il punto di vista sincronico.
Ma non è forse questo il senso del passaggio dell’arte moderna e delle attuali ricerche estetiche? Passaggio da un livello espressivo ad un livello analitico, passaggio dal fare arte al fare un discorso sull’arte. Discorso sul discorso della pittura, momento critico dell’artista teso a individuare le possibilità pratiche, e quindi teoriche, fornitegli dalla materia. Ma, purtroppo, questa felice intuizione del livello sincronico dell’opera di Picasso, ed è facile intendere con essa anche tutta la produzione artistica che si è inserita in questa linea, non è oggetto di ulteriore analisi.
E, per Lévi-Strauss, la pittura di Picasso diventa semplicemente interior decoration, decorazione per l’interno delle abitazioni.
Che il cubismo abbia influenzato lo strutturalismo per il modo stesso di individuare un’immagine più vera dietro il mondo, quali che siano i mezzi che ha impiegato, sembra un fatto innegabile anche per lo stesso Lévi-Strauss. Ma è qui che la separazione di due linee diventa determinante.
La possibilità di riconoscere a queste due direzioni una matrice comune nelle procedure cubiste è, da Lévi-Strauss, decisamente negata: Tra i miei colleghi strutturalisti, alcuni considerano che il cubismo e altri aspetti della pittura moderna abbiano esercitato su di loro una influenza determinante, incitandoli a ricercare dietro le apparenze sensibili un’organizzazione più solida del reale, situata a un livello profondo.
Nel mio caso, l’influenza decisiva è venuta dalle scienze naturali: ciò che mi ha reso strutturalista, è meno lo spettacolo delle opere di Picasso, di Braque, di Léger o di Kandinsky, che quello delle pietre, dei fiori, delle farfalle o degli uccelli. Ci sono dunque, all’origine del pensiero strutturalista due stimoli molto differenti: l’uno più umanistico, direi volentieri, l’altro volto verso la natura.
Questo riferimento costante alla natura, nella prospettiva da noi presa in considerazione, diventa un riferimento costante alla pittura figurativa e più precisamente a quella surrealista e a quella naïf da un lato, ed alla pittura intesa come riduzione di modelli dall’altro.
L’accento posto a più riprese sulla imprevedibilità dell’operare artistico, sul caso, il «rischio oggettivo», tipico dei surrealisti, è un’altra faccia di questa concezione. Già nel Pensiero selvaggio Lévi-Strauss si era espresso al riguardo: Una volta realizzato (il risultato, l’opera), questo divergerà inevitabilmente dall’intenzione iniziale (un semplice schema, d’altronde), effetto che è stato chiamato dai surrealisti con espressione felice «rischio oggettivo».
E in un articolo scritto in occasione della mostra «Hommage à Picasso» del 1966: Spesso si crede che poiché esistono delle leggi che rendono conto della natura e della struttura dell’opera d’arte, si possano creare delle opere d’arte applicando delle leggi o fingendole, o scopiazzando delle ricette, mentre il vero problema che pone la creazione artistica risiede, per quanto mi pare, nell’impossibilità di pensare in anticipo il suo risultato.
Anche nel Finale dell’Uomo nudo, l’intervento a questo proposito sembra andare nella stessa direzione, in questa sorta di condanna di ogni operazione artistica che partendo dalla struttura mira alla realtà oggettiva: C’è purtroppo da temere che molte opere contemporanee, non soltanto in letteratura ma anche in pittura e nella musica siano vittime dell’ingenuo empirismo degli autori. Visto che le scienze umane hanno evidenziato certe strutture formali dietro le opere d’arte, ci si precipita a fabbricare opere d’arte partendo da strutture formali.
Ma non è affatto certo che queste strutture coscienti e costruite artificialmente alle quali ci si ispira siano dello stesso tipo di quelle che hanno agito nella mente del creatore, di solito a sua insaputa, e che si vengono scoprendo quando l’opera è terminata.
Le radici di questa critica all’arte che pretende di conoscere in anticipo i suoi risultati, e all’arte che parte da strutture formali per la costruzione dell’opera, possiamo ritrovarle già nei Colloqui con Charbonnier, dove esprimendosi sulle motivazioni dell’emozione estetica dice: Il fatto è che all’improvviso quest’oggetto ci appare come struttura, e il riconoscere la struttura nell’oggetto ci procura l’emozione estetica, ma questo è un effetto del caso.
L’analisi di Lévi-Strauss non si ferma però a questo punto, anzi, egli sembra voler fornire all’arte contemporanea le chiavi per l’apertura delle porte di ferro della gabbia in cui è andata a cacciarsi. Le «tensioni» che si sono sviluppate all’interno delle correnti artistiche di questi ultimi decenni, hanno creato — per l’antropologo francese — un falso o inesistente o scorretto rapporto con la natura.
Quindi, tutte le speranze di una possibile ripresa dell’arte, sono da considerare in realizzazione se essa riprende contatto con la natura allo stato bruto, impossibile nel senso stretto del termine; insomma, diciamo uno sforzo in questo senso.
Che cosa voglia significare questo contatto con la natura, diventa sicuramente una riflessione obbligatoria, soprattutto perché — per Lévi-Strauss — una delle esigenze principali per l’inserimento dell’arte in questa traiettoria rigenerativa, sembra essere la distruzione del mercato e delle sue leggi.
Soffermiamoci sul primo punto: la ripresa di contatto con la natura. Questa indicazione di sapore tipicamente rousseauiano, si situa come l’implicazione dell’aspetto già esaminato prima per la significazione del linguaggio pittorico.
È sotto questa luce che la stessa separazione tra natura e cultura, che è alla base delle tesi delle Strutture elementari della parentela, diventa complementare alla divisione operata per il linguaggio: Questa frattura, oltre che essere considerata riscontrabile nel passato dell’arte, viene prescritta da Lévi-Strauss come schema insuperabile per qualsiasi arte futura.
Perciò Lévi-Strauss azzarda anche una formulazione teorica del fenomeno estetico, e ciò lo costringe ad introdurre nel suo discorso la valutazione estetica, divenendo necessario rendere ragione dei motivi per i quali un’opera odierna, informale o comunque non naturalistica, ad articolazione unica, non è un’opera artistica (mentre artistici sarebbero, naturalmente, quei dipinti di Ingres e di Joseph Vernet di cui egli parla con tanta nostalgia nei «Colloqui»).
Un’arte tutta «culturale» e che, in definitiva, non si pone il problema del rapporto con la natura o con la naturalità è destinata inevitabilmente a perire: Infatti, l’arte tende attualmente a non essere più… l’oggetto sfugge completamente, e tende a non essere più che un sistema di segni. E ancora: G. C.: In questo caso, direbbe che l’arte è sempre un linguaggio? Che costituisce un linguaggio? Cl. L.-S.: Certamente. Ma non un linguaggio qualunque.
Abbiamo già parlato di questo carattere artigianale che, forse, è il denominatore comune a tutte le manifestazioni estetiche: cioè il fatto che, nell’arte, l’artista non possa mai integralmente dominare i materiali e i procedimenti tecnici che impiega. Se avesse questa capacità — e qui entreremmo nella ragione della generalità del fenomeno… G. C.: Se l’avesse non ci sarebbe più arte! Cl. L.-S.: Se l’avesse, giungerebbe a un’imitazione assoluta della natura.
Ci sarebbe identità fra il modello e l’opera d’arte e, di conseguenza, riproduzione della natura, non più creazione di un’opera culturale vera e propria; d’altra parte però, se il problema non si ponesse, cioè se non dovesse esserci relazione alcuna fra l’opera e l’oggetto che l’ha ispirata, non ci troveremmo più di fronte a un’opera d’arte, ma a un oggetto di ordine linguistico.
La caratteristica del linguaggio — come Ferdinand de Saussure ha ben dimostrato — è di essere un sistema di segni senza rapporti materiali con ciò che devono significare. Se l’arte fosse un’imitazione completa dell’oggetto, non avrebbe più il carattere di segno.
Tanto che possiamo considerare l’arte come un sistema significativo, ossia un insieme di sistemi significativi, però, sempre a metà strada fra il linguaggio e l’oggetto.
La relazione tra l’opera d’arte, la natura e la cultura, proprio come tale, non può non far intervenire l’etnologo che non può certo disinteressarsene, prima di tutto perché l’arte fa parte della cultura, e poi forse anche per una ragione ancora più precisa: l’arte rappresenta al massimo grado questa presa di possesso della natura tramite la cultura, e cioè un tipico esempio dei fenomeni studiati dall’etnologo.
Ma se l’arte è un fatto di cultura, perché mai dovrebbe aspirare ad un rapporto con la natura? Questo rapporto, per la pittura, non esiste già nell’uso dei materiali?.
La relazione con la natura è, per Lévi-Strauss, innanzitutto un fatto di immediatezza, di freschezza, di naïveté, una natura, in ultima analisi, priva di manipolazioni e interpretazioni, e non è un caso che sia il protagonista maschile del film di Wiler «The Collector» ad attirare tutte le sue simpatie.
Lui è la natura, lei è la cultura. Lui non ha mai visto quadri e non si è mai interessato ai libri (che non sa leggere), lei non s’interessa che a libri di arte ed alle riproduzioni di quadri che si trovano all’interno (soprattutto Picasso). Lui colleziona farfalle e dedica la sua passione solo alle bellezze della natura che può possedere (insetti, farfalle, uccelli, la bella ragazza), lei vive attraverso le riproduzioni di opere (i cui originali non può possedere perché troppo cari). In sintesi, lui vive l’immediatezza, la veracità e il possesso della natura, lei vive la falsità, la reinterpretazione, la manipolazione ed infine il non possesso della cultura.
Ora, Lévi-Strauss, in questa schematica opposizione dei personaggi del film di Wiler, è tutto schierato dalla parte di lui, cioè per la riappropriazione della naïveté, della freschezza, in fondo, della natura. Dall’altro lato non sarebbe difficile incasellare Picasso che, visto in questa prospettiva come un testimone del nostro tempo, diventa una mediazione verso il falso sentimento del bello (la riproduzione al posto della realtà), e il rappresentante del falso gusto del tempo in cui viviamo. Nel protagonista maschile invece (rapisce e sequestra la bella ragazza che gli abbiamo contrapposto), che vive l’immediatezza del rapporto con la natura, è facile rilevare un sentimento più giusto del vero e del bello.
Un’altra testimonianza, se così possiamo chiamarla, di Picasso è rappresentata dal suo rapporto con la società, e con questo veniamo al nostro secondo punto: il mercato dell’arte.
Queste opere, troppo care, non si possono possedere e, per Lévi-Strauss, se non si possono possedere non si possono godere. Infatti il momento del possesso, al centro dell’ipotesi lévi-straussiana, diventa fondamentale per la fruizione estetica: tutto il resto è falso.
Senza il possesso dell’oggetto artistico, il godimento viene, per forza, a puntarsi sulla sua riproduzione, che non è la tela del maestro, ma la falsa immagine che questa società ci fornisce: l’elemento di possesso che appartiene al campo della sessualità, è anche un aspetto essenziale della nostra relazione al bello.
L’incontro col surrealismo
Come sfuggire a delle condizioni che sembrano insuperabili, lo indica lo stesso Lévi-Strauss, che vede nelle tele di Max Ernst e di Paul Delvaux una freschezza inesistente presso Picasso. L’antidoto pare essere questo: una pittura minutamente figurativa, ma in cui l’artista, invece di mettersi davanti ad un paesaggio e di darne una visione più o menò trasposta e interpretata, comincerebbe a creare dei super-paesaggi, come del resto la pittura cinese non ha mai smesso di fare.
È piuttosto in questa direzione che vedrei una soluzione della contraddizione attuale: una specie di sintesi della rappresentatività, che potrebbe di nuovo essere spinta a un punto estremo, e della non rappresentatività, che agirebbe sul piano della libera combinazione degli elementi.
Bisogna, però, fare attenzione a non inserire la nozione lévi-straussiana di arte nella casella della restaurazione, anche se molti fili della tela che stiamo costruendo ci tentano in tale direzione. A nostro avviso infatti per completare il discorso sull’attenzione riservata dal padre dell’antropologia strutturale alla pittura, è necessaria anche una messa a fuoco sull’influenza e l’interesse che il surrealismo ha esercitato sulla sua opera.
Più reale che supposta, questa influenza dovuta alla determinante amicizia con André Breton, trova certezza nel clima culturale che si sviluppa in Francia intorno al movimento surrealista tra il 1920 e il 1935. I rapporti di Lévi-Strauss con i surrealisti, anche se sporadici ed occasionali, determinano, in ultima istanza, una rete di convinzioni che, non a caso, fanno riconoscere nel sogno, nell’invenzione, e nell’immaginazione, i temi centrali di un’ipotetica pittura.
Non volendo, qui, ricostruire l’intero clima di rapporti che legano la nascita della «nuova etnologia» agli sviluppi del movimento surrealista, operazione, del resto, già perfettamente compiuta da Sergio Moravia ne La ragione nascosta, ci limiteremo ad individuare quei temi che, traendo origine dall’area surrealista, diventano negli scritti di Lévi-Strauss oggetto di interesse e fondano le relazioni che contribuiscono, ed in misura non irrilevante, ad una configurazione di una teoria dell’arte, per alcuni aspetti, vicina a quella surrealista.
Le notissime pagine di Tristi Tropici in cui Lévi-Strauss rende conto delle origini della sua vocazione di etnologo, sono, per lo più, dedicate all’evoluzione intellettuale che gli stimolarono le letture di Freud, la scoperta di Marx e la passione per la geologia.
Quando conobbi le teorie di Freud, esse mi sembrarono semplicemente l’applicazione di un metodo di cui la geologia rappresentava il canone. Sia nel caso della psicanalisi che in quello della geologia, infatti, lo studioso si trova subito davanti a fenomeni in apparenza impenetrabili; in tutti e due i casi, per catalogare e valutare gli elementi di una situazione complessa, egli deve mettere in opera qualità raffinate: sensibilità, intuito, e gusto.
Eppure, l’ordine che si stabilisce in un insieme, a prima vista incoerente, non è né contingente né arbitrario. A differenza della storia degli storici, quella del geologo come quella dello psicanalista, cerca di proiettare nel tempo, un po’ come in un quadro vivente, certe proprietà fondamentali dell’universo fisico o psichico…
D’accordo con Rousseau, e in forma che mi pare decisiva, Marx ha insegnato che la scienza sociale non si edifica sul piano degli avvenimenti, così come la fisica non è fondata sui dati della sensibilità: lo scopo è di costruire un modello, di studiare le sue proprietà e le sue diverse reazioni in laboratorio, per applicare poi quanto si è osservato all’interpretazione di ciò che avviene empiricamente e che può essere molto lontano dalle previsioni.
A un diverso livello di realtà, il marxismo mi sembrava procedesse allo stesso modo della geologia e della psicanalisi intesa nel senso che il suo fondatore le aveva dato: tutti e tre dimostrano che comprendere vuol dire ridurre un tipo di realtà ad un altro; che la realtà vera non è mai la più manifesta: e che la natura del vero traspare già nella cura che mette a nascondersi.
Se i grandi ispiratori della vocazione etnologica lévi-straussiana sono Marx e Freud, nell’esperienza surrealista accanto ai padri riconosciuti come Rimbaud, Jarry e Lautréamont, non ci risulta difficile inserire, con posizione fondante, Marx e Freud. Marxismo e psicoanalisi per i surrealisti, marxismo e psicoanalisi per il giovane antropologo.
Ma è sul rapporto tra queste due scienze che ci sembra determinante l’influenza del surrealismo. Il gruppo raccolto intorno alla rivista «La Révolution Surréaliste» fu il primo a cercare di elaborare un rapporto tra il marxismo e la psicoanalisi, e il gruppo, proprio in questi anni, di cui ci parla Lévi-Strauss quando scrive, il periodo dal 1920 al 1930 in Francia è stato quello delle teorie psicoanalitiche, cercò di praticare più intensamente questa relazione.
Ma se i surrealisti troveranno come campo di pratica del marxismo e della psicoanalisi l’immaginario e il meraviglioso, Lévi-Strauss troverà nell’etnologia il campo di pratica delle tre scienze (psicoanalisi, marxismo, geologia) attraversate però dal fecondo incontro con Roman Jakobson e quindi dalla fonologia e dalla linguistica strutturale.
Ora, una volta individuate addirittura le matrici comuni, alle quali sia lo strutturalismo di Lévi-Strauss che il surrealismo fanno capo, ci chiediamo perché la risposta al processo intentato da Caillois contro la nuova etnologia e sull’influsso avuto dal surrealismo su di essa, è così irriverente e violenta.
In primo luogo, perché nel suo scritto Caillois non sembra, o non vuole, essere molto informato sulla vita giovanile di Lévi-Strauss; in secondo luogo, perché l’apparentamento con etnologi (Marcel Griaule, Alfred Metraux, Michel Leiris, Georges-Henri Rivière) che realmente e con una certa continuità hanno avuto rapporti con il surrealismo e i cui nomi realmente, come scrive Caillois, figurano nel sommario di riviste come «La Révolution Surréaliste», «Documents» e «Minotaure», è sotto molti aspetti non preciso: Lévi-Strauss, come scrive nella sua risposta, non ha mai collaborato a nessuna di queste riviste.
Ma nonostante l’avventura surrealista, con le sue implicazioni teoriche e filosofiche, sia entrata in diretto contatto con Lévi-Strauss solo nel 1941, tramite l’amicizia con André Breton, il carattere che si attribuiva all’uso della psicoanalisi da parte dell’animatore del surrealismo e del giovane antropologo, come ci ricorda Moravia, non sembra essere dissimile: Quanto ad André Breton, egli scopre con preveggente lucidità l’importanza rivoluzionaria della psicanalisi freudiana nella prospettiva di una conoscenza non deformata dai diaframmi intellettualistici dell’uomo «autentico».
Proprio negli stessi anni in cui Marcel Mauss auspicava l’avvento di una psicologia non intellettualistica e rilevava l’importanza dello studio antropologico dei fenomeni inconsci, Breton saggia i modi e le forme di una analisi sistematica dell’io. «Sta a noi — scriverà nel secondo «Manifesto» —… cercare di discernere sempre più chiaramente ciò che si trama all’insaputa dell’uomo nel profondo del suo spirito».
Anche se le fonti ispiratrici dichiarate sono altre, il compito che Lévi-Strauss assegnerà un giorno all’antropologia strutturale non risulterà diverso da quello indicato qui.
Ma, in realtà, dei suoi rapporti con il surrealismo, per Lévi-Strauss, tutto sembra risalire alla sua partenza per l’America del 1941 e alla sua amicizia con André Breton: La «marmaglia» come dicevano le guardie, annoverava fra gli altri André Breton e Victor Serge. André Breton, molto a disagio su questa galera, deambulava in lungo e in largo nei rari spazi vuoti del ponte; vestito di felpa, sembrava un orso blù. Un’amicizia che si prolungò per parecchio tempo nel corso di questo interminabile viaggio, cominciò fra noi con uno scambio di lettere nelle quali discutevamo dei rapporti fra bellezza estetica e originalità assoluta.
I frequenti richiami a Rimbaud, ai naïfs e soprattutto a Max Ernst, a Paul Delvaux e Henri Rousseau, si spiegano solo con questa «amicizia», poiché si tratta o di pittori surrealisti, o di artisti, come Rousseau o Rimbaud, che ricevettero dal surrealismo il più grosso tributo e la più specifica rivalutazione. Ma la più importante conferma di questa presenza, direi esplicita, del surrealismo nell’opera di Lévi-Strauss, ci è fornita da una delle più solenni occasioni: la Lezione Inaugurale del 1960.
Certo, abbiamo acquistato una coscienza diretta delle forme di vita e di pensiero esotiche, che ai nostri predecessori mancava; ma ciò non dipende anche dal fatto che il surrealismo — cioè un momento evolutivo interno alla nostra società — ci ha trasformato la sensibilità, in quanto ha avuto il merito di scoprire, o di riscoprire, in seno ai nostri studi, un lirismo e una probità?.
Lo stesso interessamento per la pittura figurativa sembra essere uno dei ricordi di questo scambio di lettere con il padre del surrealismo, il sentirsi vicino al surrealismo dal punto di vista del gusto estetico, l’amore per l’arte naïf, si inseriscono in questa linea: direi che l’arte naïf mi riguarda più dell’arte astratta, che non amo; l’arte astratta non mi interessa, mentre l’arte naïf mi dà certe emozioni. E qui, se vuole, qui riconosco che devo un debito ai surrealisti, perché per questo è veramente Breton che mi ha insegnato a non interessarmi che ad un’arte figurativa.
tratto dal numero 42